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venerdì 9 settembre 2016

Colonia (Florian Gallenberger, Germania/Lussenburgo/Francia, 110', 2015)


Sono sempre stato molto sensibile all'argomento della dittatura di Pinochet, che a partire dall'undici settembre settantatre e dalla deposizione di Allende insanguinò il Cile anticipando quello che sarebbe accaduto poco tempo dopo in Argentina, fungendo da esempio - purtroppo - per molte dittature "fiorite" in quegli anni in tutta l'America Latina.
Ricordo ancora lo stupendo corto di Ken Loach inserito proprio nella raccolta dedicata all'undici settembre duemilauno, ed i brividi che ad un fiero esponente del popolo come il sottoscritto mettono realtà come questa, in cui la Democrazia e la Libertà sono calpestate spesso e volentieri con il beneplacito dei potenti - nel caso di Pinochet e del Cile, molto del "merito" fu dei servizi segreti USA -: ovviamente, da questo Colonia non aspettavo un ritorno emotivo particolarmente importante, non fosse altro che si tratta indubbiamente di un prodotto patinato e da grande distribuzione interpretato da due dei giovani attori di maggior successo degli ultimi anni - Daniel Bruhl ed Emma Watson -, ma in tutta onestà non pensavo che sarebbe passato quasi senza colpo ferire.
La storia - ispirata dalle reali vicende della Colonia Dignidad e di Paul Schafer -, che parte come un melò in tempo di guerra per trasformarsi in un thriller che quasi ricorda The village, e ripercorre le vicende dei due protagonisti, trovatisi per amore - tra loro e per l'attivismo politico - e costretti a lottare non solo per la fuga dal Cile ma anche e soprattutto per la propria vita all'interno di quello che è un vero e proprio regno nel regno, per quanto ricca di spunti potenzialmente interessanti, non decolla mai davvero, presentando in modo molto più morbido situazioni terrificanti che i prigionieri del tempo hanno dovuto affrontare a partire dal golpe di Pinochet, dalle torture fisiche allo Stadio Nacional - che ancora oggi conserva uno spazio delle tribune rimasto inalterato come monito per quello scempio - a quelle psicologiche all'interno della Colonia.
Tutto accade senza troppe spiegazioni e fin troppo velocemente, a metà strada tra la mancanza di coraggio nel portare sullo schermo qualcosa di veramente terrificante o sconvolgente - pur senza doversi necessariamente crogiolare nella violenza esplicita - ed il desiderio di presentare una storia a lieto fine nel pieno stile ammeregano del termine, nonostante la produzione sia tedesca: come se non bastasse la Watson e Bruhl non paiono assolutamente convincenti - anzi, la prima mostra i suoi decisamente importanti limiti come attrice drammatica - ed anche il dipinto come inquietantissimo Michael Nyqvist sfrutta a mio parere davvero in misura molto bassa un charachter complesso ed oscuro come quello di Pius.
Un'occasione mancata, dunque, non tanto per consegnare al pubblico un prodotto il più possibile autoriale, quanto per sensibilizzare anche chi non sapesse nulla di quanto accaduto allora in Cile in modo che non paia come un dolcetto confezionato nel miglior modo possibile da qualche schiera di bambini schiavizzati nello scantinato del palazzo in cui viviamo: niente di particolarmente grave in termini cinematografici - quest'anno sono passate sugli schermi pellicole decisamente peggiori -, ma davvero poca cosa per essere ricordata davvero.
Il che, considerati gli argomenti trattati, suona inequivocabilmente come un delitto.




MrFord




lunedì 26 gennaio 2015

John Wick

Regia: Chad Stahelski
Origine:
USA, Canada, Cina
Anno: 2014
Durata: 101'




La trama (con parole mie): John Wick è un ex sicario, forse il più letale che si possa immaginare e sperare di non trovare mai dall'altra parte della propria barricata.
Ma i tempi in cui il terrificante "Baba Yaga" era in servizio attivo sono ormai lontani, e lo stesso John si dedica con tutto l'amore possibile a sua moglie ed alla sua macchina: quando la malattia finisce per portargli via la prima, e la donna prepara il terreno al superamento del dolore facendogli recapitare un cucciolo, un gruppo di piccoli malviventi - tra i quali il figlio di un boss che Wick conosce molto bene - rompono l'equilibrio facendo irruzione nella sua casa e compiendo un atto del quale non immaginano neppure le conseguenze.
Spinto dal desiderio di vendetta, John riprenderà in mano le armi in modo da ricordare a chi l'ha provocato che non si deve, mai e poi mai, svegliare il can che dorme.
Specialmente se si chiama John Wick.








In un mondo perfetto, avrei bisogno quantomeno un giorno sì ed uno no di titoli come John Wick.
Il fatto che io sia cresciuto a pane ed action movies e che, dopo anni di radicalchicchismo cinematografico abbia riscoperto e di nuovo nutrito quel lato della mia natura di spettatore è ormai noto a chiunque sia capitato da queste parti, che, dunque, non resterà certo stupito di fronte all'esaltazione espressa senza se e senza ma rispetto a titoli come questo.
Certo, parliamo di opere assolutamente senza pretese, tagliate con l'accetta ed assolutamente implausibili, eppure guidate - come nel caso del lavoro di Chad Stahelski - da una passione ed una dose di pane e salame a dir poco inaudite, di quelle che, nel passato recente, ha saputo regalare soltanto il vecchio Denzellone grazie a titoli come Cani sciolti o The equalizer.
John Wick, fumettone sopra le righe dal primo all'ultimo minuto nonchè prodotto che, fosse uscito nell'ottantasei, non avrebbe sfigurato accanto ai suoi colleghi del tempo, sancisce il ritorno alle atmosfere di Speed per un Keanu Reeves in spolvero totale nonostante i cinquanta già suonati, nonchè la garanzia di divertimento assicurato per chiunque abbia voglia di un'ora e mezza abbondante di sparatorie, botte da orbi, un antieroe solitario e vincente pronto a sbaragliare un'infinità di nemici già dalla prima - beh, facciamo la seconda - inquadratura assolutamente non alla sua altezza ed un pò di sfogo per il cervello alla fine di una giornata - o di una settimana - lavorativa particolarmente stressanti.
Senza dubbio i fighettini in stile Cannibal e tutti i puristi - almeno dichiarati - della settima arte dalla puzza sotto il naso si divertiranno a stroncare e snobbare questo titolo come fosse il peggiore dei mali, ma sinceramente poco mi importa: io adoro divertirmi, e so bene che prodotti di questo genere hanno il potere di regalarmi proprio il tipo di svago selvaggio, disimpegnato ed implausibile, fracassone e ovvio nella sua evoluzione già dal primo minuto, a prescindere dagli escamotage - o presunti tali - di sceneggiatura.
Del resto tutti noi sappiamo che, nonostante l'impegno, nessuno dei criminali di turno riuscirà neppure lontanamente a mettere in crisi il protagonista, ed allo stesso modo finiamo per restare in attesa soltanto del compimento della vendetta che si presagisce fin dall'incontro con il gruppetto di scellerati ed incauti bulli di mezza tacca al distributore di benzina.
Ed il bello è proprio questo.
Film - e charachters - come John Wick sono la gioia dell'action e dei suoi fan, uno spettacolo per gli occhi, l'adrenalina e l'esaltazione da neuroni staccati che a volte sono necessarie come l'aria per poter dare respiro ad una vita fin troppo reale ed incasinata: forse cose come l'hotel esclusivo per sicari all'interno del quale vige una non belligeranza degna di Highlander sono un pò eccessive, eppure il divertimento è assicurato, il tifo spudorato per il protagonista certo, il finale open mitico.
Poco importa, poi, che Willem Defoe e John Leguizamo facciano sostanzialmente da tappezzeria, che Michael Nyqvist ed Alfie Allen propongano il loro solito personaggio, che Adrianne Palicki appaia fin troppo poco con un look dark che aumenta il fascino che aveva fin dai tempi di Friday night lights: alla fine dei conti, sarà come salire su quel bus dei primi anni novanta, pensando ancora di essere nel pieno degli ottanta.
E al sottoscritto va benissimo così.




MrFord




"Think of me, I'll never break your heart.
Think of me, you're always in the dark.
I hate your love, your love, your love.
Think of me, you're never in the dark."
Kaleida - "Think" -




martedì 13 maggio 2014

Disconnect

Regia: Henry Alex Rubin
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 115'




La trama (con parole mie): Rich e Lydia Boyd, genitori di Abbie e Ben, assistono impotenti al dramma di quest'ultimo, ingannato da due compagni di scuola ed indotto ad un tentativo di suicidio, trovandosi a dover scoprire cosa ha portato il loro figlio minore ad isolarsi rispetto a loro e al mondo; Jason, uno dei due responsabili, sente la mancanza della figura del padre Mike, incaricato da una coppia sconvolta dalla morte del loro bambino di scoprire chi potrebbe essersi inserito nei loro conti correnti lasciandoli senza soldi, mentre una giornalista in rampa di lancio di un'emittente locale che per le questioni legali si affida proprio a Rich Boyd: la reporter in questione, Nina, è infatti contattata dall'FBI dopo aver realizzato un servizio sullo sfruttamento dei giovani pronti ad esibirsi davanti ad una webcam partendo dalla testimonianza di Kyle.
Le loro vicende si intersecheranno dando origine a nuovi drammi e potenziali rinascite.






Fin dai tempi della mia scoperta del Maestro Altman e delle tempeste di emozioni che furono Boogie nights e Magnolia firmati da Paul Thomas Anderson - di fatto, l'erede del buon Robert -, ho sempre avuto un occhio di riguardo per i film corali, in grado di trasformare gioie e dolori dei loro personaggi in affreschi dal potenziale emotivo enorme.
Nella mia storia relativamente recente di spettatore, ricordo bene l'amore a prima vista che esplose per Amores Perros - unico, vero grande film di Inarritu - e l'irritazione che suscitò invece Crash - Contatto fisico, sopravvalutato drammone made in USA clamorosamente premiato con l'Oscar: Disconnect, uscito non troppo tempo fa in sala e lasciato in sospeso dal sottoscritto proprio per evitare di affrontarlo con aspettative eccessivamente alte, si pone a metà strada tra i due estremi.
Pellicola interessante e a tratti solida, con idee di base decisamente buone - dalla scelta di raccontare l'incomunicabilità e l'isolamento nel mondo "smart" in cui viviamo a quella di far recitare il cast solo attraverso le espressioni durante le sessioni di chat - eppure non abbastanza coraggiosa da compiere quel passo oltre in grado di fugare ogni dubbio rispetto al facile sfruttamento del dramma e ad una traccia di fondo che possa far considerare questo come un titolo comunque consolatorio: un buon prodotto, dunque, ma dalle potenzialità decisamente superiori alla resa definitiva, soprattutto per quanto riguarda le intenzioni di sceneggiatori e regista, che paiono premere sull'acceleratore solo ed esclusivamente nei momenti in cui loro stessi si sentono più sicuri e certi di non perdere parte dell'audience lungo il tragitto.
Da questo punto di vista, Disconnect rischia in più di una sequenza di incorrere nelle bottigliate delle grandi occasioni - alla riunione che precede il finale della famiglia Boyd al capezzale di Ben giuro di aver avuto i brividi rispetto ad un eventuale "miracolo" strappalacrime da stelle e strisce della peggior specie, fortunatamente scongiurati - tanto quanto in altre di toccare le corde giuste del cuore di questo vecchio cowboy - dall'ottima descrizione del rapporto tra padri e figli a quella del superamento del dolore della coppia formata da Skarsgaard e dalla Patton, costretti a fare fronte alla metabolizzazione della morte del figlio, che mi ha ricordato il potentissimo e splendido Alabama Monroe -.
Le emozioni non mancano, e non ci troviamo certo di fronte ad una vera e propria delusione, eppure al termine della visione la sensazione di essere stati in qualche modo fregati resta, quasi fossimo anche noi uno dei protagonisti, alle prese con le vicissitudini di una vita certo non tenera, in grado di dispensare dolori profondi e gioie decisamente rare: in questo senso Disconnect rende bene l'idea dei bocconi amari che spesso e volentieri tocca masticare per andare avanti, nonostante, almeno in una certa misura, lo stesso film possa essere considerato uno di questi.
Restano comunque una discreta confezione ed un buon lavoro del cast, così come il pensiero non tanto a proposito della portata dell'impatto della rete e della comunicazione online globale, quanto dell'effettiva incapacità che, a volte, sviluppano le persone soprattutto rispetto alla comunicazione con chi sta loro accanto: la forza di ritrovare - o di scoprire per la prima volta - quella stessa comunicazione, accesa da eventi drammatici, conosce in questo modo una sorta di nuova primavera.
Suona come una ritirata, o un correre ai ripari, per certi versi: ma è terribilmente umano.
Come questo film.
Con tutti i difetti che finisce per portarsi sulle spalle.



MrFord



"Life's a tangled web
of cell phone calls and hashtag I-don't-knows
and you you're so caught up
in all the blinking lights and dial tones
I admit I'm a bit of a victim in the worldwide system too
but I've found my sweet escape when I'm alone with you."
5 seconds of summer - "Disconnected" - 





domenica 6 ottobre 2013

Europa Report

Regia: Sebastiàn Cordero
Origine: USA
Anno: 2013
Durata:
90'
 



La trama (con parole mie): un gruppo di astronauti, scelti e selezionati per una missione unica ed ambiziosa - investigare a proposito della natura di Europa, satellite di Giove che si sospetta possa ospitare acqua ed un ecosistema di batteri che dimostrerebbe l'esistenza di vita nell'universo -, partono alla volta della loro destinazione consci di dover affrontare mesi nello spazio mai attraversato da alcun essere umano.
Perso il contatto con il campo base, l'equipaggio di Europa One - questo il nome della nave - si ritroverà ad affrontare la parte cruciale della missione senza il supporto della Terra, nonchè i drammatici sviluppi che i rilevamenti sul suolo - e soprattutto sotto il suolo - di Europa porteranno per tutti loro.
I ricercatori responsabili della missione stessa, dal nostro pianeta, scopriranno soltanto una volta ripristinato il collegamento e grazie alle riprese delle videocamere della navetta cosa è accaduto ai protagonisti dell'impresa.




Probabilmente, da quando l'Uomo ha iniziato a sviluppare una coscienza sociale, e probabilmente anche prima, l'esigenza dello stesso di confrontarsi con l'ignoto e la tentazione di fissare sempre nuovi confini è divenuta parte integrante della Natura di questa controversa forma di vita di cui tutti noi facciamo parte.
Le grandi scoperte - che si parli di scienza, medicina, esplorazione o quant'altro - sono passate, passano e passeranno tutte attraverso quella sottilissima linea che separa follia da coraggio, curiosità ed ossessione, ego e generosità: per il Cinema, una materia come questa, animata da folli sogni e grandi imprese, è sempre stata un bacino cui attingere per poter realizzare pellicole in grado di emozionare e coinvolgere il pubblico, stuzzicando il senso di meraviglia dello stesso in modo da rendere possibile, fosse anche su uno schermo, per un paio d'ore e forse meno l'immedesimazione dell'uomo comune con quegli uomini comuni che furono protagonisti di imprese straordinarie.
Nel caso di Europa Report non parliamo di resoconti o ricostruzioni di fatti realmente accaduti, eppure lo spirito che pare aver animato Sebastiàn Cordero pare essere proprio questo: a partire da uno straordinario utilizzo della tecnica del found footage - di gran lunga il migliore passato qui al Saloon nel passato recente -, degli effetti - rustici e dosati benissimo -, dall'influenza dei Classici del genere - su tutti Alien e 2001: odissea nello spazio - e dalla suggestione sottilmente imposta allo spettatore fin dal principio a proposito del destino che attende l'equipaggio dell'Europa One, tutto contribuisce a rendere questo lavoro non soltanto la migliore proposta sci-fi dell'anno - pronta a fare polpette di tutti gli Elysium figli delle grandi case distributrici -, ma, in una certa misura, addirittura degli ultimi cinque.
Dall'umanità - espressa attraverso pregi e difetti - mai portata sopra le righe dei protagonisti alla straordinaria suggestione che Giove ed Europa riescono ad esercitare sullo spettatore, quella che, di fatto, sarebbe la cronaca di un'eventuale nuova frontiera scientifica e non solo diviene una cavalcata emotiva straordinaria, dal primo incidente occorso a James Corrigan alla meraviglia provata da Katya, prima fra tutti a poggiare il piede sul suolo di Europa, combattendo la tentazione di togliersi il guanto della tuta per sentire il ghiaccio di quella luna così lontana, con il gigantesco Giove all'orizzonte, direttamente sulla pelle, fino alla strepitosa sequenza che chiude il diario video dell'Europa One e lo stesso film, una lezione perfetta su come andrebbe sfruttato il potere dell'attesa e della meraviglia in un pubblico.
Siamo di fronte ad un gioiellino assoluto e nascosto, dunque, quasi ignorato dalla grande distribuzione internazionale e totalmente dimenticato da quella nostrana, ma che meriterebbe una visione a prescindere dalla confidenza dello spettatore con i mezzi del mockumentary - anche se non è propriamente definibile in questo modo - o il fascino della fantascienza: Europa Report, infatti, è un coraggiosissimo titolo che parla del desiderio umano di varcare inevitabilmente uno o più confini, e confrontarsi a qualsiasi costo - per quanto drammatica questa scelta sia - con la tentazione mitica di "rubare il fuoco agli dei".
Di fronte ad una scoperta senza precedenti, non si pensa più ad una singola vita: più o meno in questi termini si sviluppa la riflessione che, uno ad uno, mette a nudo i protagonisti della pellicola, ed in qualche modo l'audience stessa.
Fino a che punto saremmo disposti ad arrivare, per arrivare dove nessuno prima di noi era mai giunto?
Saremmo davvero disposti a rinunciare a muovere un passo oltre per rimanere nell'oscurità?
O, come falene, siamo predisposti per tuffarci inevitabilmente verso quella luce all'orizzonte?
Nessuno può, probabilmente, scrivere un'ultima parola rispetto a questo argomento, soprattutto considerato quanto possiamo perdere, dall'altra parte.
Terra contro spazio profondo. Conosciuto contro ignoto.
Nessuno sa.
Eppure, dentro, finiamo per saperlo tutti.


MrFord


"La fantasia dei popoli che è giunta fino a noi
non viene dalle stelle...
Alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena
potete stare a galla."
Subsonica - "Up patriots to arms" -


giovedì 24 maggio 2012

Naboer

Regia: Pal Sletaune
Origine: Norvegia
Anno: 2005
Durata: 75'



La trama (con parole mie): John, un normale impiegato, vive solo dopo la rottura con Ingrid, che ormai convive con un altro uomo. Il rapporto tra i due è ancora teso, in seguito al tradimento della donna che ha segnato la fine della storia e ad un superamento della stessa che pare non essere ancora avvenuto.
Un giorno, appena tornato a casa, John incontra per la prima volta Anne, che con la sorella Kim vive nell'appartamento accanto al suo: non si sono mai incontrati, eppure la ragazza pare conoscere dettagli della vita privata dell'uomo come se si frequentassero da tempo.
Quando un favore da nulla diviene una sorta di incubo ad occhi aperti, però, John scopre un passo alla volta che Anne e Kim nascondono ben più di quello che ci si potrebbe aspettare, e l'esplorazione forzata del loro appartamento diviene un terribile viaggio nella sua stessa anima.





Nell'ultimo anno, principalmente per "colpa" di quel losco figuro di Jo Nesbo, posso affermare che la Norvegia sia diventata una piccola succursale di casa Ford, affascinando il sottoscritto in misura sempre maggiore dopo anni di placida indifferenza.
Grazie anche alla segnalazione del buon Frank Manila, Naboer è approdato sugli schermi del saloon spinto proprio dallo scrittore artefice della saga dell'impareggiabile commissario Harry Hole - recuperate i suoi romanzi, subito! -, e nonostante non si possa parlare di miracolo, mi sento libero di affermare che si tratti di un'interessante visione in grado di recuperare molti elementi tipici del thriller psicologico senza, di contro, perdere eccessivamente nella resa definitiva, che seppur non originalissima resta interessante e ben presentata.
La vicenda di John - protagonista algido ed assolutamente lontano, empaticamente parlando, dal pubblico - richiama immagini e storie di cui Polanski e Lynch sono i Maestri assoluti, e non disdegna richiami decisamente più pulp ad opere come quelle del primo Fincher - Fight club, The game -: l'utilizzo, poi, della metafora di un appartamento come luogo geografico ma soprattutto mentale - ed anche decisamente fisico - affonda le radici in uno dei lavori meno conosciuti eppure più incredibili del vecchio Roman, quel Repulsion che fu il capostipite di una serie di film tutti giocati al limite dell'horror, per giungere agli exploit grotteschi di Raimi con la saga de La casa e Craven con il sorprendente La casa nera.
Sicuramente Sletaune avverte un certo qual bisogno di sconvolgere - la scena a metà tra sesso e violenza tra John e Kim ne è la dimostrazione -, e a tratti si ha l'impressione che l'eccesso sia dietro l'angolo, pronto a minare la credibilità dell'intera opera, eppure in qualche modo il regista riesce sempre ad evitare all'ultimo che le bottiglie avvertano il mio prodigioso sesto senso per le inutili esagerazioni, finendo per regalare una visione che, pur perdendo leggermente mordente nella seconda parte - l'inquietudine è molto maggiore quando non si sa ancora cosa si ha di fronte, e superato un certo limite all'interno dell'appartamento delle due ragazze la conclusione diviene tutto sommato prevedibile -, complice un minutaggio favorevole, risulti tutto sommato interessante, assumendo di fatto le sembianze di un omaggio ai grandi Classici del genere.
Curioso scoprire nel cast Michael Nyqvist, all'epoca pressochè sconosciuto al grande pubblico ed ormai sdoganato dalla saga made in Europe di Millennium e dall'ultimo Mission impossible, unico tra gli attori protagonisti ad essere di fatto uscito dalla realtà nordica - televisiva e cinematografica - per compiere il grande salto.
Interessante poi - e soprattutto -, l'uso dell'appartamento cui facevo riferimento poco sopra, con una struttura fatta di porte, serrature, armadi spostati ed oggetti accumulati a rappresentare un caos che va ben oltre l'apparenza dell'etichetta fino a costruire un vero e proprio labirinto che probabilmente in mano ad un regista di talento più spiccato sarebbe divenuto un maelstrom in grado di sconvolgere lo spettatore, più che solleticare soltanto qualche brivido d'inquietudine.
Ma non voglio affatto rendere meno incisivo l'impatto di Naboer, che soprattutto ai non avvezzi al genere provocherà ben più di quanto possa aver suscitato nel sottoscritto, sempre che gli stessi siano disposti ad andare oltre quelli che sono i perbenismi di noi europei figli di educazioni cattoliche ed abituati a sequele di Studio Aperto per accettare l'esistenza di un lato oscuro che neppure la quotidianità e l'apparente equilibrio potranno mai effettivamente spingere sotto il tappeto come polvere poco gradita.
E' la stessa che racconta le storie dell'apparente banalità del Male, quella che si specchia nei silenzi in ascensore o nei vicini dai segreti pronti a mangiarsi tutto quello che pensavamo potesse essere la vita come si è abituati a sognarla.
E' l'oscurità della porta accanto.
L'abisso che ricambia lo sguardo.
Siamo noi, che dentro portiamo un mostro, anche quando neghiamo disperatamente la sua esistenza.
  

MrFord


"Twice as hard
as it was the first time
I said goodbye
and no one ever want to' know
love ain't funny
a crime in the wink of an eye."
The Black Crowes - "Twice ad hard" -


lunedì 6 febbraio 2012

Mission impossible - Protocollo fantasma

Regia: Brad Bird
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 133'


La trama (con parole mie): l'agente Ethan Hunt è liberato dal suo vecchio collaboratore, il tecnico Benji Dunn, e dall'agente Jane Carter dal cuore di una prigione a Budapest in modo da riprendere le fila di una missione che la stessa Carter ed il suo partner Trevor Hanaway avevano quasi portato a termine e che vede coinvolti una spietata killer francese ed una mente criminale di altissimo livello di origine svedese, una sorta di delirante messia in attesa di una nuova guerra nucleare.
Tra il Kremlino e Dubai, l'India e gli States, i nostri - cui si legherà anche l'analista William Brandt - si troveranno a dover lottare con le unghie e con i denti per sventare un olocausto atomico, portare a casa la pelle e vincere il confronto con i propri demoni interiori.





Riuscire a produrre un film action solido che sia una tamarrata ma, al contempo, risulti credibile nonostante l'evidente invito al pubblico a lasciarsi travolgere dall'assoluta straordinarietà degli eventi narrati e delle sequenze mostrate non è un'impresa da poco.
Tornando ormai parecchio indietro nel tempo, ricordo in particolare che soltanto il primo, indimenticabile Die Hard, o Predator - non a caso, firmati entrambi da John McTiernan - riuscirono in un impresa simile senza perdere in potenza in una o l'altra delle loro due facce: questo quarto, adrenalinico, divertentissimo capitolo della saga dell'agente Hunt e del brand Mission impossible può orgogliosamente vantarsi di essere inserito nel novero.
Era dai tempi dell'esordio di Tom Cruise nei panni dell'inossidabile Ethan firmato De Palma che non mi capitava di divertirmi così tanto, e dopo il troppo eccessivo capitolo targato John Woo e l'ultimo, bolso episodio girato da J. J. Abrams - forse l'unica produzione del geniaccio papà di Alias non in grado di trovare terreno fertile in casa Ford - il ritorno sul grande schermo dell'infallibile agente si rivela un successo in grado di mescolare abilmente divertimento, tecnica, una trama avvincente e scorrevole ed una robustissima e sana dose di spacconate grosse come il Burj Khalifa di Dubai, cornice della parte più sguaiata e da me ovviamente preferita del film.
Brad Bird, già regista dei magnifici Il gigante di ferro e Gli incredibili, passa dall'animazione alla fiction classica senza patire, e forte di un comparto tecnico notevole - dai titoli di testa all'esplosione del Kremlino, fino all'ormai nota scalata di Dubai del pazzo, pazzo Tom, che comunque non riesco a non farmi stare simpatico - porta a casa un risultato notevole nel suo genere, permettendo al pubblico di non annoiarsi nonostante una durata piuttosto consistente per un prodotto di questo tipo senza perdere neppure per un secondo l'ironia - Simon Pegg irresistibile, così come gli scambi Cruise/Renner -, concedendo momenti di grande soddisfazione al pubblico maschile sfruttando al meglio le due protagoniste femminili e tirando fuori dal cilindro un cattivo d'eccezione, rivalutando anche un attore che pensavo assolutamente inutile come Michael Nyqvist, che interpretò Blomqvist nella trilogia nordica di Millennium.
Il tutto - e grazie alla produzione della "lostiana" Bad Robot - trovando il tempo di inserire in una piccola parte anche il mio favorito dei tempi dell'isola più famosa del piccolo schermo, quel Josh Holloway dalle due espressioni che prestò volto e cuore al mio personaggio preferito di sempre nel mondo delle serie tv, quel Sawyer cui devo il mio nome da blogosfera e un sacco di cose che sarebbe troppo lungo raccontare.
Onestamente, non potevo davvero chiedere di più ad un prodotto che non è nient'altro che puro e prepotente intrattenimento, senza contare il colpo di scena finale e le ottime sequenze della tempesta di sabbia a Dubai e del faccia a faccia decisivo tra Hunt e Hendricks nel parcheggio con tanto di lotta senza quartiere per la valigetta con i controlli della testata nucleare contesa.
E come se non bastasse, Bird condisce il tutto con un pò di Guerra Fredda, sfruttando il rapporto da nemiciamici di Hunt e gli agenti dell'intelligence russa.
Un cocktail esplosivo, tamarrissimo e profondamente autoironico che non solo si rivela un ottimo prodotto realizzato alla grande, ma mi fa addirittura sperare che il pazzoide Tom, assistito dai suoi deliri di Scientology, mantenga questa forma incredibile nonostante i quasi cinquanta e ci regali, affiancato dalla stessa squadra, un altro capitolo delle avventure mozzafiato dell'agente Hunt.


MrFord


"Now, what do you own the world?
How do you own disorder, disorder?
Now somewhere between the sacred silence
sacred silence and sleep
somewhere, between the sacred silence and sleep
disorder, disorder, disorder."
System of a down - "Toxicity" -

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