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mercoledì 1 aprile 2015

Gemma Bovery

Regia: Anne Fontaine
Origine: Francia
Anno: 2014
Durata:
99'





La trama (con parole mie): Martin Joubert, parigino d'adozione tornato da sette anni nel paese delle sue origini, in Normandia, da sempre legato al mondo letterario eppure felice di godersi la pace dei sensi e dell'anima grazie alla manualità della panificazione, si ritrova l'esistenza sconvolta dall'arrivo di due nuovi vicini, una coppia di sposi inglesi dal cognome evocativo, Bovery.
Entrambi legati al mondo dell'arte, Charles e Gemma appaiono felici e complementari, almeno fino a quando Martin nota una sorta di solitudine nello sguardo della giovane donna che lo porta ad associare la stessa con la protagonista di uno dei suoi romanzi di riferimento: quando il legame tra Charles e Gemma vacillerà a causa della storia di quest'ultima con il giovane Hervè, Martin si prodigherà cercando di intervenire, finendo per complicare ancor di più la situazione.
Come reagirà Gemma? E quale destino letterario si prospetta per l'eroina di questa improvvisata epopea romantica?









Se c'è una cosa che, per quanto potrò per sempre detestare i nostri cugini d'oltralpe, il Cinema francese continuerà ad avere rispetto a quello made in Terra dei cachi, è un tocco di classe che possiamo e potremo decisamente soltanto invidiare.
Ho approcciato Gemma Bovery con estremo ritardo rispetto all'uscita in sala, conteso idealmente tra le recensioni positive di un cinefilo fidato come il Bradipo ed uno assolutamente inaffidabile come il Cannibale, in una serata basata sul ripiego, con Julez destinata al riposo sul divano e nessun film dall'hype particolarmente alto in rampa di lancio, ed ho finito per godermelo giusto poco meno dell'ottimo Nella casa firmato da Ozon, uno dei cineasti transalpini più interessanti al momento in circolazione.
Non so se il magnetismo offerto da questa pellicola - peraltro firmata da Anne Fontaine, responsabile di quell'obbrobrio di Two mothers - sia stato guidato dai riferimenti letterari - pur non avendo mai letto Madame Bovary, resto profondamente legato al periodo della mia vita in cui la Letteratura fungeva da cartina tornasole per le mie giornate anche più di quanto il Cinema faccia oggi - o dalle curve armoniose e decisamente invitanti di Gemma Arterton - essendo da sempre preferibilmente un felliniano, donne di questo genere hanno il potere di toccare tasti decisamente "dolenti" -, ma il risultato non cambia: Gemma Bovery è stata una delle sorprese più interessanti di questi primi mesi del duemilaquindici, una pellicola capace di prendersi il suo tempo neanche ci trovassimo nel pieno di una seduzione, in grado di fotografare alla grande le illusioni maschili e la praticità femminile, e di mantenere l'equilibrio tra la tensione del thriller sentimentale e le risate della commedia romantica.
La figura di Gemma, al centro di una vicenda della quale, almeno in una certa misura, è spettatrice, e quella di Martin, spettatore per inclinazione ed indole, hanno finito per toccare nel profondo le due anime di questo vecchio cowboy, cresciuto come il secondo e vissuto davvero come la prima, passato dal timore di esporsi all'assoluta noncuranza delle conseguenze: e questo film è interessante proprio perchè in grado di mostrare le due cose senza prendere una posizione, ironizzando e drammatizzando senza disequilibri, sfruttando i cani come metronomi - del resto, siamo animali sociali - senza risparmiare nulla agli esseri umani, che finiscono per sentirsi sempre un passo avanti anche quando si trovano dieci indietro - condizione, questa, prevalentemente diffusa nel genere maschile -.
Di pari passo, inoltre, con la levità e l'approccio apparentemente soave del Cinema francese troviamo una fisicità che quasi ci riporta al burro di Bertolucci e di Marlon Brando, nascosto dietro un paio di mosse della Arterton che porterebbero alla resa molti - se non tutti - quelli che leggeranno queste righe: Gemma Bovery, con la sua beffa nel finale ed un dramma profondamente romantico mascherato da leggerissima commedia primaverile, riporta ad una dimensione decisamente semplice quello che i grandi scrittori hanno deciso di trasformare in materia alta pur essendo consci dell'inutilità dell'impresa.
In fondo, come giustamente ricorda il Professor Keating, scrivere è un modo ideale per "rimorchiare le donne", o almeno per credere di poterlo fare: nessuno, del resto, avrà mai alcune risposte, da una possibile conquista, ad un'innamorata, a qualcuno che pensiamo di conoscere, e invece è da un'altra parte, in un altro luogo.
Gemma Bovery è proprio così: pensiamo di averlo compreso, di aver decifrato l'enigma, ed invece è tutto lì, in un pezzo di pane.
La soluzione più tragicamente semplice alla volontà più intensa che si possa pensare: quella legata alla vita.
Peccato che non sempre si abbia la possibilità di concretizzarla: come un amore solo immaginato, o sfiorato, o sfiorito, o tramontato troppo presto.
Del resto, anche quando si crede di sì, non si dettano mai le regole.
Alla vita come al cuore e al basso ventre.
Ed è questo, il bello di Gemma Bovery.
Il dramma dell'impossibilità di fronte alla gioia della primavera.
Quasi il segreto della passione.




MrFord




"L'uomo che cammina sui pezzi di vetro
dicono ha due anime e un sesso di ramo duro in cuore
e una luna e dei fuochi alle spalle
mentre balla e balla,
sotto l'angolo retto di una stella."
Francesco De Gregori - "Pezzi di vetro" - 





venerdì 26 aprile 2013

Nella casa

Regia: Francois Ozon
Origine: Francia
Anno: 2012
Durata:
105'




La trama (con parole mie): Germain, professore insoddisfatto di letteratura dalle ambizioni di scrittore naufragate scopre di avere un potenziale talento letterario in classe, il sedicenne Claude.
Quest'ultimo, insinuatosi nella vita della famiglia apparentemente perfetta di un suo compagno di studi, finisce un passo dopo l'altro per entrare - in tutti i sensi - nella casa non solo degli Artole, queste le borghesi vittime bersaglio dei suoi scritti, ma dello stesso professore e di sua moglie, completamente sedotti dai racconti del giovane scrittore.
Il rapporto tra insegnante ed allievo e quello dello stesso allievo con i protagonisti del suo lavoro finirà per cambiare le vite di tutti, così come quello che, di fatto, da gioco al massacro della classe borghese diverrà uno specchio pronto a condurre ad un'analisi di se stessi rispetto alla società i suoi protagonisti.




Francois Ozon è decisamente un'eccezione, qui al Saloon.
Il regista francese classe 1967, infatti, rappresenta in tutto e per tutto la quintessenza del radicalchicchismo, dalle scelte stilistiche all'approccio, dal gusto alla messa in scena, eppure non c'è un solo titolo tra quelli della sua filmografia che abbia avuto modo di vedere fino ad ora che mi abbia deluso: una vera rarità, considerata la passione che continuo a coltivare per le bottigliate rifilate quanto più spesso e volentieri possibile ai cineasti snob ed amati da quella fetta di pubblico che di norma neppure troppo cordialmente detesto.
Eppure il tocco dell'autore parigino, tra i pochi nel panorama attuale della settima arte a riuscire a sposare alla perfezione Teatro e Cinema, ha il potere di superare ogni barriera pregiudiziale e, sfruttando una sempre sagace ironia di fondo, conquistare inesorabilmente a prescindere dal suo background: dallo splendido Sotto la sabbia al divertissement d'autore 8 donne e un mistero, passando per il toccante Ricky - Una storia d'amore e libertà, Ozon si è saputo confrontare, fin dagli inizi della sua carriera, con generi anche molto diversi tra loro riuscendo sempre a farli propri.
Non è da meno questo sorprendente Nella casa, uno dei titoli più interessanti tra quelli usciti in sala in questa prima parte dell'anno nonchè in grado di mettere d'accordo perfino due nemici giurati come il sottoscritto ed il Cannibale, entrambi pronti a riconoscere l'assoluto valore di questa intrigante favola nera dai risvolti di critica sociale: perfino Julez, normalmente più refrattaria all'autorialità fine a se stessa ancor più di questo vecchio cowboy, si è ritrovata completamente catturata da uno script ad orologeria che mescola l'analisi da palcoscenico del salotto borghese ad un incedere da thriller inchiodando alla poltrona l'audience tanto quanto il professor Germaine, passo dopo passo stregato dalla cronaca che il suo giovane allievo Claude porta su carta a testimoniare il progressivo insinuarsi di quest'ultimo nel cuore del nucleo della famiglia Artole, imponendosi dapprima su Rapha figlio, dunque su Rapha padre e completando l'opera con l'inizialmente scettica Esther - un'ottima Emmanuelle Seigner -.
L'alternanza del racconto e delle vicende ambientate nel presente di narrazione, inoltre, contribuisce a rendere ancora più appassionante l'evoluzione della storia, sfruttando almeno un paio di twist clamorosamente ad effetto che rendono benissimo l'idea del potere che lo scrittore ha rispetto ai suoi personaggi: come se non bastasse, l'anima nera e politica del lavoro di Ozon prende forma colpendo allo stesso modo sia le "vittime" di Claude che lo stesso giovane ed il suo professore, almeno sulla carta carnefici, sconvolgendo il primo dal punto di vista sentimentale ed il secondo minando lo status sociale che gli permette in qualche modo di sfruttare il potere della contestazione - come nel caso dell'istituzione scolastica e del preside del liceo in cui lavora, o rispetto alla questione dell'introduzione delle divise per gli alunni -.
Eppure, nonostante tutto, la carica voyeuristica del ruolo di deus ex machina di una storia non si ferma neppure di fronte al dramma e alla sconfitta, e per Germaine e Claude continua a pulsare nelle vene e nel cervello la passione per l'elaborazione ed il ruolo di interpreti delle "vite degli altri" - per citare l'ottima citazione di Poison - a comporre un quadro in movimento che chiude splendidamente la pellicola aprendone, almeno in potenza, centinaia di altre, in un gioco che strizza di nuovo l'occhio al Teatro e al concetto che fu la base di pietre miliari come La finestra sul cortile o della poetica di registi come Brian DePalma, da sempre influenzato dal suo lato "Peeping Tom", per usare un'ulteriore citazione cinematografica.
Un lavoro intelligente, funzionale, coinvolgente, teso tanto da sfiorare il thriller in più di un'occasione quanto divertente e noir sulla scia delle prime commedie targate Almodovar, teatrale nell'approccio eppure estremamente cinematografico nella resa conclusiva, profondamente francese e radical chic ma mai spocchioso o supponente, ben interpretato e soprattutto giocato su una sceneggiatura davvero esemplare: complimenti dunque ad Ozon, architetto di questo gioiellino destinato a risultare come uno dei titoli d'essai più interessanti di questo 2013 nonchè di una delle rarissime proposte in grado di unire gli alfieri del pane e salame ed i salottiani del radical chic.


MrFord


"I used to explode, I never let go
I let the tec go back because I said so
yeah I'm a hoodlum, but I'm a good one
so punks gunnin for my run I wish they would come."
Run DMC - "In the house" -


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