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lunedì 23 ottobre 2017

Wind River (Taylor Sheridan, UK/Canada/USA, 2017, 107')





Tutti voi vecchi pirati che passate da queste parti dovreste ormai ben conoscere il concetto di Western che mi affascina, che tocca corde che passano dalla Leggenda alla Realtà, per dirla al solito come John Ford, tra i ricordi di mio nonno e John Wayne ed i nuovi confini posti da Eastwood, da Winter's bone, da Hell or high water.
Il Western non è qualcosa che riguarda solo ed esclusivamente cowboys e indiani, sparatorie e canyons, quanto l'idea tutta umana di arrivare a fronteggiare qualcosa di ignoto, sia esso l'amore, la violenza, un'avventura, una sfida, un dolore, la vita stessa.
Una cosa che riporta alla memoria le atmosfere delle canzoni di De Andrè, tanto per citare un autore assolutamente associabile al genere.
Quando Cannibal, e niente meno che lui, pochi giorni fa ha parlato di questo film con lo stesso entusiasmo del già citato Hell or high water, non ho saputo resistere alla sfida, e sono corso immediatamente a confrontarmi con il confine che aveva messo alla prova il mio rivale numero uno: e devo ammettere che quella linea immaginaria era davvero pane per i miei denti.
Wind River, uno di quei titoli che passano in sordina rispetto alle grandi produzioni o alle uscite da sala piena, è un Western nel senso più profondo e puro del termine, una storia di pancia ed umana, dolorosa e potente, pronta a colpire e lasciare segni importanti nel cuore.
E' una storia di padri e figli, di ferite impossibili da rimarginare, di riscatto, di prede e predatori, di guerrieri e di sciacalli: il lavoro di Taylor Sheridan si prende il suo tempo, proprio come un cacciatore appostato, in attesa che la bestia porti la testa allo scoperto, che il branco mostri le zanne, che il momento della resa dei conti prenda forma di lacrime e sangue.
Ed è un tempo da respiri a pieni polmoni, che riempie d'aria in preparazione alla tensione dell'apnea - e credetemi, la sequenza in cui viene mostrata l'aggressione è così forte da aver riportato alla mente del sottoscritto cose gigantesche come Mystic River -, che riesce a caratterizzare i personaggi in pochi e semplici passaggi - la visita dell'agente dell'FBI accompagnata dal capo della polizia tribale e dal main charachter a casa del padre della giovane vittima vive nello sguardo che cambia proprio di quest'ultimo, e nel gesto di protezione del poliziotto che si mette a protezione della porta nel momento in cui l'uomo distrutto si ritrova a dover sfogare il suo dolore -, ed anche quando i nodi vengono al pettine porta in scena un vero e proprio scontro a fuoco che per realismo, rapidità e thrilling merita senza dubbio un posto tra le sequenze più forti di quest'ultimo anno cinematografico.
Wind River è un film che racconta di confini oltrepassati, di prede e predatori, di padri e figli, e che, come giustamente ha scritto sempre il mio rivale Cannibale - che si becca addirittura una doppia citazione, cosa credo mai successa -, in alcuni momenti fa desiderare di avere dei figli, ed in altri spaventa per tutto quello che il mondo possa riservare loro.
Commuove, Wind River. E fa provare rabbia.
Una rabbia che mostra la Natura dell'Uomo, a prescindere dal fatto che possa stare oppure no dalla parte giusta.
Anche in questo caso, il confine, da Western, è labile.
Perchè un predatore di predatori resta pur sempre un predatore.
Perchè l'Uomo non cambierà mai.
Perchè il branco continuerà, in diverse forme, a cercare nuove prede.
Ma è dannatamente vero che quel confine rivela anche legami che non possono essere spezzati, e mostra prove di coraggio che superano - e devono superare - la Paura.
Perchè è in quel coraggio che si trova la forza di andare avanti.
E la forza di combattere.
E l'amore.




MrFord




 

lunedì 16 maggio 2016

Captain America - Civil War

Regia: Anthony Russo, Joe Russo
Origine: USA, Germania
Anno:
2016
Durata:
147'








La trama (con parole mie): a seguito degli incidenti in Sokovia e di uno scontro in Nigeria che provoca la morte accidentale di alcuni volontari del Wakanda innescando un incidente diplomatico proprio con i regnanti del piccolo Stato fornitore del prezioso vibranio, il Segretario americano Ross intima a Tony Stark e Steve Rogers di firmare un patto con le Nazioni Unite che prevede un controllo molto stretto delle attività superumane, che il primo abbraccia in modo da poter tutelare il numero più alto possibile di innocenti ed evitare le morti collaterali ed il secondo rifiuta per evitare di rinunciare al valore che ha difeso per tutta la vita, prima e dopo il suo ritorno, la libertà.
La frattura all'interno degli Avengers vede dunque nascere due schieramenti definiti, il primo a favore del nuovo status quo, guidato da Iron Man e comprendente War Machine, Visione, il principe di Wakanda Pantera Nera, la Vedova Nera ed il giovanissimo Spider Man, ed il secondo che, al contrario, non intende rinunciare al proprio libero arbitrio, legato a Captain America e composto da Falcon, Hawkeye, Scarlet, Ant Man ed il Soldato d'inverno, pietra angolare della disputa.
Cosa accadrà quando i più grandi eroi del pianeta finiranno a combattere gli uni contro gli altri?
E quale si rivelerà essere la verità dietro questo stesso scontro?











Ai tempi della versione cartacea di Civil War avevo già abbandonato la lettura dei fumetti Marvel, eppure, per quello che venni a sapere, l'idea mi parve davvero interessante: proporre i principali eroi divisi in due fazioni, una a favore di un maggiore controllo dei superumani ed una contraria, guidate rispettivamente da Iron Man e Captain America, aveva diversi assi nella manica.
Primo fra tutti, il fatto che un bad guy come Tony Stark diventasse il paladino dell'Ordine mentre, dall'altra parte, il boy scout per eccellenza, Steve Rogers, si ergesse come baluardo per la rivolta: una cosa intrigante, anche perchè fan di uno o dell'altro avrebbero finito per "tifare contro" il proprio beniamino, in caso di disaccordo ideologico.
Personalmente, non ho mai amato Iron Man o il vecchio Cap - i miei favoriti sono e resteranno sempre gli eroi urbani come Daredevil e Spider Man -, e agli Avengers ho sempre preferito gli X-Men, considerate le mie simpatie per gli outsiders, ma tra i due leader degli Eroi più potenti della Terra senza dubbio è Stark a somigliare più al sottoscritto: imperfetto, casinista, pronto a sfruttare i propri difetti e a trasformarli in punti di forza.
Eppure, in Civil War come al Cinema - considerati i tre film dedicati ad ognuno -, mi sono trovato nettamente dalla parte del buon Capitano: a prescindere, comunque, dalle riflessioni che mi porterebbero, nella situazione dei protagonisti, a schierarmi senza alcun dubbio dalla parte del vecchio Steve, posso solo essere felice del fatto che Anthony e Joe Russo, dopo l'ottimo lavoro svolto sul precedente Winter Soldier, abbiano confezionato uno dei migliori prodotti del Cinematic Universe targato Marvel insieme al primo Avengers, al secondo Thor e a Guardiani della Galassia, una pellicola ritmata, divertente, ironica ed esaltante di quelle perfette per ogni amante del Fumetto così come del pubblico occasionale, che in un prodotto di questo genere può ritrovare l'intrattenimento fracassone ma intelligente che tanto ha fatto per noi ragazzi cresciuti negli anni ottanta.
A prescindere, infatti, dalla costruzione forse a tratti un pò macchinosa e ad un villain probabilmente non all'altezza - un riadattato Arnim Zola -, Civil War è tutto quello che avrebbe dovuto essere Age of Ultron e che, a questo punto, considerata la regia affidata proprio ai Russo, spero sarà la doppia uscita Infinity War, che dovrebbe rappresentare il culmine delle proposte Marvel in sala degli ultimi anni: introduzione di nuovi ed interessanti charachters - Pantera Nera è reso davvero molto bene, nonostante i pochi minuti on screen, ed il rinnovato Spider Man aumenta già l'hype per la pellicola a lui dedicata -, giusto spazio costruito per i personaggi secondari - Ant Man, già protagonista di una pellicola più che discreta, regala uno dei passaggi di maggior esaltazione dello scontro tra i due Team rivali, Falcon acquista uno spessore che non ha mai avuto neppure sulla pagina, Visione, se trattato nel modo giusto, potrebbe finire per risultare una delle scommesse vincenti dei Vendicatori on screen -, un crescendo che unisce ironia, parti epiche - il duello tra Cap e Iron Man - e sequenze di puro godimento come lo scontro con tanto di esibizione dei poteri di ogni partecipante allo stesso dei due schieramenti.
L'unica, forse, a patire nonostante il ruolo per certi versi determinante nella lotta è la Scarlet di Elizabeth Olsen, che soffre della stessa sindrome che pesò sul personaggio anche negli albi per anni: la figlia di Magneto, infatti, in termini di poteri, è uno dei charachters più temibili e potenti dell'Universo Marvel, eppure pochi autori hanno saputo renderla al meglio.
Diciamo che al Cinema manca ancora questo salto, ma non è detto che in futuro non possa avvenire.
Nel frattempo, che si scelga di stare dalla parte di Stark o da quella di Rogers, Civil War rappresenta un intrattenimento come raramente se ne vedono, che personalmente mi sono goduto dal primo all'ultimo minuto fino ai due brevi filmati nel corso dei titoli di coda che mettono ulteriore carne al fuoco rispetto al Cinematic Universe, uno dei progetti più ambiziosi e goduriosi - se si è abbastanza pane e salame - che il Cinema abbia regalato al pubblico negli ultimi vent'anni.






MrFord





"Guerra civile famigliare
guerra civile intima
guerra civile famigliare
guerra civile famigliare
guerra civile intima
guerra civile famigliare
guerra civile intima."
Tre Allegri Ragazzi Morti - "Guerra civile" - 






lunedì 2 giugno 2014

Godzilla

Regia: Gareth Edwards
Origine: USA, Giappone
Anno: 2014
Durata: 123'





La trama (con parole mie): Joe Brody, insieme alla moglie Sandra, sono al lavoro in un impianto in Giappone quando qualcosa provoca un incidente che costa la vita alla donna, lasciando l'uomo solo con il dubbio che la scusa di un terremoto sia soltanto una copertura.
Quindici anni dopo lo stesso Joe coinvolge il figlio ormai adulto Ford - e non è uno scherzo - nella ricerca che conduce alla verità a proposito di creature millenarie celate dagli abissi del nostro pianeta tornate alla luce per distruggere il mondo intero in cerca di cibo e mosse dall'istinto di procreazione. Quando ogni speranza pare pronta ad abbandonare l'Uomo, però, dalle profondità marine giunge un'altra temibile ed incontrollabile creatura che potrebbe fungere da arbitro alla contesa: Godzilla.








E' davvero un peccato che mostri giganti e robottoni abbiano finito per perdere il fascino indiscutibile e sopra le righe che avevano ai tempi dei gloriosi eighties, quando i cartoni animati del pomeriggio erano in grado di trasformare anche la più noiosa delle giornate in un appuntamento imperdibile con il divertimento: dopo la delusione che fu Pacific Rim, onestamente speravo che il buon, vecchio Godzilla potesse in qualche modo risollevare le sorti del genere anche grazie alla presenza di Gareth Edwards, che riuscì a sorprendere non troppo tempo fa con il buon Monsters, dietro la macchina da presa.
Ed ho continuato a sperare anche dopo aver letto le prime - certo non entusiastiche - recensioni.
Forse perchè il cervello, quando la Realtà comincia a pesare troppo, finisce per gettarsi a capofitto nella ricerca di qualcosa che lo intratterrà e farà godere come se non ci fosse bisogno alcuno della sua parte logica e razionale, e che chiami in causa, al contrario, quella più antica, detta rettile - che, tra le altre cose, in questo caso ci starebbe da dio -, lasciando che sia solo il piacere primordiale a prendere il sopravvento.
Peccato che, nonostante gli effettoni strabilianti - così come fu per il già citato Pacific Rim, sono almeno due o tre le sequenze da occhi sgranati -, il cast di prim'ordine - da Aaron Taylor Johnson a Ken Watanabe, passando per Elizabeth Olsen e soprattutto Bryan Cranston -, l'approccio decisamente inusuale per quello che, di fatto, è un monster movie catastrofico - Godzilla protagonista assoluto, con un ruolo da "eroe" più in vista di quello del vero e proprio main charachter, ribattezzato curiosamente Ford, opposto ad una coppia di suoi simili colpevoli, di fatto, semplicemente di voler portare avanti la loro specie -, il giocattolone in questione finisca per non soddisfare tanto chi si aspettava qualcosa di scanzonato e fracassone quanto chi da Edwards pensava di ottenere quello che era già stato ribattezzato il Batman begins del genere.
Non che Godzilla sia brutto da vedere, o uno di quei titoli in grado di scatenare il peggio in quanto a bottigliate, eppure qualcosa non è riuscito a funzionare come avrebbe dovuto - allo stesso modo del mancato supercult così tremendamente simile firmato da Guillermo Del Toro lo scorso anno - e la visione passa da un'ottima prima parte decisamente ben costruita alla più classica delle escalation a stelle e strisce della seconda, priva però del divertimento sopra le righe che prodotti come The Avengers o Expendables 2 portavano in dono garantendo all'audience un completo, inesorabile, spassosissimo coinvolgimento.
La cosa più interessante della visione resta l'interpretazione molto "umana" dei mostri coinvolti, dalla coppia di "distruttori" - in cerca, molto istintivamente e semplicemente, di un luogo in cui procreare e stabilire il loro territorio - a quella dello stesso Godzilla, visto dai personaggi di Cranston e Watanabe come una sorta di divinità in pieno stile manga dalle capacità distruttive immense eppure in grado di scegliere quello che, apparentemente, dovrebbe essere il male minore per il pianeta che in qualche modo finisce per proteggere.
Le espressioni del vecchio Godzy e la sua furia in battaglia regalano uno spessore insperato ad una pellicola purtroppo con troppo poco carattere per rimanere davvero impressa nella memoria, del Saloon e degli spettatori in genere, ma il risultato non cambia.
E alla fine, con la polvere finalmente depositata e quella camminata fiera del mostro gigante di ritorno al suo habitat naturale, si ha l'impressione che, per quanto grande e grosso appaia, il lavoro di Edwards non lo sia, di fatto, fino in fondo.
E neppure in superficie.




MrFord




"Those evil natured robots - they're programmed to
destroy us - She's gotta be strong to fight them -
so she's taking lots of vitamins - cause she knows that
it'd be tragic if those evil robots win - I know
she can beat them -."
The Flaming Lips - "Yoshimi battles the pink robots Part. 1" -
  




venerdì 28 febbraio 2014

Oldboy

Regia: Spike Lee
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 104'




La trama (con parole mie): Joe Doucett, uomo d'affari che fin dai tempi del college ha sempre pensato esclusivamente a se stesso, una notte viene rapito da un misterioso individuo.
Ritrovatosi in una stanza-prigione all'interno della quale è destinato a passare vent'anni e venuto a conoscenza dell'accusa di omicidio dell'ex moglie, madre della sua unica figlia, che pende su di lui, l'uomo giura di ripulirsi, riuscire a trovare una via di fuga e prendersi cura della bambina divenuta donna che lo crede un fuggitivo ed assassino.
Liberato senza una spiegazione dalla detenzione, Doucett è sfidato dal misterioso mandante della tortura subita che vorrebbe fosse scoperto il motivo che l'ha spinto ad ordire un piano così terribile e ben strutturato: aiutato da un vecchio compagno di studi proprietario di un locale e da una giovane infermiera, Joe si mette dunque alla ricerca di quello che è stato, di fatto, il suo aguzzino, nella speranza di poter compiere la vendetta senza sapere di essere stato, a sua volta, vittima di una vendetta che deve ancora trovare il compimento definitivo.








Il fatto che Spike Lee fosse nel pieno di una crisi - di mezza età? - di ispirazione ed argomenti e preda di deliri di onnipotenza razziali al limite dell'imbarazzante - le accuse a Flags of our fathers di Clint Eastwood e Django Unchained di Tarantino parlano chiaro - risultava purtroppo noto agli appassionati di settima arte già da tempo: non si sentiva dunque certo il bisogno che, per certificare la stessa, sfoderasse l'inutile remake di una pellicola che, all'inizio del nuovo millennio, sconvolse proprio il bad guy Quentin allora Presidente della Giuria a Cannes - che la insignì del Gran Premio - e divenne immediatamente un instant cult per gli appassionati e non solo.
Dunque, se il confronto con il lavoro di Park Chan Wook appare da subito decisamente impietoso - che si parli di aspetti tecnici, come la colonna sonora o la fotografia, o emotivi, data la poesia e l'intensità dell'originale -, passerei oltre cercando di evitare il classico confronto quanto più possibile, pensando a questa versione di Old boy come ad un film indipendente ed "unico": il problema principale, purtroppo per il vecchio Spike, è che i limiti di questa sua ultima fatica risultano evidenti pur non considerando il suo illustre ispiratore.
Il primo è senza dubbio costituito dalla mancanza di passione: l'impressione che si ha, infatti, è più quella che ricorda i film su commissione voluti dai grandi Studios per i registi messi sotto contratto e costretti, di tanto in tanto, ad una qualche marchetta tipica delle majors che non di un lavoro fortemente voluto dall'autore newyorkese, che pare sempre più lontano dai gran bei tempi de La 25ma ora ed Inside man.
Ad aggravare questa già non rosea situazione, troviamo scelte di casting poco azzeccate - passi per la Olsen, ma da Brolin a Copley, fin troppo sopra le righe, ad un Samuel Jackson imprigionato in un ruolo che gli sarebbe potuto calzare a pennello nella prima metà degli anni novanta, proprio non ci siamo -, un approccio più adatto ad un action movie in stile Io vi troverò che non ad un drammone legato a doppio filo al tema della vendetta ed alcune scelte di sceneggiatura poco convincenti e decisamente tagliate con l'accetta.
Senza dubbio Lee sa il fatto suo, dietro la macchina da presa - ne è un'ottima dimostrazione il piano sequenza dal gusto che ricorda i film di arti marziali di Hong Kong che segue il confronto fisico tra il protagonista ed i suoi carcerieri -, ed alcune intuizioni che si scostano dal lavoro di Park funzionano - il finale, su tutte -, ma è decisamente troppo poco perchè si possa davvero apprezzare questo lavoro, si voglia oppure no legare lo stesso al suo mitico ispiratore.
Perfino l'utilizzo della violenza pulp, elemento contrastante con l'etereo e struggente lirismo eppure in perfetto equilibrio con lo stesso tra le mani dell'autore di Mr. Vendetta e Lady Vendetta - che affiancarono Old Boy nella nota trilogia -, appare posticcio ed inutilmente provocatorio, come se non bastassero main charachters al limite del caricaturale - da intendersi non in senso positivo, ovviamente -.
Un fallimento su tutti i fronti - o quasi -, dunque, per il perennemente arrabbiato autore di Fa la cosa giusta, che non solo pare aver perso lo smalto, ma anche - cosa ben più grave - la necessità di raccontare davvero una storia degna di essere ascoltata: dai tempi, infatti, dello splendido documentario sull'uragano Katrina che distrusse New Orleans, non si hanno più notizie del vero Spike Lee.
C'è solo da sperare che si tratti di una condizione passeggera.
Perchè in questo momento, a chiedere vendetta è soltanto il pubblico, di fronte a prodotti davvero poco significativi come questo.



MrFord



"They're trying to build a prison,
they're trying to build a prison,
following the rights movements
you clamped down with your iron fists,
drugs became conveniently
available for all the kids,
following the rights movements
you clamped down with your iron fists,
drugs became conveniently
available for all the kids."
System of a down - "Prison song" -




martedì 5 giugno 2012

La fuga di Martha

Regia: Sean Durkin
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 102'



La trama (con parole mie): Martha, una giovane allo sbando che vive in una sorta di comune gestita da un uomo più grande dedito a plagiare completamente i ragazzi che gli si accompagnano, dopo due anni di silenzio contatta la sorella in modo da fuggire da una realtà distorta e sempre più pericolosa.
Tornata in seno alla famiglia, la ragazza cerca di recuperare un passo alla volta il proprio equilibrio, ancora turbata dai ricordi del tempo trascorso sotto l'influenza di Patrick - questo il nome del "maestro" dal quale è fuggita -: ma la distanza con la sorella e suo marito pare essere incolmabile, ed i segni rimasti nella psiche di Martha troppo profondi perchè lei possa pensare davvero di lasciarsi alle spalle un'esperienza così traumatica.
La fuga, dunque, potrebbe essere ancora troppo poco per una prigione invisibile ma non per questo meno terribile.




Nel corso degli ultimi due anni, il Cinema americano indipendente - quello del Sundance style, per intenderci - pare aver conosciuto una sorta di rinascita legata al concetto di Frontiera nel senso più ampio del termine, regalando al pubblico pellicole che, seppur non sempre perfette, hanno colpito dritte al cuore scavando nel profondo dell'abisso più oscuro delle stars&stripes: da Red State a The woman, passando per Red, white and blue finendo a culminare con quella meraviglia di Winter's bone, hanno inferto alla nostra anima tagli da ferita aperta e carne viva davvero niente male.
La fuga di Martha si aggiunge a questo insolito club senza quasi per nulla sfigurare, considerato che si tratta di un'opera prima se vogliamo a tratti ancora acerba e grezza eppure decisamente - soprattutto dal punto di vista emotivo - potente.
Costruita attorno alla sorprendente protagonista - una clamorosamente brava Elizabeth Olsen, imparentata non si sa come o perchè con le irritanti gemelle cresciute dalla Disney - questa pellicola è la storia di una vittima e della sua lotta per riuscire ad uscire da una prigione impostale da un mondo per il quale lei finirà sempre per essere troppo fragile o fuori posto: in particolare, ho trovato estremamente drammatici, ancor più dei momenti passati nella comune "governata" da Patrick, quelli dei confronti con la sorella ed il marito, sconvolti per il bagno nuda della ragazza o irritati e feriti dalle frasi apparentemente irriconoscenti della fuggiasca tornata a casa.
La bravura del regista e sceneggiatore, in questo senso, sta nel porre lo spettatore in una condizione per la quale è difficile, pur riconoscendo lo stato della ragazza ed i traumi che porta dentro, non sentirsi chiamato in causa e schierato con la coppia che la ospita, che vorrebbe portarla all'interno del suo mondo, inconsapevole del fatto che per Martha non ci sarà mai spazio in una dimensione "normale" della vita: perchè, in fondo, per lei è sempre stato tutto in bilico, un "walking the line" doloroso e solitario, in grado di spingerla tra le braccia di un individuo come Patrick, personaggio aberrante - quasi un novello Manson - interpretato da brividi dallo stupefacente John Hawkes, già protagonista del succitato Winter's bone ed autore di una prova maiuscola, che ha al vertice la sequenza strepitosa della canzone eseguita per Martha - o Marcy May, come è ribattezzata alla fattoria -.
Proprio la pratica di spersonalizzazione messa in atto da Patrick - ribattezzare a suo piacimento ogni nuova arrivata, farla preparare dalle altre alla "purificazione" e alla prima notte di sesso con lui, essere padre e padrone - è alla base delle ferite più profonde di Martha, che soltanto di fronte alla parte più violenta della "setta" - la terribile sequenza del tiro a segno, la rapina finita nel sangue - riescono a scuotere la ragazza affinchè possa cercare un rifugio che, a conti fatti, rifugio non è, perchè non c'è fuga dai demoni che la vita le ha messo di fronte, e dentro.
Martha è una vittima, e in quanto tale avrà di fronte un percorso di sofferenza che potrà apparire senza fine, costellato dalla sensazione che Patrick e i suoi non l'abbiano mai lasciata, e siano sulle sue tracce come lupi, alle sue spalle mentre lei, di fronte, si trova costretta ad affrontare una realtà che non le appartiene più, e forse non le è mai appartenuta: il finale, non del tutto riuscito rispetto all'idea che pone di fronte allo spettatore, è il culmine di questo percorso, e l'inizio della vera battaglia che, se davvero vorrà, Martha si troverà ad affrontare.
Una battaglia di cui noi possiamo conoscere soltanto la superficie, che i continui flashback ed aggangi dello script - davvero ben scritto - possono solo trasmettere in una minima parte, che i "mi dispiace, abbiamo entrambe detto cose che forse non pensavamo" non riusciranno mai a celare, che le visioni continueranno ad alimentare, come un telefono che squilla e al quale non vorremmo più rispondere.
O aver voglia di stuzzicare componendo il numero sbagliato.
Quella di Martha non è una fuga.
E' il disperato tentativo di guardare il mondo in faccia e non pensare che questo ricambi lo sguardo come un cacciatore fa con una preda.


MrFord


"I take a walk outside
I'm surrounded by some kids at play
I can feel their laughter, so why do I sear?
Oh, and twisted thoughts that spin round my head
I'm spinning, oh, I'm spinning
how quick the sun can drop away."
Pearl Jam - "Black" -


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