Visualizzazione post con etichetta Peter Dinklage. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Peter Dinklage. Mostra tutti i post

martedì 21 maggio 2019

White Russian's Bulletin



Considerata la puntualità che nelle ultime settimane sono quasi inspiegabilmente riuscito a dare alla rubrica dedicata alle uscite in sala, ho pensato che non sarebbe stato così male tentare il ritardo con il Bulletin, slittato per questa settimana di un giorno.
Senza dubbio in termini di visioni è stata una settimana più ricca delle ultime, che affronta anche uno dei prodotti più chiacchierati del periodo, Game of thrones, giunto alla fine della sua cavalcata dopo nove anni o otto stagioni: Jon Snow e soci a parte, comunque, c'è stato spazio per proposte di ogni tipo, più o meno in grado di emozionare e conquistare il Saloon come mi sarebbe piaciuto, o mi aspettavo sarebbe stato.



MrFord



THIS IS US - STAGIONE 3 (NBC, USA, 2018)

This Is Us Poster

I Pearson, per il Saloon, sono un pò la versione da Mulino Bianco - in senso buono - dei Gallagher: una famiglia come ci si immagina e si vorrebbe sempre che fosse la famiglia, il posto dove tornare, la forza che ci permette di rialzarci quando finiamo con il culo a terra, la bomba di sentimenti per eccellenza. E in mezzo a tutto questo, un charachter fordianissimo che fin dal primo episodio ha rappresentato un ideale che, caotico e casinista come sono, non raggiungerò mai, ma che mi piacerebbe fosse una sorta di ispirazione.
Tante cose belle, tanto voler bene ai protagonisti, nonostante la creatura di Dan Fogelman tocchi il punto più basso della sua corsa fino ad oggi, impossibilitato a liberarsi dell'ingombrante - pur se magnifica - figura del già citato Jack Pearson e a portare il pubblico verso il futuro - in tutti i sensi -: e se da un lato ci troviamo di fronte ad una delle scene più belle della serie - lo stadio ricostruito per Kate da parte di Toby -, dall'altra un finale totalmente anticlimatico toglie hype rispetto a cosa ci aspetterà il prossimo anno.
Personalmente, spero qualcosa di meglio.




ANDRE THE GIANT (Jason Hehir, USA, 2018, 85')

Andre the Giant Poster


Pochi, anche tra i non appassionati di wrestling come il sottoscritto, non conoscono almeno per sentito dire la figura ormai mitica di Andre the Giant, uno dei lottatori più importanti e mitici che nel corso degli anni ottanta cambiò per sempre la percezione e la portata mediatica dello sport entertainment, finendo ad aprire la strada per chi, anni e anni dopo, avrebbe usato il wrestling stesso come trampolino per conquistare Hollywood - leggi The Rock -: la storia di Andrè Roussimoff, affetto da acromegalia e nato in un piccolo centro alle pendici delle montagne, pare scritta apposta per un film. Deciso a fare fortuna fin da ragazzo, amante della vita vissuta, uomo di compagnia ed incomparabile bevitore - i racconti di bevute che superano le cento birre o le sei o sette bottiglie al giorno divise tra vino e superalcolici sono leggendarie -, tra i più amati dai suoi colleghi, Andre segnò per sempre la sua disciplina prima che l'aggravarsi delle sue problematiche fisiche non lo condusse ad un ritiro anticipato dal ring e ad una carriera davanti alla macchina da presa chiusa ben presto dall'improvvisa quanto prevedibile morte, a soli quarantasei anni.
Un ritratto sentito e commosso di un personaggio incredibile, carismatico e dall'aura quasi romanzesca, che sarebbe bene ricordassero anche le generazioni che non l'hanno potuto vivere come la mia.




LA STORIA FANTASTICA (Rob Reiner, USA, 1988, 98')

La storia fantastica Poster

In occasione della ricorrenza del compleanno di Andre the Giant e della visione del documentario a lui dedicato ho rispolverato, in compagnia della Fordina, uno dei grandi classici della mia infanzia nonchè tra le fiabe - nel senso vero e classico del termine - più belle portate sul grande schermo: La storia fantastica.
In una cornice che non si nega una buona dose di ironia ed umorismo, ricca di momenti ormai epici e frasi cult - chiunque sia sopra i trenta e non conosca a memoria il monito di Inigo Montoya dovrebbe finire tra le grinfie dell'ultima moda giustizialista di Daenerys -, la vicenda di Bottondoro e Westley è una meraviglia ad ogni età, e se ai tempi mi esaltavo per i duelli e le lotte, e restavo sbigottito di fronte ai ribaltamenti di fronte inaspettati che accadevano, ora finisco quasi per commuovermi con l'incedere di Inigo finalmente giunto di fronte all'uomo responsabile di aver ucciso suo padre, o a Westley che "potrebbe anche trovare la forza".
Un classico senza se e senza ma, che riesce a far assaporare quella meraviglia che il Cinema può ed è giusto che regali.




NOI (Jordan Peele, USA/Giappone/Cina, 2019, 116')

Noi Poster


Jordan Peele è uno che, senza dubbio, sa il fatto suo. Già con Get out, qualche tempo fa, era riuscito nella non facile impresa di trasformare un thriller sociale mascherato da horror in un piccolo fenomeno giunto addirittura agli Oscar: con Noi era chiamato a confermare un talento che, almeno nella prima parte, pare ben più che evidente, graziato da una tensione costante ed un montaggio che - e questo per tutto il film - ha del clamoroso.
Poi, come molto spesso accade a chi ha gran talento, il buon Jordan finisce per mettere troppa carne al fuoco e cercare di dare fin troppo spessore politico ad una vicenda che, pur se interessante, finisce per risultare quasi forzata: in fondo, nella sua ben comprensibile lotta a sostegno della ribellione dei dimenticati, degli emarginati e degli oppressi, pare quasi non rendersi conto di essere a tutti gli effetti e a conti fatti uno dei privilegiati, che si parli di status artistico, sociale o anche, per l'appunto, di talento.
In questo senso Noi è una macchina perfetta che si inceppa quando cerca di affermarsi come tale, il figo o la figa della scuola che cercano in ogni modo di atteggiarsi tali senza sapere che lo apparirebbero anche comportandosi naturalmente, ricordando quasi a tutti noi comuni mortali che uno su mille ce la fa, e gli altri restano ombre.
Peccato che, nonostante predichi il contrario, o qualcosa di simile, il buon Peele non si sia accorto di fare parte dell'elite che sta dall'altra parte.




GAME OF THRONES - STAGIONE 8 (HBO, USA, 2019)

Il trono di spade Poster

Nelle ultime settimane, che si tratti della blogosfera, di internet, social o dei pub di tutto il mondo, penso che non si sia parlato di più di un prodotto per piccolo o grande schermo - forse se la gioca con Avengers Endgame - che di Game of thrones.
La serie ispirata dai romanzi di Martin e creata da Benioff e Weiss, alle spalle stagioni clamorose ed altre decisamente meno entusiasmanti, è divenuta negli anni un vero e proprio fenomeno mediatico, il primo di portata planetaria dai tempi di Lost: e come Lost, e come tutti i prodotti al centro di un quasi culto, ha finito per pagare dazio con quest'ultima stagione, sancita come tale forse troppo in fretta dagli autori che si sono ritrovati con troppa carne al fuoco e sole sei puntate per chiudere il cerchio di vicende che avevano impiegato anni a sviluppare anche solo in parte. 
E così, se da un lato è normale e lecito giustificare un fan service a questo punto quasi naturale, dall'altro pare di assistere ad una versione con il fast forward delle precedenti stagioni, con passaggi temporali in time warp e cambiamenti di personaggi che, ai tempi d'oro, avremmo vissuto nell'arco di almeno tre stagioni.
Ma tant'è. Game of thrones ci ha accompagnati per quasi dieci anni, e per quanto quest'ultima stagione suoni come un'occasione sprecata, è stato giusto viversela così, salutare i protagonisti sopravvissuti e ricordare quelli - parecchi - che ci hanno lasciato in modi più o meno sconvolgenti, e che abbiamo amato o odiato. 
Avrebbe potuto essere migliore? Senza dubbio.
Ma la vita è così. A volte sei tu che mangi l'orso, e a volte è l'orso che mangia te.
Forse Westeros era un orso troppo grosso anche per chi per anni l'ha progettato e studiato.
O un drago.
E i draghi, si sa, possono essere una variabile impazzita.


lunedì 11 settembre 2017

Game of thrones - Stagione 7 (USA/UK, HBO, 2017)



Dai tempi dell'esplosione del fenomeno delle serie televisive all'inizio degli Anni Zero, pochi titoli sono divenuti, per motivi e meriti differenti, dei veri e propri punti di riferimento per il pubblico, dei fenomeni in grado di entrare a pieno titolo nella pop culture e finire nel mirino anche di chi dei suddetti titoli ha finito per sbattersene - apparentemente - sempre e comunque, come fu ai tempi per il primo Twin Peaks: Lost è uno degli esempi più clamorosi, in questo senso, tanto da essere quasi associabile ad un culto religioso, che lo si odi o lo si ami.
Fin dalla sua conclusione, per tutti gli addetti marketing delle grandi produzioni c'è stata una vera e propria corsa alla scoperta del prodotto che ne sarebbe stato l'erede: ci hanno provato in molti, ed altrettanti hanno fallito.
Almeno fino all'arrivo di Game of thrones.
Il serial partito dall'ispirazione data dai romanzi di George Martin, infatti, per mosaico di personaggi, isterie di massa, maniacalità esplosa in tutto il mondo è diventato a tutti gli effetti il Lost di questa generazione di spettatori, che da Cersei a Jon Snow, passando per Daenerys e tutte le morti illustri che ci hanno riservato le sette stagioni - e chissà quante altre l'ottava - ha creato fazioni tra il pubblico che ricordano i tifosi calcistici, o gli appartenenti alle casate che si danno battaglia per la conquista di Westeros.
Ora, di questa settima stagione ho già letto di tutto e di più: asservita al fanservice - assolutamente vero -, troppo frettolosa - assolutamente vero -, giocata sull'esaltazione - assolutamente vero -, completamente slegata ormai dalla linea di narrazione e dal mondo ideato da Martin - assolutamente vero -. Eppure, come fu per Lost, l'impressione che continuo ad avere è quella della serie di culto che una volta giunta al successo planetario finisce nel mirino delle critiche degli stessi che, in principio, l'avevano esaltata per poi tirarsi indietro nel momento in cui scoprono che il loro giocattolino è diventato il giocattolino di tutti: certo, questa settima non sarà stata, oggettivamente parlando, la miglior stagione della produzione, ma neppure la peggiore - la quinta fu decisamente poco avvincente e nel complesso quasi noiosa, ad esempio -, e proprio grazie al tanto criticato fan service ha finito per regalare momenti di godimento assoluto qui al Saloon, dal survival della squadra oltre la Barriera agli incontri che mi hanno ricordato i livelli di miticità - come direbbe Po - di Star Wars, fino agli sconvolgimenti dell'ultimo episodio che alimenta l'hype per la prossima - ed ultima - stagione a livelli davvero incredibili.
Ora starà agli autori cercare di cavalcare l'onda come un drago e cercare di mantenere un equilibrio giusto tra la fama raggiunta e l'essere ormai mainstream a tutti gli effetti e la qualità e la crudeltà che hanno da sempre contraddistinto questo titolo, probabilmente uno dei più importanti per la storia del piccolo schermo che noi figli di quest'epoca avremo modo di gustarci.
Ben vengano, dunque, tutte le discussioni, il fan service, i draghi, le morti, il sesso oltre i confini delle parentele e la tensione legata alla possibilità che ogni personaggio, soprattutto il tuo preferito, possa morire da un momento all'altro: se, alla fine di questa corsa, l'esaltazione sarà questa, qualsiasi imperfezione sarà giustificata.
Almeno qui.
Dove crediamo che proprio nelle imperfezioni stia il segreto di qualsiasi fascino.



MrFord



 

mercoledì 23 settembre 2015

Pixels

Regia: Chris Columbus
Origine: USA, Cina, Canada
Anno: 2015
Durata: 106'





La trama (con parole mie): Brenner, Eddie e Ludlow sono tre bambini prodigio dei videogames protagonisti del primo campionato mondiale dedicato agli stessi svoltosi nell'estate dell'ottantadue. Più di trent'anni dopo, l'inseparabile amico di Brenner, finito nel frattempo a fare l'installatore di sistemi audio video, Cooper, divenuto Presidente degli Stati Uniti, è costretto a fronteggiare una crisi senza precedenti: una razza aliena, infatti, venuta a contatto con la videocassetta del campionato di cui furono protagonisti gli allora ragazzini, lanciata ai tempi nello spazio dalla NASA e ritenuta una dichiarazione di guerra, sfida la Terra ad una vera e propria lotta ispirata ai titoli più importanti che le sale giochi offrivano agli utenti, da Pac-Man a Donkey Kong.
Messi all'angolo dagli invasori, Cooper e gli alti papaveri dell'esercito dovranno tornare a rivolgersi a quegli ex bambini prodigio finiti tra i losers della società: riusciranno dunque i nerd a sconfiggere gli agguerritissimi alieni?








Gli anni ottanta, senza alcuna ombra di dubbio, devono avere lo spirito dei maratoneti, nonostante un'apparenza da centometristi da una botta e via: di fatto, hanno vissuto alla grande il loro momento, come una partenza a razzo, prima di scomparire - apparentemente - inghiottiti dal buco nero della Grande Depressione dei novanta, riguadagnandosi poi, passo dopo passo, un posto in primo piano con il Nuovo Millennio.
Per chi, come il sottoscritto, di fatto si è formato in quel decennio - o ci è cresciuto -, ora che i nostri novanta e zero sono alle spalle e ci ritroviamo in prossimità o appena oltre la quarantina, spesso e volentieri con figli al seguito, finiamo per guardare a quel periodo con la nostalgia che si prova rispetto all'infanzia, simile a quella che ci prende gli ultimi giorni delle vacanze estive, togliendoci almeno un pò il respiro: Pixels, in un certo senso e seppur ben lontano dalla perfezione, incarna benissimo quella sensazione, lo spirito e la meraviglia che in quella che può tranquillamente essere definita un'altra vita ci contraddistinse nel corso degli eighties.
Personalmente ricordo bene la sensazione magica dell'ingresso in una sala giochi in tempi in cui nessuno o quasi aveva un computer a casa e non esisteva internet, gli smartphone con i loro giochini virali non abitavano i vagoni delle metropolitane e per i bambini l'unico modo per assaporare l'ebbrezza delle partite con i videogiochi era quello: ricordo il Commodore 64 con le cassette che impiegavano ore a caricarsi, l'Amiga, i primi Sega Master System e dunque Mega Drive, i giochi da Donkey Kong a Tetris, passando per titoli dei quali ho impresse in mente le immagini ma non i nomi, le prime partite con mio fratello accanto che doveva mettersi in piedi su una sedia chiesta in prestito ai gestori della sala giochi a quella volta ad Ascea, dove i gettoni costavano un quinto rispetto a Milano o alla Romagna, e dunque sessioni a Rampage da fantascienza rispetto a quelle cui ero abituato, o il gioco del calcio al bar in montagna, dove una volta presa la mano si cercava di vincere il Mondiale con qualsiasi squadra.
Pixels mi ha riportato alla mente con un eccezionale effetto amarcord queste sensazioni, che unite ad un'idea - quella di proporre un'invasione aliena originata da una videocassetta tratta da un torneo di videogames dell'ottantadue - decisamente originale ed a suo modo geniale ha reso la visione piacevole e simpatica, come quando si incontra un vecchio amico e si scopre che le cose ancora funzionano, e si finisce a ridere come pazzi in nome dei vecchi tempi e forse anche dei nuovi.
Certo, non tutto funziona, di fatto ci si trova di fronte al tipico giocattolone che si spera sempre possa sfondare al botteghino - e non è stato questo il caso - dal finale buonista e telefonato, il cast è tutto pesantemente sopra le righe, eppure la resa è piacevole, a suo modo genuina e senza pretese, pronta a fare breccia nei sentimenti e nei ricordi di chi ha potuto giocare Pac-Man o il già citato Donkey Kong almeno una volta dal vivo, ai tempi dei tempi.
Spassoso anche l'inserimento di icone anni ottanta sfruttate come mezzo di comunicazione con i terrestri da parte degli alieni - mitici Hall&Oates -, giustamente sfruttato il vecchio adagio dell'outsider che, a scapito delle difficoltà, finisce per dimostrarsi più efficace degli apparentemente invincibili - molto bella, e tendenzialmente vera, la battuta sul bacio: chi non ha mai dovuto farsi un pò di culo per rimorchiare difficilmente vi darà grandi soddisfazioni tra le lenzuola - e divertente trovarsi davanti ad uno schermo cercando di individuare e riconoscere vecchi eroi da sala giochi che credevamo sepolti nei meandri più oscuri della memoria.
Un'operazione nostalgia, dunque, che senza dubbio il pubblico più stagionato apprezzerà in misura maggiore rispetto a quello supergiovane, che pur non brillando per tecnica o resa complessiva rafforza la posizione di idolo degli anni ottanta di Chris Columbus e, a conti fatti, finisce per risultare come una sorta di fratellino minore - e non di poco - dell'ottimo The Lego Movie.
Se, dunque, almeno una volta vi è capitato di dover prendere fiato pensando a quelle apparentemente interminabili partite in sala giochi, ai sapori, agli odori, alle sensazioni di quell'epoca, lasciate da parte le velleità da Grande Cinema e godetevi questo divertissement per quello che è: un omaggio ad un periodo cui non saremo mai abbastanza grati.




MrFord




"With a thrill in my head and a pill on my tongue
dissolve the nerves that have just begun
listening to Marvin (All night long)
this is the sound of my soul
this is the sound."
Spandau Ballet - "True" - 





venerdì 19 giugno 2015

Game of thrones - Stagione 5

Produzione: HBO
Origine: USA, UK
Anno: 2015
Episodi: 10




La trama (con parole mie): nei sette regni ed attorno al Trono di spade continua a scorrere il sangue, complici gli intrighi e le guerre in corso in ogni angolo del mondo conosciuto. Mentre, oltre il mare, Daenerys cerca a fatica di contenere le rivolte intestine a Mereen ed i suoi draghi, Thyrion è in viaggio proprio verso la sua corte; ad Approdo del re, invece, Cersei intima a Jamie di recuperare Myrcella, la loro figlia tenuta alla corte del defunto Oberyn, e pianifica una vendetta religiosa contro i Tyrell che potrebbe creare non pochi problemi anche a lei stessa; nel profondo Nord, invece, Jon Snow si trova ad affrontare la minaccia dei White Walkers ed il peso del suo nuovo ruolo, in bilico tra i Guardiani ed i Bruti; Stannis Baratheon, Melisandre e l'esercito raccolto dal pretendente al trono, invece, progettano di invadere Grande Inverno schiacciando i Bolton, nel frattempo venuti in possesso di Sansa Stark; Arya, sua sorella minore, invece, si trova a Bravoos per affinare le sue doti di assassina e cominciare a vendicarsi di tutti coloro ai quali ha giurato la morte.







Presenti possibili spoiler involontari e indiretti.



Senza ombra di dubbio, una delle serie tv più importanti degli ultimi anni, nonchè una delle più amate di sempre, Game of thrones, è divenuta, nel corso delle stagioni, praticamente un fenomeno di costume, oltre ad un prodotto di altissima qualità: io stesso, da quel giorno cinque anni fa in cui con Julez approcciammo il pilota terminato con il volo dalla torre di Brann, ho visto crescere, vivere e morire decine di personaggi memorabili, applaudito a sequenze mozzafiato, osservato ammirato la tecnica e lo script di quello che, di fatto, per numero di protagonisti ed amore quasi maniacale di schiere di fan, potrebbe essere considerato l'erede ufficiale di Lost.
Questa stessa quinta stagione, di fatto, è stata l'ulteriore conferma dello standard tecnico assolutamente elevato della proposta di Weiss e Benioff, ed è stata in grado di regalare ottimi momenti all'audience culminati con un season finale da urlo, in bilico tra una walk of shame da brividi ed una chiusura quasi shakespeariana, con tanto di "idi di marzo", e con l'addio - vero o presunto che sia - di due dei cardini delle vicende dei Sette Regni.
Dunque, perchè anche uno dei riferimenti da piccolo schermo del Saloon è finito sotto le bottigliate?
Senza dubbio non per demeriti artistici, o per scivoloni effettivi, quanto, di fatto, per l'approccio: onestamente parlando, nonostante alcuni passaggi ben riusciti, questa quinta stagione è stata senza dubbio "di passaggio", e rispetto alla quarta, strabordante di momenti WTF, ha finito per segnare il passo ed apparire perfino noiosa a tratti, quasi si trattasse di un'annata spesa a disporre pezzi sulla grande scacchiera di Westeros in attesa di tempi migliori.
Come se non bastasse, comincio a nutrire qualche riserva su quello che è il marchio di fabbrica del buon George Martin, ovvero la sistematica eliminazione dei suoi protagonisti: il rischio, infatti, di puntare tutto sulla bocca spalancata del pubblico - come è stato per il finale di questa quinta season - potrebbe alla lunga innescare un effetto contrario, nello stesso, e privarlo dei suoi favoriti, oltre a risultare irrispettoso di fronte alle "creature" responsabili del successo del loro autore: inoltre, il progressivo sfoltimento del gruppo di main charachters lascia ora scoperti i Sette Regni non solo per quanto riguarda la lotta per la conquista dell'Iron Throne - al momento in mano al più inutile e privo di spessore dei regnanti - ma anche il cuore dei fan.
I due pezzi da novanta del cast, Thyrion e Daenerys, infatti, paiono essersi adagiati sui fasti passati cominciando a vivere di rendita, ed al momento solo Jamie Lannister, la coppia Cersei/Alto Passero ed il redivivo The Mountain paiono poter offrire qualcosa di interessante, almeno sulla carta e sempre che gli autori non decidano di fare un'altra epurazione.
Questo passo falso, però, è più concettuale che non artistico, e resto dunque fiducioso per il futuro di un titolo dal potenziale immenso, che ha regalato alcuni dei passaggi migliori che la televisione abbia offerto negli ultimi dieci anni: la minaccia dei White Walkers, il percorso di Arya, il futuro di Sansa, il ruolo sempre più inquietante degli emissari religiosi di Westeros - dal già citato Alto Passero a Melisandre -, la situazione del Trono di spade, quella del Nord ed il destino della "scomparsa" Khaleesi, tornata ad incrociare il cammino dei Dothraki.
L'hype è altissimo, e già da ora restiamo in trepidante attesa per il sesto giro di giostra, sangue e morte che già sappiamo Game of thrones ci offrirà: nel frattempo, però, con tutto il rispetto, Martin dovrà assaggiare, sotto forma di bottigliate, un pò della stessa moneta con la quale ripaga i suoi "figli" cartacei.



MrFord



"I stand surrounded by the walls that once confined me
knowing I'll be underneath them
when they crumble when they fall
with clarity my scars remind me
ash still simmers just under my skin."
Creed - "A thousand faces" -





sabato 10 gennaio 2015

The angriest man in Brooklyn

Regia: Phil Alden Robinson
Origine: USA
Anno: 2014
Durata:
83'





La trama (con parole mie): Henry Altmann è stato felice, un tempo. Aveva una bella vita, una bella casa, un bel lavoro, una bella famiglia. Le cose andavano tutte come dovevano andare.
Poi, un brutto giorno, il giocattolo ha finito per rompersi. 
E dramma e quotidianità hanno inaridito il cuore dell'uomo, pronto a cedere spazio alla sola rabbia.
Quando, a seguito delle sue prepotenze e di una diagnosi di aneurisma cerebrale, la giovane dottoressa Sharon Gill finisce per punirlo assicurandogli che gli restano soltanto novanta minuti di vita, Henry decide di fare di tutto per chiudere al meglio i conti con le persone che ha amato di più e dalle quali si è con più decisione allontanato nel passato recente: il suo socio e fratello minore, sua moglie e soprattutto il figlio Tommy, che da due anni, ormai, non gli rivolge più la parola.
Riuscirà a farcela prima che il Destino venga a reclamare il suo diritto sulla vita e la morte?








Lo scorso agosto, quando come un fulmine a ciel sereno giunse la notizia della morte di Robin Williams, rimasi molto colpito nell'apprendere che uno dei volti di quella che era stata la mia formazione cinematografica se n'era andato: raramente, pensando alle tante morti celebri di questi anni, ricordo di essere rimasto così segnato.
Dunque, omaggiato il buon vecchio Capitano con un Day tra i più riusciti organizzati da noi cinefili della Blogosfera, ho deciso di cominciare a recuperare, senza fretta, i titoli che lo hanno visto protagonista ancora mancanti all'appello qui al Saloon: tra questi il suo ultimo lavoro, questo The angriest man in Brooklyn trattato non proprio con i guanti dal pubblico e dalla critica, sicuramente traboccante difetti eppure in grado non solo di regalare almeno un paio di sequenze degne dei tempi d'oro del Nostro - il faccia a faccia con il negoziante per trattare l'acquisto della videocamera è una vera chicca -, ma anche, in qualche modo, di fornire una riflessione sull'attore - e, chissà, sull'uomo - oltre ad una serie di riferimenti ai massimi sistemi come i rapporti tra padri e figli, mariti e mogli, membri di una famiglia in generale.
Dunque, se da un lato abbiamo occasione di andare alla scoperta di una sorta di favola indie - per quanto decisamente non delle migliori - con un cast di prim'ordine - oltre al già citato main charachter, troviamo Mila Kunis, Peter Dinklage e Melissa Leo, non proprio degli ultimi arrivati - legata a doppio filo a temi molto cari al genere ed in grado di mescolare dramma e commedia, Un giorno di ordinaria follia con Qualcosa è cambiato, dall'altro, tra le righe, assistiamo di fatto ad una sorta di ultimo grido disperato di un uomo che, probabilmente, aveva deciso che il suo "trattino" era già giunto alla conclusione - emblematico il passaggio in cui Henry/Robin Williams ironizza sulla sua lapide citando anno di nascita e morte del personaggio, coincidenti con quelli che sarebbero stati i suoi -, e con una neppure troppo convinta decisione aveva deciso di abbandonarsi a qualcosa che, probabilmente, non sapremo mai fino in fondo, che si tratti di lui o tantomeno di noi che abbiamo osservato il tutto dall'esterno.
L'importante, di fatto, resta il ricordare i tratti distintivi, le caratteristiche ed il dirompente incedere sullo schermo di un grandissimo interprete, che senza dubbio ci ha lasciati troppo presto chiudendo la sua carriera lontano dall'apice, eppure ancora in grado di emozionare: sia chiaro, The angriest man in Brooklyn è un film tutto sommato mediocre, troppo facile e sommario in alcuni passaggi e troppo retorico in altri, girato non sempre in maniera impeccabile e talmente ricco di difetti da lasciare quasi meravigliato il sottoscritto al pensiero di aver concluso la visione in una certa misura perfino soddisfatto, eppure ad un tempo un titolo cui non sono davvero riuscito a volere male, uno di quei guilty pleasures che, non sappiamo neppure noi per quale motivo, finiscono per conquistare il loro spazio senza neppure fare troppi sforzi.
Con ogni probabilità il pensiero è volato a quello che mi chiedo potrà essere il mio rapporto con il Fordino mano a mano che crescerà, cercando di non fermarsi troppo a fronte del dramma vissuto da Henry e sua moglie, portati all'inizio della loro fine dalla morte del fratello di Tommy: arrivare a non rivolgere la parola a proprio figlio dev'essere straziante, ma perderne uno dev'essere un dolore che non sarà mai possibile quantificare, e che non augurerei neanche al peggiore tra gli uomini.
Senza contare che la rabbia è una cattiva consigliera, e piuttosto che finire come Henry - e a volte, nel corso della mia vita fino ad ora, avrei scommesso che sarebbe andata in quel modo, se non fosse stato per Julez e il Fordino - preferisco godere della lezione lebowskiana ed allargare le spalle quando "non sono io a mangiare l'orso, ma l'orso a mangiare me".
In qualche modo, e senza dubbio secondo un modo di vedere assolutamente personale, Henry pare averlo capito, alla fine.
E ho l'impressione che lo stesso sia stato per Robin Williams.



MrFord



"It's been a bad day.
Please dont take a picture
it's been a bad day.
Please!"
R. E. M. - "Bad day" -



sabato 28 giugno 2014

Game of thrones - Stagione 4

Produzione: HBO
Origine: USA
Anno: 2014
Episodi: 10




La trama (con parole mie): mentre a Nord della Barriera venti di guerra scuotono i Bruti ed incombono i misteriosi White Walkers, gli uomini delle Isole di ferro ed i traditori che cospirarono contro Robb Stark si battono per le terre dominate da Grande Inverno. Ad Approdo del re, intanto, fervono i preparativi per le nozze di Joffrey, mentre Sansa e Thyrion, sposi novelli, cercano di sopravvivere ai soprusi che i Lannister riservano ad entrambi. L'altra Stark, Arya, è invece in viaggio in compagnia del Mastino, che spera di ottenere dalla zia della ragazzina una ricompensa in denaro per averla consegnata.
Stannis Baratheon, nel frattempo, viaggia in cerca di fondi che possano riportarlo sul continente a dare battaglia ai Lannister e vendicarsi della sconfitta di Blackwater, mentre Daeneris decide di rimandare la sua invasione per consolidare il potere nelle terre oltre mare.
E mentre tutte le pedine si dispongono sulla grande scacchiera dei Sette Regni, si preparano morti e cospirazioni.






Non saprei da dove iniziare, scrivendo della quarta stagione di Game of thrones.
Considerato il rischio di spoiler ed il livello sempre altissimo delle emozioni - pronte a pareggiare un'unità ed una coesione orchestrate con meno perizia rispetto all'annata d'esordio -, il primo istinto è quello di ripassare mentalmente i momenti magici che questi dieci episodi hanno regalato agli occupanti di casa Ford, dalle grida di giubilo in chiusura di The lion and the rose allo straordinario monologo di Tyrion in coda al processo, passando per le vicissitudini di Sansa e Ditocorto, Ygritte e Jon Snow, i Guardiani della notte, Arya ed il Mastino e quello che è diventato da subito il momento cult dell'anno in materia di piccolo schermo, il duello tra Oberyn Martell e la Montagna.
Ancora oggi, con i colleghi al lavoro e di tanto in tanto a casa, non riesco a trattenermi dal gridare quel "Who gave the order?" che ha fatto da preludio ad uno dei finali più clamorosi dell'intera serie, paragonabile alle morti di Ned Stark e Khal Drogo, a Blackwater o alla nascita dei draghi: senza dubbio quel vecchio bastardone di Martin - che ancora si sta dilettando nel completare la saga letteraria - non ha alcuna pietà per i suoi protagonisti, oltre ad aver compreso che, per tenere alta la tensione, un Autore deve poter considerare di sacrificare anche le sue creature meglio riuscite.
In questo senso, mai come nel corso della quarta stagione abbiamo visto cadere tanti main charachters, festeggiando selvaggiamente in alcuni casi e rimanendo sbigottiti o tristi in altri: al confronto, Oz - che aveva abituato ad una vera mattanza dei suoi "eroi" - pare quasi un passatempo innocuo, tanto da alimentare ormai la tensione rispetto a qualsiasi preferito, a rischio di prematura scomparsa perchè tanto "si è all'interno di un prodotto tratto dalle opere di Martin".
Interessante l'alternanza di momenti divertenti - i siparietti tra Arya ed il Mastino su tutti - ad altri profondamente drammatici, così come al lavoro pazzesco svolto su Tyrion e Jamie - il loro dialogo a proposito del cugino dalla mente instabile è da antologia - e su Arya stessa, che promette di diventare una delle punte di diamante della serie nelle prossime stagioni, specie a seguito delle ripercussioni dell'ultimo episodio.
Meno in vista il personaggio di Daeneris, da sempre una delle mie favorite ma forse un pò troppo prigioniera del suo ruolo da regina: in un certo senso, mi mancano i tempi in cui cavalcava accanto a Drogo, e non doveva affrontare decine e decine di udienze in una sala del trono.
Spettacolare, invece, la new entry Oberyn, uno dei personaggi migliori dell'intera serie, in grado di spingere ad un livello superiore perfino il già mitico Tyrion, Cersei e Tywin Lannister, rendendo interessante perfino un charachter come quello della Montagna, praticamente un ammasso di muscoli dalle espressioni più limitate delle due del Clint dei bei tempi.
Ma senza scendere nel dettaglio delle vicende - una serie di questo calibro va gustata senza che qualcuno ce la racconti per filo e per segno - o soffermarsi troppo sull'aspetto tecnico - anche se i livelli sono altissimi, come dimostra il penultimo episodio Watchers of the Wall, incentrato interamente sui Guardiani della notte e diretto da Neil Marshall - la discriminante fondamentale rispetto all'impatto che Game of thrones sta avendo sul pubblico è data dalla straordinaria varietà e profondità dei personaggi in grado di fare breccia nel cuore degli appassionati, che volenti o nolenti riusciranno a trovare uno o più preferiti, se non addirittura un'immagine o un atteggiamento nei quali identificarsi.
Prima dell'avvento di questo serial, soltanto Lost, a mio parere, era riuscito a regalare all'audience una galleria di charachters di questo calibro: non parliamo, dunque, di qualcosa che passa e va, ma di destinato a restare, lasciando il segno.
Certo, con ogni probabilità dovremo aspettare ancora parecchio per scoprire cosa accadrà quando, finalmente, l'inverno sarà arrivato, eppure sono certo che la lotta per il Trono di spade e le vicende di tutti coloro che vi sono, volenti o nolenti, legati - dai più in vista ai fuggitivi, dai sopravvissuti ai destinati a morire - sapranno arrivare dove nessun'altra saga di ampio respiro era mai giunta.
In fondo, gli stessi protagonisti insegnano che a muovere i sentimenti più forti ed i massimi sistemi della vita sono più gli istinti, gli amori e le vendette che non la voglia di poggiare il culo su una sedia che pare sempre troppo scomoda per chi la occupa.



MrFord



"I say
we're growing every day
getting stronger in every way
I'll take you to a place
where we shall find our
roots bloody roots."

Sepultura - "Roots bloody roots" -





martedì 3 giugno 2014

X-Men - Giorni di un futuro passato

Regia: Bryan Singer
Origine: USA, UK
Anno:
2014
Durata: 131'





La trama (con parole mie): in un futuro non troppo lontano le terrificanti Sentinelle, robot adattabili e programmati per lo sterminio dei mutanti, mietono vittime a profusione, lasciando dietro di loro soltanto cadaveri ed un mondo oscuro e terribile. I sopravvissuti, guidati dai vecchi rivali Xavier e Magneto, decidono di inviare nel passato la coscienza di Wolverine in modo che possa convincere le loro controparti di cinquant'anni prima ad intervenire impedendo l'omicidio dello scenziato Bolivar Trask, inventore delle Sentinelle caduto per mano di Mystica, divenuta a sua volta una cavia per quello che sarebbe stato l'esperimento in grado di rendere gli stessi robot armi così devastanti.
Riuscirà Logan a convincere i giovani Professor X e Magneto a lavorare fianco a fianco per garantire un futuro alla razza mutante? E i pochi sopravvissuti del futuro resisteranno abbastanza affinchè l'artigliato canadese abbia la possibilità ed il tempo di agire?








Fatto tesoro della lezione degli Avengers e del loro universo cinematografico, pare proprio che Mamma Marvel stia affinando sempre più la sua abilità nel confezionare prodotti di altissima qualità ed intrattenimento del pubblico garantiti, sfruttando cast di prim'ordine e pietre miliari degli albi a fumetti dai quali trarre ispirazione.
X-Men - Giorni di un futuro passato è l'esempio perfetto di questa nuova rotta, sequel del già più che discreto First class di qualche anno fa e pellicola di raccordo di tutto il mondo mutante passato in sala fino ad ora, dagli esordi firmati dallo stesso Bryan Singer alle meno convincenti avventure in solitaria del quasi protagonista assoluto Wolverine, da sempre uno dei personaggi di maggior successo del brand: sfruttando la spettacolare saga firmata, all'inizio degli anni ottanta, da Claremont e Byrne, il già citato Singer e soci riescono nell'intento di creare un giocattolone emozionante - in più di un'occasione i brividi del caso passano volentieri lungo la schiena -, ottimamente girato - il montaggio alternato del climax finale in bilico tra la battaglia nel passato e quella nel futuro è un pezzo di bravura notevole - e, perchè no, molto divertente - su tutti, il personaggio di Quicksilver, vera e propria sorpresa della pellicola -, riuscendo a far passare oltre rispetto a qualsiasi scivolone nell'organizzazione dello script legata a viaggi nel tempo e tentativi di assestamento dell'intero universo dei "film mutanti".
Come fu per il già citato X-Men - L'inizio, poi, il tema del doppio approccio di Xavier e Magneto riesce a smuovere e far riflettere, sfruttando la sempre splendida Jennifer Lawrence e la sua Raven/Mystica, vero e proprio ago della bilancia tra i due rivali: accanto a questo, interessanti le licenze poetiche storiche - dall'assassinio di Kennedy al Vietnam - così come la metafora costituita dalle Sentinelle, di fatto armi "preventive" destinate a divenire lo strumento perfetto per un genocidio di massa.
Ma non si parla solo ed esclusivamente di dramma o massimi sistemi, rispetto a questo Giorni di un futuro passato: raramente, infatti, di recente - e parlo anche di proposte action e blockbusteroni -, centotrenta minuti sono corsi via a questa velocità, sfruttati al meglio sia quando si è trattato di affrontare momenti di grande impatto - Magneto che mobilita un intero stadio muovendo l'assedio alla Casa Bianca -, sequenze quasi comedy - l'evasione dal Pentagono grazie all'apporto del già citato, irresistibile Quicksilver - o drammi che, sulla carta degli albi così come ora in pellicola, non divengono altro che metafore di situazioni che l'Uomo ha tristemente conosciuto perchè provate sulla pelle per mano di altri uomini.
Il confronto tra i due "sopravvissuti" Logan e Magneto, in questo senso, diviene fondamentale per comprendere il lato selvaggio del primo e le scelte sempre estreme del secondo, così come il ruolo di mediatore di Xavier, probabilmente uno dei mutanti più potenti del pianeta ed al contempo una sorta di Gandhi per quanto riguarda approccio ed assertività: impossibile, in questo senso, non sentirsi toccati nel profondo da quel "il dolore si supera per prepararsi a qualcosa di migliore, e questo viene dal potere più grande ed umano di tutti, la speranza", che potrà suonare smielato o retorico, ma che, di fatto, caratterizza nel profondo non solo quelli che sono i più Goonies tra i supereroi - gli X-Men, per l'appunto - ma anche noi "semplici" umani, con tutto il nostro bagaglio di esperienze, dolori e ferite che continuano, inesorabilmente a farci andare avanti grazie ad ogni singola, piccola gioia.
Considerato che, probabilmente, se fossi un mutante mi troverei con maggior probabilità dalla parte di Magneto - almeno quando è l'istinto a prendere il sopravvento -, il punto di vista del Professor X è affascinante e decisamente più coraggioso ed arduo da portare avanti ed affrontare: chissà che, dunque, io stesso non stia ancora attraversando quella parte di vita in cui si è più allievi che maestri, e chissà se si finisca mai davvero di imparare, anche quando, di colpo, veniamo catapultati dall'altra parte, a dare una qualche lezione di Storia che noi stessi dobbiamo ancora finire di imparare e di scrivere.
Ma il bello, in fondo, è proprio questo.
Non smettere mai di apprendere. Ed emozionarsi nel farlo.
Un pò come il brivido che mette, al termine dei titoli di coda, vedere all'orizzonte il sopraggiungere di Apocalisse, probabilmente la nemesi per eccellenza degli Uomini X.
Qui al Saloon non vediamo già l'ora.



MrFord



"They've been spending most their lives
living in a pastime paradise
they've been spending most their lives
living in a pastime paradise
they've been wasting most their lives
glorifying days long gone behind."
Stevie Wonder - "Pastime paradise" - 



venerdì 14 giugno 2013

Game of thrones - Stagione 3

Produzione: HBO
Origine: USA
Anno: 2013
Episodi: 10




La trama (con parole mie): la guerra che dovrebbe portare una delle casate di Westeros alla conquista del Trono di spade infuria, e nuovi volti si aggiungono sulla scacchiera della lotta. A Sud i Lannister si stringono attorno al patriarca Tywin, che con pugno di ferro e matrimoni di comodo spera di poter salvare la sua famiglia, mentre a Nord il giovane Robb Stark guida gli eserciti finora imbattuti per vendicare la morte di suo padre.
E mentre Stannis Baratheon, fratello dell'ultimo re manipolato dalla sacerdotessa Melisandre, prepara il suo contrattacco a seguito del fallimento che gli è costato la sconfitta di Blackwater, dall'altra parte del mare la giovane Khaleesi Daenerys, madre dei draghi, è intenta ad assemblare un esercito di ex schiavi pronto a tutto per garantirle la vittoria.
Nel mezzo si muovono la giovane Arya Stark, in viaggio nelle terre del continente, il bastardo Jon Snow, finito tra i bruti oltre la Barriera, Jamie Lannister e la sua compagna di viaggio Brienne di Tarth e molti altri volti di una lotta che pare non essere concentrata sui nemici da temere davvero: gli esseri giunti dal ghiaccio eterno pronti ad invadere le terre degli Uomini.




Poche serie, nel corso delle ultime stagioni, hanno saputo mantenere, anno dopo anno, una qualità ad un livello alto ed una costanza così salda come Game of thrones: la creatura di Benioff e Weiss prodotta dalla HBO e tratta dai romanzi di George Martin sorprese due anni fa la critica ed il pubblico con una prima stagione a dir poco strabiliante, seguita da una seconda forse di passaggio ma ugualmente in grado di fornire all'audience materia per riflessioni, momenti di esaltazione ed altri di grandissimo intrattenimento: con il terzo giro di giostra, pare che gli autori siano riusciti in qualche modo a realizzare una sorta di clamorosa media tra le due stagioni precedenti, creando il connubio perfetto tra l'adrenalina di passaggi come il confronto tra Daenerys - sempre uno dei personaggi di punta dell'intero affresco - e gli schiavisti pronti a venderle l'esercito degli Illuminati o quello del destino degli Stark - uno dei finali di puntata più clamorosi degli ultimi anni - e la riflessione legata al dialogo - da rimanere a bocca aperta per quelli tra Tywin e Tyrion Lannister, due dei charachters più tosti, carismatici ed importanti della serie -.
Come se non bastasse, l'evoluzione - in positivo ed in negativo - di protagonisti come Jamie Lannister - mi pare ancora di portare i segni della sua menomazione -, il Cavaliere della Cipolla o Arya Stark - che promette di essere uno dei volti più importanti del futuro di questa storia -, uniti all'inserimento di interessantissimi nuovi nomi come Olenna Tyrell, Ramsay Snow - interpretato dall'ex di Misfits Iwan Rehon - e Daario Naharis hanno reso possibile un ulteriore passo verso la maturazione di uno dei titoli fondamentali che la tv abbia regalato al suo pubblico negli ultimi anni.
Senza dubbio troverete, al pari di elogi, critiche che ormai considerano l'imponente affresco ispirato dal titanico lavoro di Martin ostico a causa del numero certamente non indifferente di storie, sottotrame, personaggi e vicende che si intersecano ed incastrano dal Nord al Sud di Westeros, fino ad oltre il mare: potrei dirvi perfino che potrebbero essere fondate, le suddette critiche, eppure prestando la necessaria attenzione non vi sarà richiesto alcuno sforzo, perchè la passione e l'intensità con la quale questa storia è stata narrata sarà in grado di rapirvi neanche foste uno dei membri di una delle casate che si contendono un trono che pare costare più sangue e morte, che non gloria ed onore.
Oppure finireste per ritrovarvi tra i non nobili che finiscono per dedicare ogni loro singolo giorno alla lotta, e che volenti o nolenti portano sulle spalle il peso di una colpa e di un fardello che non hanno scelto - Jon Snow ed il già citato Cavaliere della Cipolla su tutti, con quel suo "Ho accettato di avere un titolo per il futuro di mio figlio", cui segue il raggelante scambio "E che ne è di tuo figlio, ora?" "E' morto seguendomi in battaglia" -, uomini più o meno deprecabili che si battono per uno spazio anche limitato su una terra che potrebbe essere la nostra.
George Martin, infatti, ha certamente composto e portato sulla pagina una sorta di complesso gioco di ruolo dipanatosi nei recessi della sua mente, eppure il risultato non ha il sapore di qualcosa di irreale, lontano, estraneo da quello che anche noi siamo: i protagonisti della lotta che racconta Game of thrones sono quanto di più umano possa esistere anche nel nostro mondo, e se le questioni, da queste parti, non si regolano più con la spada in pugno, il potere della politica e delle influenze, le differenze di classe ed i problemi che accomunano tutti gli uomini - nobili o popolani che siano - altro non è se non lo specchio della grande giostra di passioni che è la vita: Cersei che trova gioia perfino in Jeoffrey e nel ricordo della sua bellezza da bambino, Arya al suo primo omicidio, Jon Snow in lacrime di fronte alla donna che ama, e che si trova costretto a lasciare, Jamie Lannister pronto ad affrontare la menomazione e uomini biechi uccisi da uomini ancora più biechi. 
Homo homini lupus. La legge della giungla e quella della spada.
Anche se non è sempre detto che le ferite più profonde possano essere provocate dall'acciaio.
Questa è una guerra, signori miei. E da una guerra non si esce mai incolumi.
La guerra è una tempesta che non salva neppure i superstiti.
E all'orizzonte si addensano nubi di una ancora più grande di quella per un trono d'acciaio.
E a quel punto si vedrà la differenza tra i re e gli uomini che non hanno bisogno di dichiarare di esserlo per doversi imporre sugli altri.


MrFord


"Blood and tears
blood and tears
since you've been gone
I hear you've been crying
blood and tears
all alone
in your misery
so alone
could you have
been deceived
since I've been gone
I hear you been crying."
Danzig - "Blood and tears" -


mercoledì 4 luglio 2012

Game of thrones - Stagione 2

Produzione: HBO
Origine: Usa
Anno: 2012
Episodi: 10



La trama (con parole mie): la guerra per conquistare il Trono di spade imperversa, e alla partita che vedeva coinvolti principalmente i Lannister e gli Stark si aggiungono eserciti e pretendenti da ogni parte del Continente. Mentre Robb Stark è impegnato nella sua marcia verso King's Landing, Jon Snow affronta un pericolosissimo viaggio oltre la Barriera, e Tyrion Lannister, nominato Primo Cavaliere, si ritrova a fronteggiare la minaccia di un assedio che potrebbe costare il potere alla sua famiglia: oltremare, nel frattempo, Daenerys Targaryen e i suoi draghi sono alla ricerca di una flotta di navi che possa condurre la giovane nelle sue terre d'origine, reclamando la corona che fu di suo padre.
Intrighi, morte, guerra e poteri sovrannaturali si mescolano nel sangue per un nuovo capitolo di un affresco sempre più impressionante.



Ogni serial televisivo, anche quelli meglio riusciti, ha un compito clamorosamente difficile da svolgere ad ogni inizio stagione: mantenere il suo livello alto abbastanza perchè il pubblico e la produzione non rinneghino quello che soltanto l'anno precedente - e a volte anche meno - osannavano senza riserve.
Come visto a fine 2011, anche i prodotti migliori - Misfits e Dexter, giusto per citarne due - hanno subito battute d'arresto notevoli, perdendo terreno rispetto a nuove proposte come la fulminante prima stagione di Game of thrones, una vera e propria pietra miliare del fantasy e non solo sul piccolo schermo e non solo.
La scommessa degli autori, dunque, era proporre una nuova annata che fosse all'altezza della prima, lasciando di nuovo a bocca aperta il pubblico: per quanto mi riguarda, l'obiettivo è stato quasi completamente centrato, considerato che abbiamo assistito ad una fase di transizione della guerra per il Trono di spade, destinata a durare ancora per molto - in fondo, i romanzi da cui è tratta la serie devono ancora narrare la conclusione della vicenda - sulla pagina così come sullo schermo.
Certamente, rispetto alla stagione d'apertura, è mancato il pathos di un crescendo strepitoso così come l'apporto di quello che era uno dei suoi protagonisti assoluti, una Daenerys tenuta in disparte per la maggior parte di questa annata ed esplosa soltanto con l'ultimo episodio, quasi ad alimentare la speranza di una sua sempre più decisiva influenza sugli eventi che attendono i pretendenti alla corona: ma è davvero un cercare il pelo nell'uovo per uno dei prodotti al momento meglio realizzati della HBO - e non solo -, recitato, scritto e realizzato a livelli altissimi ed in grado di catturare l'audience e la sua attenzione nonostante il numero consistente di sottotrame e personaggi pronti a darsi battaglia in campo aperto così come nei corridoi delle corti.
In particolare, ho apprezzato - una volta ancora - la struttura "in crescendo" della stagione, partita con passi lenti e circospetti ed esplosa in una doppietta conclusiva spettacolare, con gli episodi Blacwater - diretto, tra l'altro, da Neil Marshall - e Valar Morghulis, season finale da urlo: proprio prendendo spunto da quest'ultimo titolo, posso dichiarare ufficialmente di aver trovato un sostituto a due dei miei favoriti dipartiti - ATTENZIONE SPOILER - al termine della prima stagione - Ned Stark e Khal Drogo - nel misterioso assassino Jaqen, che promette di essere uno dei charachters più interessanti della saga, nonchè mentore di un'altra delle mie beniamine, Arya Stark.
Come se questo non bastasse, il come di consueto bravissimo Peter Dinklage da volto al sempre mitico Tyrion Lannister, che al contrario della prima annata si troverà spesso e malvolentieri a fronteggiare le sue battaglie con la spada, invece che con il cervello, confermandosi il cuore pulsante della sua casata, Jon Snow aprirà scenari epici e al limite dell'horror oltre la Barriera e la coppia Brienne di Tarth - personaggio di spessore pazzesco -/Jaimie Lannister promette già scintille per la prossima stagione, così come la fino ad ora poco sfruttata sacerdotessa Melisandre, eminenza grigia alle spalle di Stannis Baratheon.
Ma descrivere in questo modo tutti gli avvenimenti che scuotono nel profondo i Sette Regni appare riduttivo, rispetto alla cavalcata selvaggia e all'ultimo respiro che è questa serie di fattura sopraffina, confezionata con mano d'autore e portata agli occhi e al cuore dello spettatore con tutta la forza delle martellate di un fabbro: l'unica alternativa è prepararsi alla battaglia e lanciarvisi senza guardare indietro.
Chissà che non ci sia qualche possibilità di uscirne tutti d'un pezzo.
Di sicuro, a prescindere da chi siederà sul Trono di spade quando tutto sarà finito, gli autori di questa meraviglia possono già dirsi vincitori. 


MrFord


"Running silent, running deep, we are your final prayer,
warriors in secret sleep, a merchantman's nightmare,
a silent death lies waiting, for all of you below,
running silent, running deep, sink into your final sleep."
Iron Maiden - "Running silent, running deep" -


lunedì 16 gennaio 2012

Golden Globes 2011



La trama (con parole mie): come tutti ben sapete, ieri notte si è tenuta la cerimonia per l'assegnazione dei premi universalmente noti come l'anticamera degli Oscar, i Golden Globes.
Ecco dunque l'elenco dei vincitori e qualche mio commento sparso: onestamente, mi aspettavo qualcosina in più da questa notte, almeno per quello che ho potuto vedere finora, e la cosa fa sperare decisamente poco bene in vista di un'altra annata di transizione - almeno per quanto mi riguarda - dell'Academy e i suoi premi.
Staremo a vedere.
Intanto, ecco chi ha trionfato ieri.



A Morgan Freeman è andato il premio alla carriera intitolato a Cecil B. DeMille, e qui niente da dire: per quanto ultimamente gigioneggi un pò troppo e faccia il supergiovane, il vecchio Morgan se lo merita tutto.




Ad avere la meglio come miglior film drammatico è stato The descendants, una pellicola che ancora non è passata sugli schermi di casa Ford e che da noi non è ancora arrivata in sala: onestamente Alexander Payne non mi dispiace, e degli altri nominati ho visto fino ad ora soltanto Le idi di marzo, ma avrei comunque scelto il lavoro di Clooney regista a quello di Clooney attore.




Migliore attrice protagonista è risultata Meryl Streep, che ormai è un pò la dannazione delle sue colleghe, dato che ad ogni candidatura si porta a casa il premio. Non ho visto la sua intepretazione in The iron lady, ma un pò per spingere qualche giovane promessa e un pò per simpatia rock avrei assegnato il Globe a Rooney Mara, che stupirà a breve anche noi in Italia per la sua interpretazione di Lisbeth Salander.






Anche nel caso del premio al migliore attore protagonista è stata fatta una scelta assolutamente conservatrice: al posto di Clooney per il succitato The descendants io avrei optato per uno dei nuovi volti Gosling o Fassbender, o per l'ormai eternamente snobbato Di Caprio per la sua ottima performance in J. Edgar. Peccato davvero: evidentemente si preferisce un Nespresso a qualche bevanda decisamente più forte.






Il premio per la miglior commedia è andato al celebratissimo The artist, cui non ho ancora concesso la visione ma che pare proprio essere un gioiellino.
Ad oggi, io avrei assegnato il Globe al vecchio Woody con il suo splendido Midnight in Paris.






Miglior attrice per la categoria commedia è risultata Michelle Williams, che non mi è mai andata particolarmente a genio. Devo ammettere che questa era una delle poche nominations per cui non avevo una preferenza, quindi passo oltre senza troppi patemi.






Secondo giro di giostra per The artist, che si porta a casa anche il premio come miglior attore per la commedia. Telefonatissimo Globe che, in assenza di prove, non contesto neppure troppo.






Il vincitore per l'animazione è stato Le avventure di Tin Tin, gioiellino firmato Spielberg che ho molto apprezzato, ma che personalmente non vedo rientrare alla perfezione in questa categoria, forse perchè la tecnica utilizzata mi sa di ibrido che potrebbe far addirittura pendere di più l'ago della bilancia verso il film di fiction standard. Senza contare che, in un anno decisamente scarsino per i vecchi cartoni animati, avrei inserito Arrietty nella lista, e tra i candidati, avrei premiato ad occhi chiusi Rango.






Miglior film in lingua straniera è stato giudicato Una separazione, pellicola celebratissima che ho in standby da troppo tempo. Questo premio - oltre alle montagne di elogi in rete - faranno da catalizzatori ad una mia prossima - molto prossima - visione.




Altra pellicola prossima al passaggio sui miei schermi molto celebrata è The help, per la quale è stata premiata Octavia Spencer come migliore attrice non protagonista.



Altro Globe che mi puzza di conservatorismo. Peccato, perchè Plummer è un ottimo attore, ma avrei preferito che il riconoscimento come migliore non protagonista andasse a Viggo Mortensen o alla sorpresa Jonah Hill.






Il premio per la migliore regia è stato assegnato al mostro sacro Martin Scorsese, che da qualche anno a questa parte è passato dall'essere l'eterno escluso a fare incetta di premi: non ho ancora avuto modo di vedere il suo Hugo, ma avrei preferito di gran lunga assegnare questo premio a Clooney o Allen e liberare lo slot come migliore attore per Gosling.






Il premio per la migliore sceneggiatura è andato a Woody Allen per il già citato Midnight in Paris, film che ha avuto il merito di far riscoprire il meglio del regista newyorkese al pubblico e alla critica.
Forse, ma dico forse, il Globe che ho apprezzato di più.






Con mio grande disappunto, il premio per la migliore colonna sonora è andato a Ludovic Bource per The artist - quasi dominatore della serata -, nonostante il mio tifo spudorato per Trent Reznor e Atticus Ross.






A Madonna il Globe per la migliore canzone, altro premio di cui, onestamente, mi importava poco o nulla.






Miglior serie drammatica si è rivelata Homeland, prodotto dell'anno per il mio rivale Cannibale e da poco giunto sui miei schermi: le premesse sono più che buone, ma nonostante l'inizio interessante, questo premio doveva essere cucito addosso a quella meraviglia di Game of thrones, senza se e senza ma.



Per quanto abbia potuto vedere, giusto invece il riconoscimento a Claire Danes per il succitato Homeland come miglior attrice per una serie drammatica. Ma, devo ammetterlo, conoscevo poco o nulla delle sue avversarie.
A fare il paio con la Danes come miglior interprete maschile per una serie drammatica è giunto Kelsey Grammer per Boss, vincitore del premio in barba al mio favorito Bryan Cranston.





Già celebratissima e premiata in ogni dove, Modern family si conferma miglior serie comedy sbaragliando una concorrenza che, sinceramente, non mi pareva particolarmente ostica. Uno dei Globes più annunciati.






Per quanto la sua rottura con il mio idolo Ben Harper l'abbia fatta precipitare nelle classifiche di gradimento di casa Ford sono contento comunque per il premio a Laura Dern come miglior attrice per una serie comedy.






Nella stessa categoria, ma come migliore attore, l'ha spuntata il vecchio Joey di Friends, che personalmente pensavo ormai da tempo chiuso nel dimenticatoio degli anni novanta. Io avrei premiato David Duchovny ad occhi chiusi, ma purtroppo anche qui mi è andata male.




Miglior miniserie per la tv è risultata Downtown Abbey, per la categoria di cui conoscevo meno in assoluto. Non ho, infatti, ancora avuto modo di mettere le mani su nessuno dei titoli candidati. Si rimedierà.



Nella categoria miglior attrice per una miniserie tv ha conquistato il Globe Kate Winslet, prevedibilissima vincitrice per la sua ottimamente recensita Mildred Pierce.
Niente da dire: la Winslet è una delle protette fordiane, quindi benissimo così.


Idris Elba si è portato a casa il premio come miglior attore per una miniserie tv grazie a Luther.
Un premio indolore, dato che anche in questo caso non avevo alcun tipo di preferenza.






Annunciatissimo il premio come miglior attrice non protagonista per una serie tv a Jessica Lange, una delle poche note positive del da me bottigliatissimo American horror story.






Ed ecco, giusto per il finale, il Globe accolto con maggiore entusiasmo in casa Ford. Peter Dinklage, con il suo fantastico Tyrion Lannister, si aggiudica il premio come miglior attore non protagonista per una serie tv.
Considerato il mancato premio a Game of thrones, questo vale come doppio.


MrFord
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...