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venerdì 3 aprile 2015

Spongebob - Fuori dall'acqua

Regia: Paul Tibbit
Origine: USA
Anno:
2015
Durata: 92'





La trama (con parole mie): approfittando della lotta che vede protagonisti Plankton e Krusty Krab, un diabolico pirata dedito a raccontare storie ai gabbiani ruba la formula segreta per la realizzazione dei Krubby Patty, alimento principale della popolazione di Bikini Button, per farne un piatto vincente sulla Terra. A questo punto il curioso e colorato mondo in fondo al mare si trasforma in una vera e propria versione dell'Apocalisse, e mentre la popolazione impazzisce a causa della mancanza degli stessi Krubby Patty, Spongebob ed i suoi amici, insieme all'avversario Plankton, dovranno fare fronte comune per cercare di capire chi si cela dietro la sparizione della formula e fare tutto quello che è in loro potere per recuperarla: perfino giungere per la prima volta sulla terraferma con superpoteri donati da un delfino spaziale e lavorare come un team.








Prima della visione di Spongebob - Fuori dall'acqua, conoscevo lo spugnoso personaggio solo grazie al successo della sua serie animata ed al culto - apparentemente assurdo ed immotivato - che alcuni nerd alternativi professavano proprio in riferimento al giallo e scombinato charachter.
Ora, alle spalle quest'esperienza assolutamente unica e surreale, posso dire di comprendere i motivi di tale curiosa ed insolita passione: Spongebob e la sua truppa sono, infatti, protagonisti di una storia e di un mondo attraversato da sprazzi di assoluta genialità, surrealismo ed assurdità assortite che non è possibile descrivere o rendere al meglio senza averle vissute sulla pelle dalla prima all'ultima.
Senza dubbio il lavoro di Paul Tibbit non è per tutti, a partire dai più piccoli - che probabilmente non coglieranno tutte le sfumature, le citazioni, i giochi metacinematografici messi in scena dall'allegra brigata marina capitanata dalla spugna più famosa del piccolo e ora anche grande schermo - fino al pubblico adulto - che in parte bollerà questo coloratissimo trip come robetta da bambini, errore che ho commesso anche io in principio, ed in parte troverà assolutamente ridicoli e grotteschi alcuni passaggi, se non la maggior parte -: eppure, riuscendo ad andare oltre le difficoltà che offre una visione assolutamente grottesca dal primo all'ultimo fotogramma, ci si trova di fronte ad una vera e propria chicca, un instant cult che mescola la fascinazione dei cartoni animati di natura disneyana, l'ottovolante dopato degli anni ottanta senza risparmiare per questo colpi proibiti neanche fossimo centrifugati attraverso i nineties, gli action e gli anni zero insieme.
A fare da collante nonchè parafulmine trash del tutto un Banderas pronto a gigioneggiare sbeffeggiando Jack Sparrow che è una vera chicca, simbolo della rinascita degli ultimi anni - nonostante i tristissimi spot del Mulino Bianco - dell'attore spagnolo, attivo su più fronti e pronto a sperimentare anche cose insolite come questa: ma i veri protagonisti sono Spongebob e i suoi, esilaranti in ben più di un momento ed in grado di condurre per mano il pubblico attraverso sequenze a dir poco strepitose come il viaggio all'interno del cervello dello stesso Spongebob intrapreso dal suo "nemicoamico" Plankton, un trip psichedelico allo zucchero filato con tanto di strepitosa citazione di Shining che pare essere uscito dal Terry Gilliam dei tempi migliori.
E proprio ripensando al regista di Brazil, effettivamente l'approccio di Tibbit e di questa divertentissima e caotica avventura pare proprio quello che guidò, ormai trent'anni or sono, i Monty Phyton, sempre in bilico tra divertissement puro, intrattenimento a trecentosessanta gradi ed una certa satira sociale che nessuno si preoccupa di celare più di tanto.
Una visione, dunque, che a conti fatti rappresenta una delle sorprese più gradite di questo inizio anno, una rivelazione in tutto e per tutto che a questo punto mi costringe ad un approfondimento rispetto a Spongebob e soci, personaggi irresistibili e caricaturali in grado di far riflettere anche nei momenti di più sbragato nonsense neanche fossero i Simpson dei tempi d'oro: se, inoltre, a questo si aggiungono un paio di riferimenti pittorici notevoli ed un finale action neanche fossimo catapultati in una versione molto, molto caricaturale degli Avengers, il gioco è fatto.
Ora voglio anch'io essere parte del team della spugna più gialla di tutti i mari ed ingozzarmi di Krubby Patty come se non ci fosse un domani.




MrFord




"Let's go surfin' now
everybody's learning how
come on and safari with me
(come on and safari with...)"
Beach Boys - "Surfin' safari" - 




lunedì 9 dicembre 2013

La grande bellezza

Regia: Paolo Sorrentino
Origine: Italia
Anno: 2013
Durata:
142'




La trama (con parole mie): Jep Gambardella, giornalista e scrittore con all'attivo un solo romanzo ormai lontano decenni, è uno dei personaggi più in vista delle notti in del jet set romano. Con il suo sessantacinquesimo compleanno, inizia un viaggio dell'uomo attraverso le rovine, il passato ed il futuro della città che lo ha adottato e cresciuto, e che lui stesso ha interpretato, sbeffeggiato, sedotto e abbandonato.
Nella ricerca dai tempi dilatati della grande bellezza che rappresenta l'oasi di questo viaggiatore sociale incontri curiosi, grotteschi, sentiti o semplicemente messi alla berlina dal suo occhio critico ormai incline al cinismo: uno spaccato fantastico quanto reale che ricorda i tempi de La dolce vita e riporta il Cinema italiano ad un'altra dimensione.
Quella, per l'appunto, della Bellezza.





Prima che inizi davvero a scrivere de La grande bellezza, lasciatemelo dire: bentornato, Sorrentino.
Evidentemente l'aria statunitense, per quanto non ne mettesse in discussione la tecnica, faticava a rendere giustizia a quello che, di fatto, è il miglior regista italiano della "nuova generazione", quella che dovrebbe, orrori settimanali permettendo, traghettare la nostrana settima arte verso il futuro.
Precisato questo, è inutile girare troppo intorno ai preamboli: La grande bellezza, versione del nuovo millennio firmata dalla premiata ditta Sorrentino e Servillo del felliniano La dolce vita, è un film grandioso e potente, di respiro internazionale, senza dubbio la cosa migliore che dalle nostre parti si sia vista dai tempi de L'uomo che verrà a Vincere.
Basterebbe il primo quarto d'ora, dedicato alla festa per il sessantacinquestimo compleanno del solo apparentemente cinico Jep Gambardella, per testimoniare non solo la tecnica spaventosa, ma la portata del lavoro del buon Sorrentino, che pare fare sua al meglio la lezione che non solo Fellini, ma anche Kubrick ed il miglior Malick hanno regalato, negli anni, alla settima arte: di colpo, trascinati dalle immagini decadenti e magiche della Roma "caput mundi", o forse solo "kaputt", ci si ritrova in un universo ironico, grottesco e profondamente nero che pare una sorta di emblema del fascino molto poco discreto di una borghesia molto poco borghesia che avrebbe colpito in positivo perfino Luis Bunuel, indiscusso Maestro della critica sociale e del surrealismo.
Davanti agli occhi di noi poveri diavoli ammirati dalle evoluzioni della macchina da presa sfila così una carrellata di personaggi di dubbio gusto, barche alla deriva in un oceano di Storia e depravazione, fittizie convenzioni sociali e fedi che si risolvono tutte attraverso gli istinti più bassi, dalla cucina al sesso, passando per la notorietà, il radicalchicchismo o il male di vivere.
Ed in mezzo a tutti loro, proprio come in una delle sue passeggiate tra le statue simbolo di un'epoca che fu, Jep Gambardella, ben poco intrepido viaggiatore alla ricerca di una grande bellezza che non si sa neppure se esista ancora, o se sia mai esistita, per quelle strade che portano tutte a Roma, e paiono far scomparire il resto del mondo, perfino i ricordi in grado di salvare quel poco di umanità rimasta, in un impeto giovanile neanche fossimo scaraventati alla conclusione di Eyes wide shut.
E mentre la salvezza passa dallo stomaco e dalla cucina - ma sarà davvero così!? - prima che dalla Fede, ed il mare è un'illusione del passato che è possibile cercare soltanto nel cielo ritagliato in una stanza, la grande bellezza continua a sfuggire tra le mani, nel chiacchiericcio di uomini, donne e bambini accecati dalle posizioni politiche e sociali, dall'apparenza e dai trenini, dal vestito che nasconde qualcosa di peggio che niente.
Restano solo le radici, a tentare di salvarci a fronte di quella musica assordante ed assurda.
Quelle mangiate, e quelle dei ricordi.
Le radici che possano evitarci di finire come nobili in affitto, imbalsamati nei salotti, o le antiche statue emblema di un impero finito in polvere, tanto meravigliose quanto prive di vita, come una bara che nessuno ha il coraggio di alzarsi per portare fuori dalla chiesa.
Le radici di chi è troppo vecchio per lasciarsi andare agli agi.
O non ha più tempo da perdere con quello che non gli interessa davvero.
Le radici del Romano - un nome certo non a caso - di Carlo Verdone, che fugge dalla città che lo ha adottato per tornare al paese.
Le radici di Jep, pronto a tornare a quel faro, prima del successo, dei soldi, della notorietà, delle donne. Tornare al momento in cui tutto è stato chiaro, anche se non lo sapeva.
Niente chiacchiere. Solo la grande bellezza.
Quella che non ha bisogno di strade che portino a Roma.
Perchè è tutta lì, davanti ai nostri occhi.



MrFord



"Certe notti per dormire mi metto a leggere,
e invece avrei bisogno di attimi di silenzio.
Certe volte anche con te, e sai che ti voglio bene,
mi arrabbio inutilmente senza una vera ragione.
Sulle strade al mattino il troppo traffico mi sfianca;
mi innervosiscono i semafori e gli stop, e la sera ritorno con malesseri speciali.
Non servono tranquillanti o terapie
ci vuole un'altra vita."
Franco Battiato - "Un'altra vita" - 




domenica 9 giugno 2013

Dead man

Regia: Jim Jarmusch
Origine: USA
Anno: 1995
Durata: 121'
 



La trama (con parole mie): William Blake è un contabile di Cleveland che seppelliti i suoi genitori spende tutti i risparmi rimasti per viaggiare verso il cuore del West selvaggio e lontano, Machine, in Arizona, seguendo la promessa di un impiego presso la fabbrica di un certo Dickinson.
Peccato soltanto che all'arrivo per il giovane non sia rimasto altro che una neppure troppo velata minaccia di morte da parte del presunto boss e l'incertezza del futuro, fragile quanto i fiori di carta di Thel, ex prostituta nonchè fidanzata del più giovane dei figli dello stesso Dickinson: quando Blake, per legittima difesa, lo uccide e fugge ferito a morte, toccherà al nativo americano Nessuno guidarlo attraverso un viaggio iniziatico verso la fine, in bilico tra le poesie del suo omonimo e la cultura che è stata il cuore degli States, cercando di comporre a suon di pallottole evitando al contempo gli spietati cacciatori di taglie sulle tracce di quello che è ormai considerato un pericoloso omicida.





Questo post partecipa pistola in pugno e fiaschetta d'alcool alla cintola alle celebrazioni per il cinquantesimo compleanno di Johnny Depp.




Ricordo bene la prima volta che vidi Dead man: ero al terzo anno delle superiori, e con un paio di compagni di classe fui praticamente trascinato in sala da un gruppo di amiche completamente rapite dal fascino di Johnny Depp, uno degli attori simbolo - volenti o nolenti - della nostra generazione che proprio oggi spegne - e quasi sento a crederlo - cinquanta candeline: al termine della visione, nel viaggio di ritorno a casa, le fino ad un paio d'ore prima eccitate fanciulle non fecero che lamentarsi dell'incomprensibilità e della lentezza di quello che fu, senza dubbio, uno dei titoli più importanti della mia formazione cinematografica, il primo, vero viaggio su pellicola che riservò al giovane Ford un brivido come mai prima di allora - anche se molti ne sarebbero seguiti - era capitato.
In qualche modo, qualcosa stava cambiando, e le gesta di William Blake - uno dei personaggi più straordinari interpretati dal festeggiato di oggi - segnarono profondamente l'immaginario di un bambino cresciuto a pane e John Wayne, per il quale il West era un mondo magico dai colori brillanti, dove "quando la realtà incontra la leggenda, vince la leggenda", in cui tutto era sempre più semplice e mitico di quanto potesse sembrare.
In qualche modo, come avrebbe fatto in seguito Gli spietati - precedente di tre anni a quella che considero l'opera migliore di Jarmusch al pari di Ghost dog, ma che vidi per la prima volta soltanto mesi dopo -, Dead man mostrò il lato oscuro del West e del Western non solo come genere, ma come modo di intendere la vita, il mondo, una cultura - quella a stelle e strisce - fin troppo spesso idealizzata soprattutto nel corso degli anni ottanta delle meraviglie e della Guerra Fredda: intriso in ogni fotogramma di tristissima malinconia e percorso da una vena di meraviglioso e nerissimo umorismo, questo lavoro crepuscolare è una delle opere che più associo ancora oggi ad una poesia per immagini, con il suo ritmo dalla cadenza dei passi lenti ma decisi prima di un duello mortale scandita da una memorabile colonna sonora firmata da Neil Young, un vero e proprio trip sulle note distorte di una chitarra che parla la stessa lingua della penna di William Blake, quella del furore, della passione, della dolente sconfitta, della certezza dell'essere morti, eppure continuare a viaggiare, fino a trovare quello percui si è giunti fino al punto in cui si è giunti, e dunque abbandonare questo mondo consci di non essere più al proprio posto.
Il tutto accade per mezzo di colpi di pistola e di fucile esplosi con incertezza, paura e nessuna precisione, che ricordano la resa dei conti tra William Munny e gli assassini del suo fedele amico proprio in chiusura del già citato Gli spietati, lontani dall'epoca del campo e controcampo di Sergio Leone, dai Mezzogiorno di fuoco e Sentieri selvaggi: non c'è nulla per il Mito, nel percorso che Nessuno traccia per William Blake.
Neppure le briciole.
Una carcassa di opossum. Un mal di denti.
Non c'è neppure il tabacco.
C'è solo una poesia che ha il suono del cane che percuote il piombo pronto ad essere esploso il più velocemente possibile nel cuore di un malcapitato amante.
Stupido uomo bianco, con le sue armi da fuoco e la sua cultura di superiorità.
Nessuno sa di cosa si sta parlando.
Di Vecchio e Nuovo Mondo uniti sotto la bandiera dell'ignoranza, della prepotenza, della legge della giungla, e del più forte.
La legge del piombo.
Quella di qualcuno che ha la pistola, e qualcuno che scava. E tu scavi.
Nessuno sa di cosa si sta parlando.
Peccato che non ci sia nessuno ad ascoltarlo.
Perchè l'uomo bianco è stupido, e l'unico in grado di comprendere è già morto.
William Blake, che non fuma e non ha tabacco.
Almeno fino alla fine del viaggio. E forse oltre.
Perchè quello che trova servirà una volta che sarà giunto sull'altra sponda del grande fiume.
Forse potrà offrirlo all'uomo che l'ha ucciso.


MrFord


Partecipano lisergicamente a questo trip verso l'oltre:


http://viaggiandomeno.blogspot.com/2013/06/buon-compleanno-mr-depp.html http://bollalmanacco.blogspot.com/2013/06/johnny-depp-day-ed-wood-1994.html http://erameglioillibro.blogspot.com/2013/06/the-rum-diary-cronache-di-una-passione.html http://valemoviesmaniac.blogspot.com/2013/06/johnny-depp-day-edward-mani-di-forbice.html http://affarinostriinformand.blogspot.com/2013/06/il-compleanno-poco-segreto-di-johnny.html http://insidetheobsidianmirror.blogspot.com/2013/06/la-nona-porta.html http://triccotraccofobia.blogspot.com/2013/06/johnny-depp-day.html http://incentralperk.blogspot.com/2013/06/johnny-depp-day-benny-e-joon.html http://directorcult.blogspot.com/2013/06/johnny-depp-day-il-mistero-di-sleepy.html http://frank-manila.blogspot.com/2013/06/johnny-depp-day-minuti-contati.html http://pensiericannibali.blogspot.com/2013/06/crai-baby.html http://castellodiif.blogspot.com/2013/06/un-sogno-americano-in-serbo.html http://criticissimamente.blogspot.it/2013/06/johnny-depp-una-biografia-non.html


"You wake up in the middle
of the night.
Your sheets are wet
and your face is white,
you tried to make
a good thing last,
how could something so good,
go bad, so fast?"
Neil Young - "American dream" -


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