Settimana piuttosto contenuta per il Bulletin, complici gite fuori porta e serate lontane dal Saloon. Questo, fortunatamente, non ha inciso sulla qualità, alta per entrambi i titoli passati a questo giro in casa Ford.
Potesse essere sempre così, potrei quasi metterci la firma.
MrFord
THE OLD MAN AND THE GUN (David Lowery, USA, 2018, 93')
E' difficile incrociare il cammino di titoli che paiono usciti da un'altra epoca pur riuscendo a rimanere attuali, credibili, presenti quando li si guarda: complice l'incredibile livello di coolness di Robert Redford, alla veneranda età di ottantatre anni più figo di molti colleghi decisamente più giovani, il lavoro di David Lowery si presenta leggero e malinconico, old school eppure attuale, fuori tempo massimo eppure emozionante e magico, una sorta di cocktail tra I ponti di Madison County e Fuga da Alcatraz. La vicenda di Forrest Tucker è un viaggio nella provincia americana, lungo il confine del western moderno, nel Cinema made in USA anni settanta, ma prima ancora nel cuore di quella passione che porta alcuni di noi - e li capisco tutti bene, dal primo all'ultimo - a buttarsi nella vita a capofitto. Nessuna prigione che tenga, nessuna fuga cui si possa resistere.
COLD WAR (Pawel Pawlikowski, Polonia/UK/Francia, 2018, 89')
Pawlikowski mi aveva già colpito ai tempi di Ida, e qui al Saloon non aveva certo bisogno di presentazioni.
Cold war, giunto in colpevole ritardo da queste parti, ha mantenuto le promesse della vigilia: fotografia pazzesca, grande classe, una storia che pare Casablanca filtrata attraverso la cortina di ferro, il dramma che le donne sognano per le storie romantiche e gli uomini inseguono a tempo perso, tra una sbronza e la sensazione di solitudine che li prende quando non finiscono a letto con qualcuna.
Impressionanti i protagonisti - Joanna Kulig è splendida -, impegnativo l'approccio - non sarà mai un film per tutti -, potente l'impatto emotivo.
E' uno di quei film cui non è possibile resistere neppure volendo, neppure da stanchi, neppure quando ci si vorrebbe distrarre. E' l'ipnosi che solo l'autentica bellezza può portare in dote.
La trama (con parole mie): Woody Grant è un vecchio ex meccanico alcolizzato, sposato da una vita con l'arcigna e tenace Kate e padre di Ross, conduttore di un telegiornale regionale, sposato ed economicamente ben messo, e David, da poco tornato single, commesso di un negozio di elettronica.
Quando l'anziano riceve una lettera che gli promette un milione di dollari a patto che i suoi numeri siano estratti una volta presentatosi di persona a Lincoln, Nebraska, decide che non ci sarà nulla al mondo in grado di impedirgli di ritirare il suo premio: fuggito più volte di casa intenzionato a percorrere i più di mille chilometri che separano Billings, nel Montana, sua città, e la stessa Lincoln a piedi non avendo più il benestare per la guida, Woody insisterà a tal punto che David deciderà di passare qualche giorno con suo padre accompagnandolo fino a ritirare la "vincita", ovviamente fasulla.
Sarà un viaggio intenso e ricco di avvenimenti, che aprirà uno squarcio sul passato della famiglia Grant e sul rapporto tra Woody e suo figlio, di fatto mancato nel resto delle loro vite.
"Non posso dire di essere dispiaciuto per le cose che ho fatto, ma comunque io e lei abbiamo avuto i nostri bei momenti": canta più o meno così Springsteen in Nebraska, uno dei dischi più struggenti ed intensi del Boss stesso.
Alexander Payne, regista dei più che discreti - e dal sottoscritto amati - Sideways e Paradiso amaro tornato sul grande schermo con un'altra epopea in grado di mescolare famiglia, vita vissuta ed il concetto di viaggio come palestra per il cuore ed i rapporti umani, non solo deve aver ascoltato a fondo quel grande disco, ma aver sentito sulla pelle il concetto, più che la descrizione fisica o la posizione geografica del Nebraska: parliamo della provincia americana profonda, quella delle città che paiono uscite dal West e dalla Frontiera, con una main street circondata da fattorie e campi che sanno, per dirla come Clint, di nulla ed addio.
La provincia di cult movies come L'ultimo spettacolo, dal quale pare avere ereditato anche il meraviglioso bianco e nero che incornicia non soltanto un ritratto sentito, divertente e maliconico di una famiglia, ma anche una squadra di attori in forma smagliante capitanata dagli strepitosi June Quibb e Bruce Dern - quest'ultimo premiato a Cannes per la migliore interpretazione maschile ed in lizza per l'Oscar -, che prestano corpo ed anima rispettivamente a Kate e Woody Grant, insieme da una vita, pronti a combattere il mondo così come a lottare l'uno contro l'altra.
Le loro schermaglie, come i vuoti di coscienza dell'uomo - alla prima inquadratura, con il vecchio Grant ubriaco sul ciglio della strada fermato da un poliziotto, ho pensato subito che ci sarebbero state ottime probabilità di trovarmi nello stesso stato dopo gli ottanta - e la carica dirompente della donna - la sequenza al cimitero di Hawtorne è da antologia - sono riusciti a portare a galla nella mia memoria l'approccio che il già citato Maestro Eastwood tenne con uno dei suoi Capolavori, Gran Torino, altro film monumentale sulla vecchiaia e sui rapporti da costruire - o ricostruire - tra genitori e figli: il viaggio di David - in quella fase della vita in cui non è ancora troppo tardi per trovare la propria strada ma non è più così presto per far conto soltanto sui sogni - e Woody è una meravigliosa fotografia proprio di quegli stessi rapporti, che eventi assolutamente comuni di colpo divenuti straordinari trasformano in profondamente reali, presenti, vissuti e parlati dopo anni, decenni, vite intere di silenzio.
E dalla divertentissima e grottesca ricerca della dentiera sui binari o i botta e risposta sulla birra - "Papà, non avevi smesso? Stai bevendo una birra", e di contro "E allora? La birra non è mica alcool!" - all'agghiacciante riunione della famiglia Grant o al faccia a faccia con l'ex amico Ed Pegram - un redivivo Stacy Keach - nel pub - da brividi il gioco di sguardi, i silenzi pesanti come macigni -, due uomini finiscono per ritrovare loro stessi nell'altro, scoprendo di non avere mai smesso di vivere o imparare, e di avere di fatto vinto un premio ben più importante di una fasulla lotteria da pubblicità ingannevole.
Nebraska è un film sulle piccole cose, gesti che noi stessi facciamo giorno dopo giorno senza, magari, renderci conto della loro stessa importanza: dai "fanculo" a "quella era proprio una troia" di Kate al bacio a Woody poco prima di lasciare l'ospedale - un passaggio di una tenerezza quasi straziante, che ben descrive il sacrificio che è presente in ogni storia più o meno d'amore che duri una vita intera -, dal compressore rubato e restituito - divertentissimo momento in grado di riportare alla memoria del sottoscritto il portafoglio recuperato dal motociclista in Sideways o il Cinema dei Coen in generale - al ritorno da Lincoln dell'ormai consolidata squadra composta da David e Woody, che di fronte alle iniziative del figlio affinchè tutto non sia servito proprio a nulla non pare affatto "appannato" come potrebbe sembrare.
E la carrellata sulla via di casa per le strade di Hawtorne, con tanto di cappellino e furgone nuovo, è un gioiellino di sentimento che esalta la componente umana di un film "straight" - per usare un paragone con un altro Capolavoro che Nebraska ricorda, Una storia vera di Lynch - come un solido bourbon da Saloon, di quelli che si bevono "tra uomini" senza dimenticare che non si sarebbe tali, senza delle grandi donne alle quali tornare.
Chiunque si sia fatto - o si faccia - il culo quotidianamente per lavorare, costruire una famiglia e soprattutto mantenerla tale, crescere dei figli e sopravvivere ad amici e nemici, così come all'amore, o semplicemente sognare un furgone nuovo o di "lasciare qualcosa" a chi viene dopo, entrerà in questo film come nella casa in cui è cresciuto: e dovrà ricacciare indietro le lacrime, farsi un bicchiere e riderci sopra.
In fondo, in Nebraska ci siamo andati tutti, almeno una volta.
Per tornare segnati, ma senza dubbio più forti di prima.
MrFord
"I can't say that I'm sorry
for the things that we done
at least for a little while
La trama (con parole mie): la ventisettenne Frances, ballerina e stralunata esploratrice della vita, raccontata nelle sue peregrinazioni da un appartamento all'altro e da un'amicizia all'altra nell'arco di un paio d'anni della sua storia di formazione. Dalla quotidianità a New York ai genitori a Sacramento passando per una velocissima puntata a Parigi, osserviamo una ragazza come tutte le altre nella sua unicità di espressione, sogni e linguaggio.
Una ricerca di se stessi e del proprio futuro che passa anche - e soprattutto - dall'identità che regala avere una propria casa, un nido, un rifugio, una base che sia il punto di partenza per il domani ed un luogo al quale tornare anche nelle peggiori serate medicate da una qualche sbronza di costosa vodka recuperata a spese di qualcuno che non ci piace poi così tanto.
Quella della propria identità - sia essa sociale o sentimentale - è una delle ricerche più impegnative e complicate nelle quali imbarcarsi nel corso della vita: c'è chi finisce per mollare, chi per non farci troppo caso - accontentandosi, di fatto, di quello che quotidianamente si rischia ci sia imposto -, chi per inseguire un Godot che non arriverà mai, chi per sedersi sulla riva del fiume aspettando il passaggio dell'ormai noto cadavere del proprio nemico.
Le sfumature sono infinite, in tutte le tonalità del grigio, e per quanto bianco e nero ne siano l'origine, non esiste nulla o nessuno che possa incarnare alla perfezione l'uno o l'altro: in questo senso è scritto con grande profondità e girato con leggerezza quasi primaverile Frances Ha, ultima fatica di Noah Baumbach, uno dei registi e sceneggiatori più radical chic della scena indie a stelle e strisce che, tuttavia, nonostante un piglio decisamente più vicino ai gusti del Cannibale che ai miei non sono mai riuscito a non apprezzare fin dai tempi della sua collaborazione con Wes Anderson, passando attraverso chicche come Il calamaro e la balena e Il matrimonio di mia sorella, giunti quasi sotto silenzio qui in Italia eppure entrambi gioiellini da vedere e rivedere.
Da un indirizzo all'altro assistiamo dunque al percorso di Frances, uno tra i personaggi più scombinati e disequilibrati della Storia recente del grande schermo, assillante quanto irresistibile, splendida eppure "undatable", come non esita a definirsi lei stessa, sull'onda del gioco iniziato dall'amico e coinquilino - almeno per un pò - Ben: e in bilico su questa corda molto sottile si rimane sbigottiti e divertiti, incerti tra l'idea di abbracciarla stretta o scappare a gambe levate, da lei e dai suoi più o meno importanti amici spesso e volentieri dediti ad un approccio artistoide e pseudo-intellettuale d'alto bordo - e dal portafoglio pieno -.
Frances, però, non è della stessa pasta, e passo dopo passo è costretta a costruire con le proprie forze anche su errori commessi per leggerezza - la carta di credito usata per il viaggio a Parigi - o, come la direbbe Warren Zevon, "bad karma" - le telefonate giunte fuori tempo massimo prima della sua partenza ed appena dopo il rientro negli USA dalla Francia -.
Onestamente, però, al contrario del mio antagonista, non mi sogno neppure per sbaglio di dichiarare il mio amore alla protagonista di questo film, che ha dovuto guadagnarsi almeno quanto la pellicola il mio favore dal primo all'ultimo minuto: preferirei averla come amica, farci un giro, sbronzarsi in compagnia, ridere e scherzare e, all'occorrenza o di fronte ad un'eccessiva pesantezza, mandarla dove si conviene senza temere ripercussioni che producano tra i vari effetti un'astinenza imposta.
Un plauso dunque a questo sorprendente charachter delineato con un piglio quasi da poesia da Baumbach e portata sullo schermo in modo esemplare dalla bravissima Greta Gerwig, che ha il merito di non aver mai mollato, appartamento dopo appartamento, finendo per trascinare gli occupanti di casa Ford nel suo strambo mondo fatto di coreografie e bottiglie di vodka, sorrisi stralunati e traumi superati cercando di ritrovare se stessa senza avere paura di rimanere sola, di essere "undatable": in fondo, la ricerca della propria identità passa attraverso la solitudine così come la vicinanza delle persone che amiamo o crediamo di amare, quelle che pensiamo ci saranno accanto per sempre e quelle che, fin dalla prima occhiata, sappiamo bene riprenderanno il viaggio che porterà inevitabilmente lontano da dove siamo noi.
Ed un bel giorno, non senza cicatrici celate oppure ben in vista, impacchetteremo la nostra roba, e voltando lo sguardo scopriremo di essere nella nostra casa, il rifugio, il nido, il punto di partenza per un altro viaggio: e ci saremo guadagnati ogni centimetro di quello spazio, ordinato o caotico che sia, e quel nome troppo grande per un semplice citofono.
Ma sarà facile, a quel punto, stringersi un pò per farcelo stare.
MrFord
"Ci sono io testa in giù appeso al filo del telefono ma suonano, chi sarà? Sul citofono c'è un omonimo che non mi assomiglierà Sul citofono c'è un omonimo ma non mi assomiglierà Non portarmi via il nome il nome no che qualcuno lo vuole non te lo do..."
La trama (con parole mie): William Blake è un contabile di Cleveland che seppelliti i suoi genitori spende tutti i risparmi rimasti per viaggiare verso il cuore del West selvaggio e lontano, Machine, in Arizona, seguendo la promessa di un impiego presso la fabbrica di un certo Dickinson.
Peccato soltanto che all'arrivo per il giovane non sia rimasto altro che una neppure troppo velata minaccia di morte da parte del presunto boss e l'incertezza del futuro, fragile quanto i fiori di carta di Thel, ex prostituta nonchè fidanzata del più giovane dei figli dello stesso Dickinson: quando Blake, per legittima difesa, lo uccide e fugge ferito a morte, toccherà al nativo americano Nessuno guidarlo attraverso un viaggio iniziatico verso la fine, in bilico tra le poesie del suo omonimo e la cultura che è stata il cuore degli States, cercando di comporre a suon di pallottole evitando al contempo gli spietati cacciatori di taglie sulle tracce di quello che è ormai considerato un pericoloso omicida.
Questo post partecipa pistola in pugno e fiaschetta d'alcool alla cintola alle celebrazioni per il cinquantesimo compleanno di Johnny Depp.
Ricordo bene la prima volta che vidi Dead man: ero al terzo anno delle superiori, e con un paio di compagni di classe fui praticamente trascinato in sala da un gruppo di amiche completamente rapite dal fascino di Johnny Depp, uno degli attori simbolo - volenti o nolenti - della nostra generazione che proprio oggi spegne - e quasi sento a crederlo - cinquanta candeline: al termine della visione, nel viaggio di ritorno a casa, le fino ad un paio d'ore prima eccitate fanciulle non fecero che lamentarsi dell'incomprensibilità e della lentezza di quello che fu, senza dubbio, uno dei titoli più importanti della mia formazione cinematografica, il primo, vero viaggio su pellicola che riservò al giovane Ford un brivido come mai prima di allora - anche se molti ne sarebbero seguiti - era capitato.
In qualche modo, qualcosa stava cambiando, e le gesta di William Blake - uno dei personaggi più straordinari interpretati dal festeggiato di oggi - segnarono profondamente l'immaginario di un bambino cresciuto a pane e John Wayne, per il quale il West era un mondo magico dai colori brillanti, dove "quando la realtà incontra la leggenda, vince la leggenda", in cui tutto era sempre più semplice e mitico di quanto potesse sembrare.
In qualche modo, come avrebbe fatto in seguito Gli spietati - precedente di tre anni a quella che considero l'opera migliore di Jarmusch al pari di Ghost dog, ma che vidi per la prima volta soltanto mesi dopo -, Dead man mostrò il lato oscuro del West e del Western non solo come genere, ma come modo di intendere la vita, il mondo, una cultura - quella a stelle e strisce - fin troppo spesso idealizzata soprattutto nel corso degli anni ottanta delle meraviglie e della Guerra Fredda: intriso in ogni fotogramma di tristissima malinconia e percorso da una vena di meraviglioso e nerissimo umorismo, questo lavoro crepuscolare è una delle opere che più associo ancora oggi ad una poesia per immagini, con il suo ritmo dalla cadenza dei passi lenti ma decisi prima di un duello mortale scandita da una memorabile colonna sonora firmata da Neil Young, un vero e proprio trip sulle note distorte di una chitarra che parla la stessa lingua della penna di William Blake, quella del furore, della passione, della dolente sconfitta, della certezza dell'essere morti, eppure continuare a viaggiare, fino a trovare quello percui si è giunti fino al punto in cui si è giunti, e dunque abbandonare questo mondo consci di non essere più al proprio posto.
Il tutto accade per mezzo di colpi di pistola e di fucile esplosi con incertezza, paura e nessuna precisione, che ricordano la resa dei conti tra William Munny e gli assassini del suo fedele amico proprio in chiusura del già citato Gli spietati, lontani dall'epoca del campo e controcampo di Sergio Leone, dai Mezzogiorno di fuoco e Sentieri selvaggi: non c'è nulla per il Mito, nel percorso che Nessuno traccia per William Blake.
Neppure le briciole.
Una carcassa di opossum. Un mal di denti.
Non c'è neppure il tabacco.
C'è solo una poesia che ha il suono del cane che percuote il piombo pronto ad essere esploso il più velocemente possibile nel cuore di un malcapitato amante.
Stupido uomo bianco, con le sue armi da fuoco e la sua cultura di superiorità.
Nessuno sa di cosa si sta parlando.
Di Vecchio e Nuovo Mondo uniti sotto la bandiera dell'ignoranza, della prepotenza, della legge della giungla, e del più forte.
La legge del piombo.
Quella di qualcuno che ha la pistola, e qualcuno che scava. E tu scavi.
Nessuno sa di cosa si sta parlando.
Peccato che non ci sia nessuno ad ascoltarlo.
Perchè l'uomo bianco è stupido, e l'unico in grado di comprendere è già morto.
William Blake, che non fuma e non ha tabacco.
Almeno fino alla fine del viaggio. E forse oltre.
Perchè quello che trova servirà una volta che sarà giunto sull'altra sponda del grande fiume.
Forse potrà offrirlo all'uomo che l'ha ucciso.
MrFord
Partecipano lisergicamente a questo trip verso l'oltre:
"You wake up in the middle
of the night.
Your sheets are wet
and your face is white,
you tried to make
a good thing last,
how could something so good,
go bad, so fast?"
La trama (con parole mie): Johnny Clay, da poco uscito di galera dopo cinque anni di detenzione, orchestra una rapina ad un ippodromo organizzata sfruttando l'aiuto di insospettabili dalla fedina penale pulita, mossi ognuno da esigenze economiche o personali.
Si tratta di uno dei cassieri - un ometto vessato dalla giovane moglie - e del barman - che vorrebbe usare i soldi per la compagna malata - dello stesso ippodromo, di un allibratore vecchio amico di Clay e di un poliziotto corrotto con qualche debito di troppo.
I passaggi del colpo sono studiati minuziosamente, e tutto pare filare liscio fino al giorno della rapina: quando, però, i problemi coniugali del cassiere George mettono in moto un piano parallelo della consorte aiutata dall'amante, la situazione precipita fino a far letteralmente volatilizzare il bottino della rapina.
Basterebbero due soli nomi a rendere Rapina a mano armata un
supercult di quelli da rimanere a bocca aperta: Stanley Kubrick e Jim Thompson, uniti nel firmare una sceneggiatura che ancora oggi è un esempio clamoroso di ritmo,
tensione, efficacia e violenza.
Eppure, il regista ed il romanziere autore di titoli
indimenticabili quali L’assassino che è in me e Colpo di spugna sono soltanto
la punta dell’iceberg per la pellicola che, di fatto, confermò Kubrick come uno
dei giovani registi più importanti della scena statunitense degli anni
cinquanta, in grado di stupire nonostante – ma questo non si poteva ancora
sapere – un talento che ancora non aveva esploso i suoi colpi di genio più sorprendenti.
Rapina a mano armata è, di fatto, uno dei capistipite
dell’heist movie, una prova eccezionale di decostruzione temporale e
costruzione di tensione – l’escalation che porta al colpo ha un accumulo di
suspance quasi hitchcockiano – impreziosita dalle interpretazioni di Sterling
Hayden – un grandissimo che gli appassionati di Classici conosceranno come se
fosse praticamente un loro parente, mentre i meno ferrati si ricorderanno,
forse, per il suo ruolo nel primo capitolo della trilogia de Il padrino – e di
un gruppo di caratteristi da antologia, fotografato splendidamente – sempre dallo
stesso Kubrick, come fu per Il bacio dell’assassino – e girato con un’eleganza
clamorosamente superiore all’esordio – basterebbe la sequenza dell’ingresso di
Clay nella stazione dei bus per restare ammirati rispetto all’abilità dietro la
macchina da presa mostrata dal regista, che non solo pare con questo lavoro
aver scoperto l’eleganza del suo movimento, ma avere definitivamente
abbandonato, conservandone il meglio, il suo precedente tocco da fotografo,
che avrebbe potuto rendere lo stile troppo statico -.
Come se non bastasse tutto questo, l’opera numero due del
Maestro porta un bagaglio di violenza decisamente inusitato per l’epoca – con
le dovute proporzioni rispetto a quanto mostrato allo spettatore, non
sfigurerebbe neppure accanto a pellicole come Le iene ancora oggi – e solo
limitatamente stemperato da un finale a metà tra il moralismo – “il crimine non
paga” – ed il fatalismo – “se il destino è avverso, anche i piani migliori sono
destinati al fallimento” -, e con la sua struttura ad incastro anticipa di
decenni quello che proprio Tarantino ed i suoi epigoni avrebbero trasformato
nel loro cavallo di battaglia alle soglie del nuovo millennio.
Inoltre, la riflessione sull’avidità umana che assume
dimensioni differenti ed è mossa da altrettanto diverse motivazioni risulta
profonda ed incisiva, e regala uno spessore enorme ad ognuno dei protagonisti:
dal vecchio allibratore che pur di combattere la solitudine si lega al “figlio
che non ha mai avuto” Johnny Clay al cassiere soggiogato da una moglie che ogni
giorno rinfaccia di non avere il denaro che si sarebbe aspettata da lui, dal
poliziotto corrotto con qualche debito di troppo contratto a causa del suo
amore per la bella vita al barista dell’ippodromo che vorrebbe utilizzare la
sua parte di bottino per curare al meglio la compagna malata, fino a Clay stesso, mente dietro un piano sulla carta infallibile e poggiato sulle
spalle di un gruppo di insospettabili, in attesa di completare il suo trionfo
con la fuga accanto alla donna pronta ad attenderlo dopo i cinque anni
trascorsi in galera, non c’è uno solo dei protagonisti – neppure il tiratore ed
il lottatore assunti per scatenare il caos e favorire la rapina – che risulti
privo dello spessore necessario a renderlo memorabile, e nonostante alcune
sequenze paiano oggi tutto sommato naif – il confronto con il parcheggiatore
del cecchino ingaggiato da Johnny, la rissa al bar, la partenza all’aeroporto nel
finale – tutto funziona ancora a meraviglia, ed oltre ad un altissimo tasso di
tensione il pubblico finisce per poter contare anche su passaggi decisamente forti –
la rapina del “clown” ed il confronto tra il gruppo di complici del protagonista e
l’amante della moglie di George il cassiere, destinato a finire nel sangue –
ancora efficaci oggi, in un’epoca in cui si è abituati decisamente a molto
peggio.
Se, dunque, Il bacio dell’assassino era stato in grado di
mostrare alcuni lampi del talento incommensurabile del Maestro, con Rapina a
mano armata si conquista la certezza di trovarsi davanti ad un cavallo di razza
– e mai come per questo film una definizione di questo tipo risulta calzante – destinato a cambiare letteralmente la Storia della settima arte.
Di certo ogni studente di Cinema o appassionato dell’opera dell’immenso
Stanley conoscerà questa perla a memoria, ma sarebbe davvero un delitto, pur da
spettatori occasionali, lasciarsi sfuggire quella che, di fatto, è una delle pietre miliari di un genere che, in tempi più recenti, è stato in grado di regalare
meraviglie come Inside man o influenzare autori come il già citato
Tarantino.
MrFord
"Money it's a crime
share it fairly but don't take a slice of my pie
money so they say
is the root of all evil today
but if you ask for a rise it's no surprise that they're giving none away."
La trama (con parole mie): perduta tra i monti di una vallata belga, isolata dalla civiltà che la rifiuta, esiste una clinica, tenuta dall'equilibrato Dr. Krueger, in cui è possibile alloggiare se e solo se lo stesso dottore accetta la richiesta del potenziale paziente di ricevere la "dolce morte". Sia giustificata da malattia, disagio mentale o sociale, problemi economici o chissà cos'altro, la motivazione dovrà essere solida, e lo stesso titolare della clinica si impegnerà fino all'ultimo affinchè il paziente possa decidere di ripensarci, e tornare a vivere la sua vita. Tutto scorre tranquillamente, e perfino l'agente della guardia di finanza inviata per controllare che Krueger non costringa i suoi pazienti a pagare per il servizio pare cominciare ad integrarsi nella geografia curiosa degli abitanti temporanei del luogo, fino a quando un commando di uomini che rifiutano l'idea di un luogo di questo genere non decide di assaltare la clinica in modo da non risparmiare nessuno: staff, direttore e pazienti.
L'eutanasia è un tema molto, molto difficile da affrontare. O perlomeno, lo è affrontarlo nel modo giusto. Che poi, probabilmente, un modo giusto non c'è, a meno che per giusto non s'intenda trattarlo con rispetto ed equilibrio, senza perbenismi, filippiche religiose o prese di posizione pretestuose da una parte o dall'altra. Ricordo, ad esempio, la morale fin troppo pesante di Mare dentro rispetto allo struggente dramma di Million dollar baby, per citare due esempi più che noti usciti qualche anno fa praticamente in contemporanea. Kill me please, questa curiosa, estremamente autoriale eppure clamorosamente leggera commedia nera, non si pone obiettivi alti come i due titoli appena citati, eppure analizza da un punto di vista tutto sommato nuovo uno dei grandi temi da dibattito degli ultimi anni, ed uno dei diritti che dovrebbe essere ufficializzato alla facciazza della sempre troppo ingombrante - almeno in Italia - chiesa cattolica. Così come in Mammuth, assistiamo ad un crescendo non sempre - anzi, spesso affatto - giustificato razionalmente, eppure incredibilmente acuto e, a tratti, irresistibilmente geniale - la sequenza nel bosco che vede protagonisti Vidal, il canadese e l'ispettrice della guardia di finanza è a dir poco clamorosa -, divertito e divertente eppure velato da una profonda vena di malinconia, fotografato benissimo - mi ha ricordato addirittura le opere incredibili di Bela Tarr - ed in grado di suscitare riflessioni nate dal contrasto e dai comportamenti dei personaggi: il desiderio di farla finita che, di fronte alla minaccia del commando esterno, muta in alcuni casi in un rinnovato ardore per la vita, così come nel sogno di quella fine che si era desiderata - rappresentata dal personaggio di Virgile, tra i più controversi e profondi del curioso parterre degli ospiti della clinica -. Lo stesso Krueger, controllato e razionale direttore, a fronte dell'assalto assume connotati completamente nuovi, e regala, nel suo monologo di chiusura, una delle sequenze più nere che il Cinema recente mi abbia regalato: l'interpretazione dell'eutanasia come risparmio di profitti perduti da parte dello Stato - motivo per il quale la clinica si scopre sovvenzionata dal governo -, con tanto di dati e numeri snocciolati neanche fossimo nel bel mezzo di una riunione di marketing è da brividi, nonchè in grado di mettere in ombra tutti i significati e gli atteggiamenti "illuminati" che prevedono i trattamenti della clinica. Una pellicola forse non completa e risolta a fondo - tutto considerato, l'autore si sarebbe potuto concedere qualche minuto in più -, eppure sottilmente potente, in grado di parlare a differenti tipologie di pubblico, con più di un picco intriso di quell'imprevedibile visionarietà tipica del grottesco - scomodando paragoni importanti direi in pieno, irriverente stile Bunuel - in grado di lasciare senza parole, in bilico tra una lacrima e una risata. Ma in fondo, la vita - e la sua fine - funzionano proprio così.
MrFord
"Strumming my pain with his fingers,
singing my life with his words,
killing me softly with his song,
killing me softly with his song,
telling my whole life with his words,
killing me softly with his song."
Fugees - "Killing me softly" -