Visualizzazione post con etichetta Elias Koteas. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Elias Koteas. Mostra tutti i post

sabato 17 ottobre 2015

The killing - Stagione 3

Produzione: AMC
Origine: USA
Anno:
2013
Episodi:
12






La trama (con parole mie): sono passati mesi dalla risoluzione del caso di Rosie Larsen, e mentre l'ormai ex detective Linden si gode una ritrovata tranquillità con un nuovo impiego, un nuovo e più giovane compagno ed un lavoro a bassissimo rischio su un'isola al largo di Seattle, il suo ex partner Holder, in coppia con il veterano Reddick, si è completamente ripulito e si dedica ad una nuova relazione e a risolvere casi uno dopo l'altro.
Quando, a seguito dell'omicidio di una giovane senzatetto, si apre il vaso di Pandora di un serial killer di ragazzine tossiche dedite alla prostituzione occasionale che non si sa quante vittime possa aver mietuto e che ricorda nel modus operandi il killer già condannato Ray Seward, in attesa dell'esecuzione capitale, le carte si rimescolano: scossa dall'idea di non aver scoperto la verità, Linden si rimette in gioco tornando in servizio per affrontare il caso coordinato da quello che era il suo partner ai tempi, Skinner, con il quale ebbe anche una relazione.
Tornati uno accanto all'altra, cosa scopriranno Holder e Linden?








L'oscurità che si annida nel cuore e nell'animo umani è da sempre uno degli elementi che più attrae gli occupanti di casa Ford, che si parli di film, romanzi, fumetti o serie televisive: in questo senso serial killer e produzioni che accompagnano il pubblico "dall'altra parte", fin dai tempi di Twin Peaks si sono ritagliati un ruolo fondamentale nella formazione del sottoscritto - e di Julez - da molto tempo prima che esistesse il Saloon.
The Killing, scoperto lo scorso anno in colpevole ritardo - del resto, ormai, con i prodotti seriali mi sono rassegnato a muovermi con un gap consistente rispetto a chi ha più tempo da dedicare alle visioni "in tempo reale" - è riuscito a centrare il bersaglio fin dai primissimi episodi dedicati alla scomparsa ed all'omicidio di Rosie Larsen, presentando due protagonisti caratterizzati alla grande, profondamente reali ed imperfetti, ed un'indagine con molti lati oscuri che, nel corso delle prime due stagioni, non solo ha chiuso il cerchio a proposito della storyline principale, ma portato a galla effetti collaterali generati dalla stessa, proprio come fu per il già citato Twin Peaks.
Con questa terza stagione gli autori - complici anche le vicissitudini di natura produttiva del titolo - voltano pagina presentando non solo un nuovo caso legato a doppio filo ad uno dei più importanti affrontati in passato da Sarah Linden, ma anche costruendo una cornice di comprimari destinata non solo a lasciare il segno nell'immediato - Bullet, Seward e Skinner su tutti - ma anche nella cavalcata che porterà l'audience ad affrontare la quarta ed ultima stagione, a seguito di un passaggio di produzione - da AMC a Netflix - volto a scrivere un finale non aperto per le avventure di Linden e Holder.
Nonostante, dunque, gli alti e bassi di natura non artistica, The Killing si mantiene su alti livelli anche con questa terza annata, forse la più oscura e disperata tra quelle presentate fino ad ora: basta osservare l'epopea di Seward, condannato a morte per un reato che potrebbe non aver commesso, e la sua rabbia scomposta, o i sentimenti traballanti di Linden e Holder - due outsiders da manuale - per rendersi conto della profonda oscurità che è stata impressa alla proposta ispirata dall'omonima e di qualche anno precedente serie danese: in questa Seattle piovosa e dolente non c'è spazio per chi vive ai margini, e l'escalation di scoperte a proposito del destino delle ragazzine vittime del killer soprannominato "Il pifferaio magico" è lo specchio di tutto questo dolore, figlio di seconde occasioni che non sono mai giunte neppure nella patria per eccellenza delle stesse, ed hanno finito per affogare nella droga, nella prostituzione, nel dolore e nel sangue.
Come all'interno della più spietata delle giungle, solo pochi - pochissimi, a dire il vero - usciranno a riveder le stelle - per dirla, più che con Dante, con il Rust Cohle di True detective -, e non è detto che i segni che si porteranno sulla pelle e nel cuore non siano più terribili di chi ha finito per perdersi, abbandonarsi, arrendersi ad una selezione naturale spietata e profondamente malvagia.




MrFord




"Until you had enough then you took that ring off
you took that ring off
so tired of the lies and trying, fighting, crying
took that ring off
oh, now the fun begins
dust yourself off and you love again
you found a new man now you shine and you're fine
like it's my time, you took that ring off."
Beyonce - "Ring off" - 




domenica 3 novembre 2013

Let me in

Regia: Matt Reeves
Origine: USA
Anno: 2010
Durata: 116'




La trama (con parole mie): Owen è un ragazzino vittima dei bulli della scuola che vive solo con la madre, schiacciato dalle incertezze e dai timori tipici dell'adolescenza.
Un giorno, nell'appartamento accanto al suo, si trasferiscono la giovane Abby e suo padre: differente da chiunque altro Owen abbia mai incontrato in classe e fuori, Abby finisce per conquistarlo sotto ogni punto di vista, dagli stimoli a reagire con forza ai soprusi subiti al desiderio che, in qualche modo, quel suo strano atteggiamento risveglia.
Il rapporto tra i due si evolverà proprio mentre nella zona cominceranno a verificarsi efferati omicidi, e nel momento in cui il padre della ragazza si suiciderà dopo essere stato arrestato con l'accusa di aver commesso quegli stessi crimini ed il confronto con i persecutori di Owen avrà una fine, inizierà una storia destinata, forse, a durare ben più di una vita.







Avrei dovuto saperlo.
Nonostante Matt Reeves, pupillo di J. J. Abrams nonchè regista del giocattolone dal sottoscritto tanto adorato Cloverfield, avrei dovuto saperlo.
Let me in - remake del sopravvalutatissimo Lasciami entrare - nasceva sotto una cattivissima stella.
Ai tempi dell'uscita del lavoro di Alfredson, infatti, fui tra i pochi a giudicare la suddetta pellicola decisamente al di sotto delle entusiastiche recensioni raccolte dentro e fuori dalla blogosfera, un pippone lentissimo, bolso e tendenzialmente radical chic con due soli acuti, le splendide sequenze della bastonata rifilata dal protagonista al bullo sempre pronto a perseguitarlo - girata con un occhio in pieno stile Haneke - e quella del massacro in piscina conclusivo.
Ebbene, in questa versione americana si finisce per perdere perfino il valore di quei passaggi, e dunque per assistere ad una sorta di versione di grana decisamente più grossa di quella europea che, allo stesso modo, non riesce a sfruttare lo spunto comunque interessante del vampiro dall'età indefinita imprigionato nel corpo di una ragazzina: a questo proposito, neppure la di norma molto convincente Chloe Grace Moretz riesce a trasmettere l'intensità di Abby, risultando senza dubbio più scialba della sua controparte del Vecchio Continente.
Un vero peccato, perchè - come mi era già capitato di considerare rispetto all'originale - trovo che le basi per costruire un ottimo horror "sentimentale" ci fossero tutte, inevitabilmente schiacciate da un'eccessiva ambizione - il lavoro del già citato Alfredson - e da un'inadeguatezza di fondo che finisce per ridurre il potenziale dell'ambientazione - sarebbe stato più interessante provare a mescolare le carte in tavola evitando di riproporre la cornice innevata del film ispiratore - così come del cast - oltre alla Moretz, sparisce in un ruolo troppo marginale perfino il sempre ottimo caratterista Richard Jenkins, senza contare Elias Koteas, assolutamente sprecato per l'investigatore, quasi una comparsa -, senza contare l'amplificazione esponenziale della noia che già aveva attanagliato gli occupanti di casa Ford ai tempi della visione di Lasciami entrare.
Let me in perde dunque nettamente il confronto nonostante potesse contare sul vantaggio di poter difficilmente fare peggio, rivelandosi uno dei titoli meno interessanti e più velocemente destinati ad essere dimenticati che il genere mi abbia riservato nel corso delle ultime stagioni, finendo per entrare di diritto nella terrificante categoria di quei film non abbastanza brutti da farmi davvero incazzare o divertire nel corso della loro stroncatura, inutili al punto di rendere davvero difficile perfino arrivare decentemente alla fine di un post cercando di dare un senso allo stesso.
In qualche modo, si potrebbe parlare di titoli "succhiasangue" a tutti gli effetti.
Almeno da questo punto di vista, lo scialbo prodotto di Reeves ha reso onore al suo nome.


MrFord


"I've seen love go by my door
it's never been this close before
never been so easy or so slow
I've been shooting in the dark too long
when something not right it's wrong
you're gonna make me lonesome when you go."
Bob Dylan - "You're gonna make me lonesome when you go" -




domenica 28 ottobre 2012

Shooter

Regia: Antoine Fuqua
Origine: USA
Anno: 2007
Durata: 124'




La trama (con parole mie): Bob Lee Swagger, uno dei migliori cecchini del mondo, addestrato dal governo americano per entrare nell'elite dei corpi speciali, viene abbandonato a se stesso nel corso di una missione di copertura in Etiopia nel corso della quale perde la vita il suo braccio destro e migliore amico. Sopravvissuto e tornato in patria, il reduce si isola sulle montagne fino a quando il Colonnello Isaac Johnson lo contatta per un consulto a proposito di un probabile attentato al Presidente.
Swagger accetta solo per venire coinvolto, suo malgrado, in un gioco di controspionaggio che gli costa una caccia all'uomo: a quel punto, abbandonato, braccato dalle forze dell'ordine e ferito, l'ex soldato dovrà fare riferimento alla fidanzata del defunto compagno d'armi e ad un agente solerte per pianificare il suo ritorno e la vendetta ai danni delle schegge impazzite del governo colpevoli di averlo manipolato.



Avete presente quei miracolosi film di spionaggio figli della cultura "contro" targata anni settanta che inchiodavano alla poltrona dal primo all'ultimo minuto - Il giorno dello sciacallo o Tutti gli uomini del Presidente, su tutti -?
Prendeteli e, con una buona dose di tamarraggine ed una qualità autoriale - nell'approccio più che nella tecnica - minore shakerateli per bene con gli action pompati made in eighties che fecero la fortuna - e l'esaltazione - degli spettatori da quel decennio in avanti, ed avrete servito il cocktail Shooter.
Onestamente, nonostante il regista fosse il Fuqua di Training day, mi aspettavo ben poco da questo giocattolone con un Marc Wahlberg in versione Capitan America ribelle infallibile con il fucile, tutto valori di una volta, capanna in montagna, passione per le armi da fuoco ed un cane chiamato Sam: al contrario, però, sono stato ben lieto di essere piacevolmente sorpreso da una pellicola volutamente sopra le righe e prevedibilissima nel suo evolversi eppure avvincente, girata e fotografata benissimo ed assolutamente goduriosa, con una prima parte ottima ed un crescendo che, come è ovvio che sia, si fa prendere un pò la mano dal patriottismo sotterraneo e dall'azione dura e pura.
In questo senso, la scelta di Wahlberg è pressochè perfetta, complici la poca espressività ed il fisico alla John Cena dell'attore - che, comunque, per me continua ad essere troppo sottovalutato dalla critica illustre -, così come quella dei comprimari di lusso Danny Glover - per la prima volta, a mia memoria, nel ruolo del bastardo doppiogiochista - ed Elias Koteas, senza contare la più che appariscente spalla Kate Mara, già vista da queste parti in American horror story.
Per il resto la cornice pare quella di un episodio di 24, con il protagonista destinato a spaccare i culi a tutti quelli che gli hanno pestato i piedi - solo un pò meno reazionario del cattivissimo Jack Bauer - ed una corsa contro il tempo continua nella migliore tradizione dell'eroe solitario made in USA, in questo caso - merito del regista? - spinto da una certa quale pulsione "rivoluzionaria" che dalle frecciate all'amministrazione Bush nel dialogo tra Swagger e Johnson alla t-shirt con l'immagine del Che indossata dall'agente dell'FBI interpretato da Michael Pena pare non risparmiarsi, pur se sottovoce, critiche al sistema politico statunitense ed al suo approccio "abbiamo trovato tracce di armi di distruzione di massa, quindi andiamo lì e facciamo tabula rasa".
Il vero peccato sta nel fatto che ad una prima parte convincente e ben ritmata succede una seconda decisamente più votata all'implausibilità della trama, salvata solo in parte da un finale giustizialista ma estremamente ribelle - e torniamo al discorso di fondo rispetto alla pellicola -, con l'incontro tra il senatore che ha orchestrato il tutto ed il buon Swagger sempre più incazzatonei confronti di chi si approfitta di potere e denaro quando dovrebbe fare esclusivamente gli interessi del Paese - quanto mi divertono queste sviolinate a stelle e strisce! - e della sua gente - cosa che, a ben guardare, risulta attuale in molte parti del mondo, Terra dei cachi compresa -.
Un intrattenimento, dunque, di grana grossa e gran retorica ma anche di mestiere notevole, coinvolgente ed efficace come pochi altri prodotti anche più noti figli dell'action votata al gasamento - passatemi il termine molto, molto tamarro - dell'audience: i fan della saga del già citato Bauer, così come gli appassionati del genere, troveranno assolutamente pane per i loro denti.
Per tutti gli altri, che dire!?
Attenzione, perchè io uno come Swagger non ci terrei troppo a farlo incazzare.


MrFord


"Then even louder we got shooters, shooter
I turn around, I was starin' at chrome
shotgun watches door, got security good
jumped right over counter
pointed gun at, wink, he tell her
I'm your shooter, shooter, shooter."
Lil' Wayne - "Shooter"-


martedì 11 settembre 2012

Dream house

Regia: Jim Sheridan
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata:
92'




La trama (con parole mie): Will Atenton, editore di successo, decide di mollare la carriera per passare tutto il suo tempo accanto alla moglie e alle due figlie nella loro nuova casa.
Peccato che già dai primi giorni l'uomo cominci a sospettare che qualcosa non vada: i vicini parlano e guardano con sospetto, gruppi di ragazzi si radunano nello scantinato per celebrare riti pseudo-satanici, la fama dell'abitazione è tutt'altro che buona e le sue donne cominciano ad essere spaventate.
Tutto questo è originato da un terrificante caso di omicidio che vide una famiglia sterminata tra quelle mura, con moglie e due figlie uccise da un pazzo rinchiuso in manicomio e recentemente tornato in libertà: la realtà dei fatti, però, sarà più dura da digerire per Will di quanto non possa credere.




Praticamente al pari di Pulp fiction e Il favoloso mondo di Amelie, Il sesto senso ha fatto, negli anni, così tanti danni al Cinema che verrebbe quasi da chiedere un risarcimento a Shyamalan, se non fosse che ormai lo stesso pare aver deciso di farsi guerra da solo: da The others in poi, infatti, non si contano le pellicole che hanno cercato di sfruttare l'effetto sorpresa del "morto che parla" nel tentativo di lasciare gli spettatori a bocca aperta per lo stupore.
Ci prova, probabilmente per rilanciare una carriera ormai sul viale del tramonto - ricordiamo che i suoi primi lavori furono cose decisamente importanti come Il mio piede sinistro, Nel nome del padre e The boxer - anche Jim Sheridan, regista irlandese bollito ormai da una decina d'anni buoni, sfruttando un cast sulla carta stellare - Daniel Craig, Rachel Weisz, Naomi Watts ed Elias Koteas -: il risultato, per quanto non agghiacciante come potevo aspettarmi alla vigilia, in realtà è risultato decisamente poco degno di nota ed assolutamente lontano da qualunque standard anche soltanto medio.
Già il fatto di optare per una messa in scena patinatissima - roba da film romantico hollywoodiano, per intenderci - e di poggiare molte delle speranze di riuscita su uno script che, seppur non scontato, appare prevedibile e molto televisivo non lasciava intravedere grosse chances fin dalle prime scene: certo, alcune di quelle che paiono mancanze di logica vengono giustificate dalla stessa figura del protagonista e dalla svolta che ribalta le carte in tavola attorno alla metà della pellicola - unica "sorpresa" dell'intera opera, che ci si sarebbe aspettati per la conclusione - e dal punto di vista interpretativo non si può dire che gli attori non portino a casa la loro brava pagnotta - fatta eccezione per l'inguardabile capigliatura di Daniel Craig -, eppure tutto appare statico e decisamente poco coinvolgente, collocandosi nel mucchio di titoli di genere senza infamia o lode, già destinato ad un rapido abbandono nell'oblio delle visioni sostanzialmente inutili.
Dunque, perchè le bottigliate all'indirizzo di un film incapace di fare incazzare il sottoscritto almeno quanto di concedere almeno un salto sulla sedia o una qualche sorpresa che non sapesse di deja-vù? 
Principalmente per il vecchio Jim, veterano che meriterebbe vetrine decisamente più illustri e che, soprattutto, dovrebbe avere la responsabilità di fornire ai suoi spettatori un prodotto decisamente più intenso e profondo di questo scialbo mix mal shakerato di Ghost e i già citati The others e Il sesto senso.
Se non avessi, del resto, già visto ed apprezzato i primi lavori del cineasta di Dublino, relegherei Dream house ad un voto basso e ad un'archiviazione rapida, ma dall'altra parte il dubbio di un'effettiva sopravvalutazione dell'autore comincia a farsi strada a colpi bassi nonostante l'affezione e l'affetto per i suoi titoli più famosi.
Dunque che Sheridan prenda questo come un monito, e cerchi, almeno in uno dei suoi numerosi progetti futuri, di tornare a stupire come spero ancora sia in grado di fare.


MrFord


"There's a ghost down in the hall
there's a ghoul upon the bed
there's something in the walls
there's blood up on the stairs
and it's floating through the room
and there's nothing I can see
and I know that that's the truth
because now it's onto me."
Michael Jackson - "Ghosts" -



Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...