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mercoledì 15 aprile 2015

Humandroid

Regia: Neill Blomkamp
Origine: USA, Messico, Sud Africa
Anno: 2015
Durata: 120'





La trama (con parole mie): siamo nel prossimo futuro a Johannesburg, e mentre la violenza ed i problemi sociali impazzano, una grande corporazione si affida alle creazioni del giovane genio della robotica Deon Wilson, progettista di una serie di automi programmati per prendere il posto degli agenti di polizia umani sempre al lavoro sull'idea di realizzare un prototipo dotato di una propria coscienza.
Accantonato dunque il progetto dell'ex militare Vincent Moore, che prevedeva l'utilizzo di droidi guidati da piloti umani tramite uno speciale casco in grado di creare un legame tra uomo e macchina, i nuovi tutori dell'ordine paiono trovare la loro dimensione risolvendo gran parte dei problemi di ordine pubblico: quando, però, il progetto di automa "umano" di Deon viene bocciato e quest'ultimo decide di portarlo comunque avanti all'insaputa dei propri capi, si innesca una serie di eventi che vede coinvolti lo stesso scienziato, una gang di criminali di strada, una sentinella robot destinata alla demolizione e lo stesso Moore.
Il file in grado di sviluppare "l'anima", infatti, inserito nel robot sulla via della rottamazione, da origine a Chappie, primo automa ad avere, in tutto e per tutto, una vita non solo fisica, ma anche e soprattutto sentimentale: combattuto tra l'idea di seguire le indicazioni del suo creatore o quelle dei nuovi amici della strada, Chappie diverrà l'ago della bilancia di uno scontro che potrebbe rivelarsi epocale.









Con ogni probabilità, essere dei talenti - sulla carta o effettivi - non è affatto un buon affare, almeno quando ci si ritrova costretti a mantenere fede ad aspettative alte da parte di chi attende al varco più un fallimento che un successo.
Neill Blomkamp, ex genietto legato al mondo della pubblicità divenuto una sorta di fenomeno qualche anno fa grazie all'ottimo District 9 - che, nonostante le prime diffidenze, convinse alla grande anche il sottoscritto, ed alimentò un culto sconsiderato per i gamberoni protagonisti - è senza dubbio, allo stato attuale, una delle vittime più illustri che la settima arte abbia fatto in questo senso.
Alle spalle, infatti, la delusione di Elysium - prima, grande prova sul banco fornito dal dorato mondo hollywoodiano -, il giovane cineasta sudafricano era di fatto chiamato, con questo Chappie ribattezzato - per una volta giustamente - dai titolisti italiani con Humandroid a convincere i fan più hardcore e legati all'autorialità di non essere un fuoco di paglia, il classico regista pronto a giocarsi le migliori cartucce all'esordio per poi sedersi su idee e soldi facili per tutto il resto della sua carriera, accontentandosi di divenire un mestierante.
Se, effettivamente, l'intento di Blomkamp era questo, occorre constatare quantomeno il suo parziale fallimento: Humandroid - o Chappie, che dir si voglia -, infatti, ripercorre le orme non certo entusiasmanti del già citato Elysium, fondamentalmente promettendo spunti interessanti di fatto seppelliti, ad opera completa, da un eccessivo citazionismo ed una dose altrettanto oltre misura di concessioni al grande pubblico ed al concetto di blockbuster.
Senza dubbio il quasi giovane regista - parliamo di un mio coetaneo, del resto, e dunque il suddetto quasi è d'obbligo - mostra di amare quello che, di fatto, pare essere stato il suo bagaglio culturale come spettatore - e come contraddirlo: si notano influenze che vanno da Corto circuito a Robocop, passando per Blade Runner, Mad Max e l'immaginario della sci-fi post atomica da Ken il guerriero all'intera o quasi produzione eighties del genere - senza però discostarsi dal plot che aveva fatto la sua fortuna con il film d'esordio, di fatto riportando Chappie alla condizione dei gamberoni e sfruttando l'umanizzazione della macchina neanche fossimo tornati ai fasti - impossibili da eguagliare - di Terminator 2.
Eppure, riferimenti ed ironia a parte - spassoso il "puttana di figlio", già cult -, diversi ingranaggi paiono incepparsi, nell'apparentemente ben confezionata macchina del buon Neill: dallo script - decisamente spezzettato e poco sensato nella gestione dei personaggi, dalla gang di criminali al creatore di Chappie - al cast - che, tolti i due interpreti "musicali" di Yo-Landi e Ninja, pare assolutamente svogliato a partire da Hugh Jackman -, senza contare la quasi perenne sensazione di deja-vù, appare presto evidente che, se la speranza era di poter sfruttare questo film per consacrare una volta per tutte il suo regista, la stessa ha finito per essere disillusa neppure troppo difficilmente.
Il risultato portato sullo schermo, infatti, tolta la resa artigianale, gli effetti - ottimi tutti i robots ed i loro movimenti - ed alcuni passaggi molto divertenti - il primo furto d'auto del protagonista -, finisce per inserirsi a pieno titolo tra le visioni destinate ad essere dimenticate non troppo tempo dopo il passaggio sui nostri schermi: Blomkamp manca il bersaglio grosso, dunque, e senza alcuna possibilità di appello, ma quantomeno evita l'incazzatura e la tempesta di bottigliate che ne avrebbero almeno qui al Saloon compromesso il futuro e la credibilità quantomeno presentando un prodotto visivamente ben realizzato, male strutturato ma in grado di apparire funzionale quantomeno a chi per la prima volta si confronterà con l'operato di questo regista.
Non è molto, ma è molto di più di quanto non si potrebbe pensare, considerato il fatto che Humandroid ha tutto il diritto di essere ascritto alla categoria degli esperimenti sbagliati.
Con buona pace dell'ottimo Chiappie, che nonostante l'età avanzata vorrei davvero come compagno di giochi e scorribande, per me quasi prima ancora che per il Fordino.




MrFord




"Oooh rock'n'roll robot, 
oooh rock'n'roll robot
io ti amo, io ti cerco, io ti voglio, 
rock'n'roll robot."
Alberto Camerini - "Rock and roll robot" - 




martedì 10 giugno 2014

Maleficent

Regia: Robert Stromberg
Origine: USA, UK
Anno: 2014
Durata: 97'





La trama (con parole mie): tutti conoscono, chi più chi meno, la fiaba de La bella addormentata, giovane principessa finita vittima di un incantesimo scagliato da Malefica e salvata dal bacio del vero amore. Ma la realtà della favola pare sia tutta un'altra cosa: a raccontare al pubblico come si sono svolti davvero i fatti è una misteriosa narratrice che riprende il filo di questa storia da molto tempo prima del suo principio più noto, quando la stessa Malefica, la più potente tra le fate, non era altro che una ragazzina, ed il suo regno, popolato da creature magiche, cercava di mantenere la distanza giusta affinchè la vicinanza del dominio degli umani non portasse ad un'altra guerra.
L'incontro casuale tra la stessa Malefica ed il giovane Stefano darà inizio ad una serie di eventi che nessuno dei due potrà davvero prevedere, e che avrà ripercussioni così grandi da scuotere le fondamenta dei due lati del confine.








Le fiabe, nel corso delle ultime due o tre stagioni, devono proprio aver avuto un brutto effetto, su Cinema e TV, di quelli simili alle sbronze che ti prendono male, pronte a farti pentire di tutto e del contrario di tutto sia durante che dopo.
Ricordo che, da bambino, Disney o audiocassette che fossero - le collane da edicola, in questo senso, erano pressochè perfette -, i Classici della Letteratura per bambini regalavano al sottoscritto emozioni e brividi che ancora oggi sento sulla pelle, che si parlasse di avventure, storie d'amore, pentimento, riscatto o puro e semplice terrore, da Il canto di natale a La bella e la bestia: le fiabe avevano qualcosa di magico a partire dalla loro semplicità, pronta spesso e volentieri a celare una profondità decisamente maggiore, nonchè specchio di una realtà scomoda interpretata dai loro autori in modo da dimenticare, probabilmente, ansie e zone d'ombra.
Poi, con l'avvento del colosso Disney, tutti parvero di colpo dimenticarsi di un certo tipo di atmosfera almeno fino ad una manciata di stagiorni or sono, quando da Gilliam alla serie Once upon a time il mondo dei Grimm e soci venne rispolverato e riadattato alla "modernità": con l'onda lunga generata da questo fenomeno, spesso e volentieri l'associazione alle favole è stata, per il sottoscritto ed il Saloon, una garanzia praticamente assoluta di schifezza pronta ad essere gustata e a prenotare un posto d'onore tra i dieci film in lizza per il Ford Award dedicato al peggio dell'anno, che si parlasse di Biancaneve, Hansel e Gretel o, per l'appunto, La bella addormentata.
Non è da meno a questa schiera Maleficent, proposta della grande D come peggio si potrebbe intendere, buona giusto per gli incassi stratosferici da weekend di pubblico occasionale preparata per pacificare non solo le famiglie in visita alla sala, ma anche il destino di quella che era una delle bad girls più interessanti prodotte dagli Studios del mitico Walt, perfetta nello scagliare la maledizione dell'arcolaio - che, ricordo, da piccolo mi inquietava parecchio nella sua ineluttabilità - trasformata in una sorta di zia figa che pare strana ma alla fine è pronta a tornare buona buona davanti al focolare ad uso e consumo di una delle Angelina Jolie peggiori di sempre, in grado di battagliare perfino con la sua controparte del terrificante The Tourist.
Al suo seguito, oltre ad una Elle Fanning tramutata in un'inutile bambola, l'ex alternativo Sam Riley, fatine irritanti cui prestano volto Imelda Staunton e Juno Temple ed il sempre più caricaturale Sharlto Copley, che alle spalle District 9 pare essere diventato una sorta di garanzia di delusione neanche si trattasse di un personaggio delle favole lui stesso: il problema, però, di Maleficent, non è tanto quello della bassissima prestazione del cast, della regia anonima e ad uso e consumo del 3D, della risibile sceneggiatura e dell'agghiacciante finale, quanto del bieco aspetto dell'intera operazione, nata chiaramente come una sanguisuga pronta a prosciugare le tasche dei poveri genitori costretti a sottostare ai desideri dei figli impazziti per l'ultima novità di casa Disney che non solo ha come protagonista una vera e propria "cattiva", ma è perfetta per veicolare le attenzioni sia del pubblico maschile che femminile.
Un colpo basso dei peggiori, che meriterebbe una lezione al botteghino oltre che dalla critica che purtroppo non arriverà, e che spalancherà le porte ad altre squallide operazioni commerciali simili mosse solo ed esclusivamente dalla povertà di idee degli autori pronti a riciclare e reebootare materie trite e ritrite - svilendole nel frattempo, e finendo per pescare a piene mani, come nel caso del bacio del vero amore, perfino da proposte recenti e legate allo stesso marchio decisamente meglio riuscite, come Frozen - ed alla necessità di gonfiare il portafoglio dei colossi di Hollywood prima che di far sognare il pubblico in sala.
Stando così le cose, sarei e sono senza dubbio felice di essere ancora dalla parte dei cattivi.




MrFord




"So you wanna play with magic
boy, you should know what you're falling for
baby do you dare to do this?
Cause I’m coming at you like a dark horse
are you ready for, ready for
a perfect storm, perfect storm
cause once you’re mine, once you’re mine
there’s no going back."
Katy Perry - "Dark horse" - 



venerdì 28 febbraio 2014

Oldboy

Regia: Spike Lee
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 104'




La trama (con parole mie): Joe Doucett, uomo d'affari che fin dai tempi del college ha sempre pensato esclusivamente a se stesso, una notte viene rapito da un misterioso individuo.
Ritrovatosi in una stanza-prigione all'interno della quale è destinato a passare vent'anni e venuto a conoscenza dell'accusa di omicidio dell'ex moglie, madre della sua unica figlia, che pende su di lui, l'uomo giura di ripulirsi, riuscire a trovare una via di fuga e prendersi cura della bambina divenuta donna che lo crede un fuggitivo ed assassino.
Liberato senza una spiegazione dalla detenzione, Doucett è sfidato dal misterioso mandante della tortura subita che vorrebbe fosse scoperto il motivo che l'ha spinto ad ordire un piano così terribile e ben strutturato: aiutato da un vecchio compagno di studi proprietario di un locale e da una giovane infermiera, Joe si mette dunque alla ricerca di quello che è stato, di fatto, il suo aguzzino, nella speranza di poter compiere la vendetta senza sapere di essere stato, a sua volta, vittima di una vendetta che deve ancora trovare il compimento definitivo.








Il fatto che Spike Lee fosse nel pieno di una crisi - di mezza età? - di ispirazione ed argomenti e preda di deliri di onnipotenza razziali al limite dell'imbarazzante - le accuse a Flags of our fathers di Clint Eastwood e Django Unchained di Tarantino parlano chiaro - risultava purtroppo noto agli appassionati di settima arte già da tempo: non si sentiva dunque certo il bisogno che, per certificare la stessa, sfoderasse l'inutile remake di una pellicola che, all'inizio del nuovo millennio, sconvolse proprio il bad guy Quentin allora Presidente della Giuria a Cannes - che la insignì del Gran Premio - e divenne immediatamente un instant cult per gli appassionati e non solo.
Dunque, se il confronto con il lavoro di Park Chan Wook appare da subito decisamente impietoso - che si parli di aspetti tecnici, come la colonna sonora o la fotografia, o emotivi, data la poesia e l'intensità dell'originale -, passerei oltre cercando di evitare il classico confronto quanto più possibile, pensando a questa versione di Old boy come ad un film indipendente ed "unico": il problema principale, purtroppo per il vecchio Spike, è che i limiti di questa sua ultima fatica risultano evidenti pur non considerando il suo illustre ispiratore.
Il primo è senza dubbio costituito dalla mancanza di passione: l'impressione che si ha, infatti, è più quella che ricorda i film su commissione voluti dai grandi Studios per i registi messi sotto contratto e costretti, di tanto in tanto, ad una qualche marchetta tipica delle majors che non di un lavoro fortemente voluto dall'autore newyorkese, che pare sempre più lontano dai gran bei tempi de La 25ma ora ed Inside man.
Ad aggravare questa già non rosea situazione, troviamo scelte di casting poco azzeccate - passi per la Olsen, ma da Brolin a Copley, fin troppo sopra le righe, ad un Samuel Jackson imprigionato in un ruolo che gli sarebbe potuto calzare a pennello nella prima metà degli anni novanta, proprio non ci siamo -, un approccio più adatto ad un action movie in stile Io vi troverò che non ad un drammone legato a doppio filo al tema della vendetta ed alcune scelte di sceneggiatura poco convincenti e decisamente tagliate con l'accetta.
Senza dubbio Lee sa il fatto suo, dietro la macchina da presa - ne è un'ottima dimostrazione il piano sequenza dal gusto che ricorda i film di arti marziali di Hong Kong che segue il confronto fisico tra il protagonista ed i suoi carcerieri -, ed alcune intuizioni che si scostano dal lavoro di Park funzionano - il finale, su tutte -, ma è decisamente troppo poco perchè si possa davvero apprezzare questo lavoro, si voglia oppure no legare lo stesso al suo mitico ispiratore.
Perfino l'utilizzo della violenza pulp, elemento contrastante con l'etereo e struggente lirismo eppure in perfetto equilibrio con lo stesso tra le mani dell'autore di Mr. Vendetta e Lady Vendetta - che affiancarono Old Boy nella nota trilogia -, appare posticcio ed inutilmente provocatorio, come se non bastassero main charachters al limite del caricaturale - da intendersi non in senso positivo, ovviamente -.
Un fallimento su tutti i fronti - o quasi -, dunque, per il perennemente arrabbiato autore di Fa la cosa giusta, che non solo pare aver perso lo smalto, ma anche - cosa ben più grave - la necessità di raccontare davvero una storia degna di essere ascoltata: dai tempi, infatti, dello splendido documentario sull'uragano Katrina che distrusse New Orleans, non si hanno più notizie del vero Spike Lee.
C'è solo da sperare che si tratti di una condizione passeggera.
Perchè in questo momento, a chiedere vendetta è soltanto il pubblico, di fronte a prodotti davvero poco significativi come questo.



MrFord



"They're trying to build a prison,
they're trying to build a prison,
following the rights movements
you clamped down with your iron fists,
drugs became conveniently
available for all the kids,
following the rights movements
you clamped down with your iron fists,
drugs became conveniently
available for all the kids."
System of a down - "Prison song" -




domenica 6 ottobre 2013

Europa Report

Regia: Sebastiàn Cordero
Origine: USA
Anno: 2013
Durata:
90'
 



La trama (con parole mie): un gruppo di astronauti, scelti e selezionati per una missione unica ed ambiziosa - investigare a proposito della natura di Europa, satellite di Giove che si sospetta possa ospitare acqua ed un ecosistema di batteri che dimostrerebbe l'esistenza di vita nell'universo -, partono alla volta della loro destinazione consci di dover affrontare mesi nello spazio mai attraversato da alcun essere umano.
Perso il contatto con il campo base, l'equipaggio di Europa One - questo il nome della nave - si ritroverà ad affrontare la parte cruciale della missione senza il supporto della Terra, nonchè i drammatici sviluppi che i rilevamenti sul suolo - e soprattutto sotto il suolo - di Europa porteranno per tutti loro.
I ricercatori responsabili della missione stessa, dal nostro pianeta, scopriranno soltanto una volta ripristinato il collegamento e grazie alle riprese delle videocamere della navetta cosa è accaduto ai protagonisti dell'impresa.




Probabilmente, da quando l'Uomo ha iniziato a sviluppare una coscienza sociale, e probabilmente anche prima, l'esigenza dello stesso di confrontarsi con l'ignoto e la tentazione di fissare sempre nuovi confini è divenuta parte integrante della Natura di questa controversa forma di vita di cui tutti noi facciamo parte.
Le grandi scoperte - che si parli di scienza, medicina, esplorazione o quant'altro - sono passate, passano e passeranno tutte attraverso quella sottilissima linea che separa follia da coraggio, curiosità ed ossessione, ego e generosità: per il Cinema, una materia come questa, animata da folli sogni e grandi imprese, è sempre stata un bacino cui attingere per poter realizzare pellicole in grado di emozionare e coinvolgere il pubblico, stuzzicando il senso di meraviglia dello stesso in modo da rendere possibile, fosse anche su uno schermo, per un paio d'ore e forse meno l'immedesimazione dell'uomo comune con quegli uomini comuni che furono protagonisti di imprese straordinarie.
Nel caso di Europa Report non parliamo di resoconti o ricostruzioni di fatti realmente accaduti, eppure lo spirito che pare aver animato Sebastiàn Cordero pare essere proprio questo: a partire da uno straordinario utilizzo della tecnica del found footage - di gran lunga il migliore passato qui al Saloon nel passato recente -, degli effetti - rustici e dosati benissimo -, dall'influenza dei Classici del genere - su tutti Alien e 2001: odissea nello spazio - e dalla suggestione sottilmente imposta allo spettatore fin dal principio a proposito del destino che attende l'equipaggio dell'Europa One, tutto contribuisce a rendere questo lavoro non soltanto la migliore proposta sci-fi dell'anno - pronta a fare polpette di tutti gli Elysium figli delle grandi case distributrici -, ma, in una certa misura, addirittura degli ultimi cinque.
Dall'umanità - espressa attraverso pregi e difetti - mai portata sopra le righe dei protagonisti alla straordinaria suggestione che Giove ed Europa riescono ad esercitare sullo spettatore, quella che, di fatto, sarebbe la cronaca di un'eventuale nuova frontiera scientifica e non solo diviene una cavalcata emotiva straordinaria, dal primo incidente occorso a James Corrigan alla meraviglia provata da Katya, prima fra tutti a poggiare il piede sul suolo di Europa, combattendo la tentazione di togliersi il guanto della tuta per sentire il ghiaccio di quella luna così lontana, con il gigantesco Giove all'orizzonte, direttamente sulla pelle, fino alla strepitosa sequenza che chiude il diario video dell'Europa One e lo stesso film, una lezione perfetta su come andrebbe sfruttato il potere dell'attesa e della meraviglia in un pubblico.
Siamo di fronte ad un gioiellino assoluto e nascosto, dunque, quasi ignorato dalla grande distribuzione internazionale e totalmente dimenticato da quella nostrana, ma che meriterebbe una visione a prescindere dalla confidenza dello spettatore con i mezzi del mockumentary - anche se non è propriamente definibile in questo modo - o il fascino della fantascienza: Europa Report, infatti, è un coraggiosissimo titolo che parla del desiderio umano di varcare inevitabilmente uno o più confini, e confrontarsi a qualsiasi costo - per quanto drammatica questa scelta sia - con la tentazione mitica di "rubare il fuoco agli dei".
Di fronte ad una scoperta senza precedenti, non si pensa più ad una singola vita: più o meno in questi termini si sviluppa la riflessione che, uno ad uno, mette a nudo i protagonisti della pellicola, ed in qualche modo l'audience stessa.
Fino a che punto saremmo disposti ad arrivare, per arrivare dove nessuno prima di noi era mai giunto?
Saremmo davvero disposti a rinunciare a muovere un passo oltre per rimanere nell'oscurità?
O, come falene, siamo predisposti per tuffarci inevitabilmente verso quella luce all'orizzonte?
Nessuno può, probabilmente, scrivere un'ultima parola rispetto a questo argomento, soprattutto considerato quanto possiamo perdere, dall'altra parte.
Terra contro spazio profondo. Conosciuto contro ignoto.
Nessuno sa.
Eppure, dentro, finiamo per saperlo tutti.


MrFord


"La fantasia dei popoli che è giunta fino a noi
non viene dalle stelle...
Alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena
potete stare a galla."
Subsonica - "Up patriots to arms" -


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