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lunedì 16 aprile 2018

Ready Player One (Steven Spielberg, USA, 2018, 140')





Non è mai facile, per un film, partire dalla base data da un romanzo. Soprattutto quando il romanzo è scritto incredibilmente bene e alla lettura risulta incredibilmente esaltante.
Ho letto Ready Player One di Ernest Cline qualche anno fa, rimanendo incollato alle pagine dall'inizio alla fine. E da mesi, all'idea che Spielberg, nonostante gli ultimi, decisamente discutibili, lavori, potesse metterci mano, alimentava un hype davvero pazzesco.
E senza dubbio, Ready Player One è un gran bel vedere, frutto di una produzione e di mezzi tecnici ineccepibili.
Eppure, soprattutto pensando a quegli anni ottanta che tanto omaggia, e a Spielberg stesso, e alla meraviglia di un Cinema - anche quando nasce dalla Letteratura - che si gioca tutto sulle bocche spalancate del pubblico, questo film scorre senza lasciare il segno in modo piuttosto disarmante: non voglio fare il purista che si schiera a favore della pagina scritta contro l'adattamento cinematografico a tutti i costi, ma anche Julez, che non ha letto il romanzo, ha finito per dover resistere al sonno senza emozionarsi neppure per sbaglio di fronte ad una storia che, letta sulla pagina ed immaginata, aveva qualcosa di davvero magico, quasi come se avessero shakerato un cocktail con tutte le pellicole più significative per il Cinema d'avventura degli anni ottanta, i Fumetti, i giochi di ruolo e tutto quello che, ai tempi, era pane per qualunque ragazzino volesse sognare forte.
Dovendo ammetterlo, a tratti questo giocattolone studiato in tutto e per tutto - e votato al fan service, considerate le innumerevoli citazioni presenti nella pellicola legate alla cultura pop - mi ha addirittura annoiato, edulcorando parti decisamente forti del romanzo e finendo per risultare qualcosa di più simile ad un tentativo da Nuovo Millennio di ripercorrere le orme di un momento magico per il Cinema e non solo che poche opere recenti sono riuscite davvero a replicare.
Curioso, infatti, che uno dei romanzi che più ho amato negli ultimi anni mi abbia portato a questo momento, quando a fatica cerco di abbozzare un post che renda l'idea di qualcosa di divertente e piacevole da guardare ma assolutamente vuoto, o comunque lontano da quello che noi figli degli anni ottanta ci saremmo aspettati da quello che è, in tutto e per tutto, un omaggio a quell'epoca scritto da un autore che fa parte della nostra stessa generazione.
Ed è un dispiacere, anche perchè Spielberg ha significato una fetta importante della mia infanzia, ed affrontare una visione come questa - riuscita a tratti, ma emotivamente equivalente ad un ghiacciolo - potrebbe essere paragonabile al tentativo di giocare alla versione riadattata per Playstation 4 di un titolo amato quando ero bambino, da Double Dragon a Shinobi, passando per Cadillacs&Dinosaurs, e scoprire che la sua versione Nuovo Millennio è in realtà saporita e tosta quanto un cocktail annacquato.
Mi rendo anche conto che questo post sta diventando una sorta di versione da bottigliate di una recensione, quando a conti fatti il film non merita troppa severità, nonostante senza ombra di dubbio si sia decisamente lontani dal cult che in molti si aspettavano di trovare di fronte ai propri occhi quando al romanzo di Cline è stato associato per la prima volta il nome del padre di cose incredibili come E. T. o Incontri ravvicinati del terzo tipo: Ready Player One è semplicemente un prodotto ottimamente realizzato figlio di quest'epoca nonostante i rimandi a Gundam, alla DeLorean e compagnia danzante, e proprio per questo uguale, a conti fatti, a tanti altri che, in un certo senso, risultano più attuali ed emozionanti per chi tutti i dettagli raccontati da questa storia non li ha vissuti sulla pelle rispetto a coloro i quali, al contrario, ne hanno fatta quasi una questione di esperienza e di Fede.
E di fronte a qualcosa in cui è difficile riconoscersi, è meno stimolante cercare nuovi sentieri che partano dai vecchi.
O sperare di trovarsi, a sorpresa, in cima alla classifica.




MrFord




lunedì 25 luglio 2016

Saloon's Bullettin #2



Le prime due settimane da "part-time" della blogosfera, lo ammetto, sono state un vero piacere.
Nessuna pressione rispetto al vedere film o serie e scriverne, completo relax, approccio easy neanche fossi precipitato nella pigrizia alcolica lebowskiana: una manna dal cielo, senza contare che, rispetto alla scorsa tornata, a questo giro mi pare sia andata ancora meglio, in termini di visioni.
Dunque, giusto per togliermi il sassolino, parto con la nota "dolente" della settimana, legata alla lettura: ho terminato da un paio di giorni La ragazza dal cuore d'acciaio, uno dei pochi Lansdale che ancora mancavano alla mia lista, e devo ammettere con rammarico di essermi trovato di fronte al romanzo più debole del vecchio Joe. Nonostante, infatti, un protagonista sulla carta perfetto per il sottoscritto - reduce di guerra, tendenzialmente alcolizzato, donnaiolo e casinista -, Cason Statler - già visto in un paio di occasioni come ospite nella saga di Hap e Leonard - e la presenza dello squilibrato Booger - anch'egli coprotagonista del recente Honky Tonk Samurai -, ho trovato La ragazza dal cuore d'acciaio spento e lento, rispetto allo standard ironico, fresco e rapido del romanziere texano, a tratti perfino moralista per bocca del suo main charachter. Niente di abbastanza grave da incrinare il rapporto con uno dei favoriti del Saloon, ma senza dubbio una parziale delusione (due bicchieri).
Il Cinema, invece, ha finito per regalarmi una settimana di discrete soddisfazioni: considerato che il suo precedente era il decisamente sopravvalutato Oculus, il nuovo lavoro di Flanagan, Hush, home invasion arricchito dall'idea di una protagonista sordomuta in perenne necessità di un contatto visivo con il suo potenziale assassino, si è rivelato una sorpresa davvero niente male.
Grazie ad un ottimo ritmo, una violenza decisa ma non eccessiva - la sequenza della mano e della porta scorrevole è stata davvero un bel pugno nello stomaco -, soluzioni interessanti - le ipotesi della protagonista a proposito delle differenti vie di fuga - ed un minutaggio adeguato la visione scorre davvero alla grande, incassando solo qualche colpo nel finale a causa delle concessioni che, di norma, in questo tipo di pellicole vengono autorizzate rispetto alla distribuzione ed al grande pubblico: peccati veniali, comunque, per un lavoro che si propone come uno dei riferimenti dell'horror/thriller di questo inizio estate (due bicchieri e mezzo).
Pur cambiando l'ordine degli addendi ed accelerando su ironia e splatter, la sorpresa resta la costante anche per Manuale scout per l'apocalisse zombie, recuperato quasi per caso con il sospetto che si potesse trattare di una merda fumante buona per la visione in sala del weekend di Ferragosto e rivelatosi, invece, un ibrido divertentissimo e spassoso di Shaun of the dead, Zombieland e I Goonies, con un Tye Sheridan a farla da padrone ed una Sarah Dumont a rompere qualsiasi indugio nel pubblico maschile: nonostante il lavoro di Landon sia clamorosamente derivativo, passaggi come quello della citazione a Britney Spears o del "si sta rompendo il cazzo" assurgono senza colpo ferire a potenziali scene cult dell'anno, pronti ad andare a braccetto con un elogio degli outsiders adolescenti degno degli anni ottanta, un ritmo veloce ed una colonna sonora assolutamente perfetta.
Un film perfetto per la stagione, per i ragazzini in cerca di conferme e per gli adulti che ricordano con affetto il loro periodo di lotta adolescenziale per emergere rispetto a tutti quelli che si trovavano, per un motivo o per un altro, con la pappa pronta e che poi, di fronte alla vita vissuta, hanno finito per soccombere, o diventare zombies (due bicchieri e mezzo).
Chiudo in bellezza, sempre nello spirito eighties, con Midnight Special, nuovo film dell'amatissimo da queste parti Jeff Nichols, che riprende il discorso iniziato con lo splendido Take Shelter mescolando fantascienza, famiglia e road movie appoggiandosi alle garanzie Michael Shannon e Kirsten Dunst e ad un eccezionalmente in parte Joel Edgerton per raccontare la metafora del superamento di una perdita devastante come quella di un figlio: un film che, probabilmente, ad una prima visione - o ad una superficiale - rischia di apparire meno potente di quanto non sia in realtà, e che non solo conferma il talento del suo autore - colpevole, forse, soltanto di un paio di passaggi di sceneggiatura un pò troppo tagliati con l'accetta -, ma grazie ad una fotografia pazzesca e a riprese splendide porta lo spettatore all'interno di un dramma affrontato con determinazione, coraggio ed una dose di Fede da fare invidia perfino ad un miscredente convinto come questo vecchio cowboy.
In questo caso il mio consiglio è montare senza troppi pensieri sui sedili della vettura condotta in modo forse a tratti sconsiderato da Nichols, gettare ogni pregiudizio ed aprire il cuore ad una vera e propria rivelazione (tre bicchieri).
Non c'entra invece nulla con il resto, ma data la perfezione tecnica e lo script non potevo esimermi: in questi giorni, con Julez, abbiamo completato Uncharted 4, conferma clamorosa del valore cinematografico che i videogiochi stanno acquistando titolo dopo titolo: la saga di Nathan Drake non ha nulla da invidiare a quella di Indiana Jones, e pur non avendo un corrispettivo su grande schermo, andrebbe gustata dal primo all'ultimo secondo.





MrFord

martedì 31 maggio 2016

X-Men: Apocalisse

Regia: Bryan Singer
Origine: USA
Anno: 2016
Durata:
144'







La trama (con parole mie): sono passati dieci anni dalle vicende che videro Charles Xavier ed i suoi X-Men affrontare la minaccia della crisi cubana, e molte cose sono cambiate, per gli umani quanto per i mutanti. Xavier, dedicatosi a tempo pieno alla sua scuola, ignora qualsiasi avvisaglia di minaccia per il mondo, Magneto si è ritirato in Polonia tentando di rifondare una famiglia e ricominciare senza sfruttare i suoi poteri una vita normale, Bestia si è dedicato a studi che possano tenere pronte eventuali contromisure in caso di conflitto e Mystica ha mantenuto un basso profilo aiutando mutanti in difficoltà in tutto il mondo.
Quando En Sabah Nuhr, primo mutante testimoniato della Storia, individuo dai poteri quasi divini, torna alla vita dopo millenni di sonno, le cose cambiano: ribattezzato Apocalisse, infatti, il riemerso superumano ha intenzione di epurare la Terra non solo dai non mutanti, ma da tutto quello che non rientra nel suo ordine costituito.
Riusciranno Xavier ed i suoi ragazzi, affiancati da Mystica, a fermare la minaccia di Apocalisse e dei suoi quattro cavalieri?










Se non altro, Bryan Singer è dotato di una certa ironia.
Quando i giovani Jean Grey, Ciclope, Nigtcrawler e Jubilee escono dalla sala dove è stato appena proiettato Il ritorno dello Jedi affermando che "il terzo è sempre il peggiore", non solo ammette le proprie colpe rispetto all'abbandono temporaneo della barca mutante ed all'osceno X-Men - Conflitto finale che chiudeva la prima trilogia, ma considera che il tanto atteso X-Men - Apocalisse possa rappresentare l'anello debole della nuova e decisamente migliore seconda tripletta di film dedicata ai mutanti di casa Marvel, che, considerato il passaggio post-titoli di coda, potrebbe diventare un poker.
Senza dubbio, ed oggettivamente, è così: X-Men - Apocalisse perde nettamente il confronto con L'inizio e Giorni di un futuro passato principalmente per quanto riguarda l'approccio e la sceneggiatura, debole in più punti e tanto più se considerata in relazione con i capitoli precedenti, dando una priorità perfino eccessiva alle parti più action e spettacolari del prodotto.
Allo stesso modo, però, tolti i sassolini dalle scarpe rispetto alle incongruenze - che riguardano specialmente Nightcrawler e Angelo -, occorre ammettere che il lavoro di Singer è molto meno peggio di quanto dipinto dalle numerose recensioni ostili pubblicate nei primi giorni seguiti all'uscita in sala, dimostrazione che, pur non raggiungendo livelli eccelsi, l'intrattenimento supereroistico intelligente ha ancora qualcosa da dire e comunicare, dai passaggi unicamente volti all'esaltazione - il confronto finale con Apocalisse, con tanto di furia wolverinesca, esibizione epica di Magneto, ritorno della Fenice di Jean - alla riflessione, che in questo caso aggiunge ai punti di vista di Xavier e Magneto quello di Apocalisse, sorta di messia mutante tra i più tosti avversari degli Uomini X anche sulla pagina stampata.
Un bel calderone di idee che, seppur non perfettamente amalgamato, porta a casa la pagnotta ed avvince quanto basta per superare in qualità molti presunti blockbuster usciti nel passato recente, facendo leva su charachters perfettamente riusciti come Pietro Maximoff - alias Quicksilver, graziato da un'altra sequenza pazzesca sulle note di Sweet Dreams - ed una giovane Tempesta, all'apparizione di Wolverine con tanto di riferimento al futuro legame con Jean Grey ed alla speranza che, con l'introduzione di Nathaniel Essex, noto ai fan come Sinistro, il quarto capitolo possa cambiare marcia: Bryan Singer resta comunque lontano dai suoi tempi migliori e da I soliti sospetti, ma alza l'asticella rispetto al pessimo Superman Returns limitando il difficile confronto con il precedente e già citato Giorni di un futuro passato, ad oggi la miglior pellicola dedicata a Xavier e soci.
Personalmente, dunque, non mi sento tradito da questo nuovo terzo capitolo dedicato alle gesta degli Uomini X, o da Apocalisse - forse un pò troppo ingessato, ma in linea con un charachter da sempre un gradino sopra gli altri da tutti i punti di vista -, o particolarmente deluso: non mi aspettavo un Capolavoro, ed un Capolavoro non è arrivato.
D'altro canto, però, è stato davvero impossibile non divertirsi godendosi le gesta degli outsiders numero uno della Marvel, che per natura ed approccio continuerò a preferire ai più vincenti e splendidi splendenti Avengers: tutto nella speranza che anche per il mondo mutante possa essere messo in piedi un progetto ottimamente strutturato come quello del Cinematic Universe.




 
MrFord





"Sweet dreams are made of this
who am I to disagree
I travel the world and the seven seas
everybody's looking for something."
Eurythmics - "Sweet dreams (are made of this)" -






martedì 27 ottobre 2015

Dark places - Nei luoghi oscuri

Regia: Gilles Paquet-Brenner
Origine: UK, Francia, USA
Anno:
2015
Durata:
113'






La trama (con parole mie): Libby Day, quando aveva appena otto anni, scampò al massacro della sua famiglia nella casa di campagna dove viveva con la madre, le due sorelle ed il fratello Ben. Proprio quest'ultimo, già al centro di gravi problemi a scuola, socialmente poco inserito, apparentemente satanista e legato al losco Trey ed alla ricca ma poco equilibrata Diondra, che dovrebbe dare alla luce un figlio suo, è accusato degli omicidi e condannato.
Ventotto anni dopo, Libby è una donna vissuta nel rancore, isolatasi dal mondo grazie ai redditi delle donazioni a suo nome e di un libro pubblicato a proposito delle drammatiche vicende che l'hanno vista protagonista: quando Lyle, a capo di un'organizzazione di volontari specializzati in "cold cases" la contatta offrendole dei soldi per parlare della sua storia risolvendole in fretta problemi di liquidità, per Libby si riapre un capitolo creduto sepolto della sua vita.
Lyle e i suoi compagni, infatti, sono convinti che suo fratello Ben sia innocente, e pensano, attraverso lei, di poter trovare le prove necessarie per riaprire il caso prima che scadano i termini di legge.
Libby sarà disposta a rimettersi in gioco? A perdonare? A guardare nell'oscurità del suo passato per ritrovare la verità di quella notte di sangue?










E' ormai risaputo che, da queste parti, le storie da provincia americana profonda tanto quanto quelle legate ai morti ammazzati finiscono per sfondare praticamente sempre una porta aperta: quando, poi, le due cose vanno a braccetto, almeno sulla carta dovrebbero avere ancora più probabilità di guadagnarsi almeno un giro di bevute sul bancone del Saloon.
Prodotti come Killer Joe, Il cacciatore di donne, Joe o Mud hanno, del resto, segnato le visioni fordiane degli ultimi anni decisamente nel profondo, pur con le giuste differenze in termini qualitativi e di risultato: Dark Places - Nei luoghi oscuri, almeno in linea teorica, avrebbe avuto tutte le carte in regola per far parte del club.
Tratto da un romanzo della stessa autrice di Gone girl, però, il film che ha al centro l'indagine tardiva di Libby Day, che si vide privata dell'intera famiglia - o quasi - in una sola notte quando aveva otto anni, finisce per mancare il bersaglio clamorosamente: non che si tratti di un brutto film, o di qualcosa irritante da seguire, quanto più che altro di un prodotto che non aggiunge nulla alla storia del genere, sceneggiato - dallo stesso regista - in maniera piuttosto televisiva - e non lo scrivo in accezione positiva -, privo di particolari momenti di tensione, di sequenze memorabili e della scintilla in grado di far distinguere un prodotto artigianale che si guarda volentieri in tv o uno che, appena scorsi i titoli di coda, si desidera avere nella propria videoteca per poterlo non solo rivedere, ma mostrarlo ad amici, partners, familiari e chi più ne ha, più ne metta.
Di fatto il lavoro di Gilles Paquet-Brenner, che non è certo il nome più prestigioso cui si sarebbe potuto affidare il progetto, soffre della stessa mancanza di personalità del recente Black Mass, con l'aggravante rispetto a quest'ultimo di offrire pochi spunti anche in ambito tecnico: personalmente ho finito per gustarmelo in grande scioltezza, rendendomi però conto di essermi trovato di fronte ad una sorta di episodio pompato di Cold case, di quelli in cui tutto pare così facile e lineare per i protagonisti da far sembrare chiunque abbia messo mano al caso in precedenza come un povero stronzo incompetente.
E se le oscurità dei main charachters - in particolare di Libby e di suo fratello Ben, ma anche della loro defunta madre - risultano interessanti e ricche di potenziali spunti di riflessione, tutto il resto pare sbiadire e regalare soltanto un paio di twists interessanti - come quello che porterà alla risoluzione del caso - ma nessun vero momento di tensione in grado di mettere davvero alle strette ed inchiodare alla poltrona lo spettatore: onestamente non so se tutto sia originato dalla scarsa empatia che si finisce per provare con la Libby di Charlize Theron - sempre bellissima, ma in questo caso, a mio parere, poco in parte - o all'attenzione sommaria legata all'approfondimento delle motivazioni di ogni singolo personaggio, ma tutto pare ridursi ad una serie di facili e troppo veloci scoperte pronte a condurre dritte alla verità, e momenti come quelli che hanno visto, sul grande schermo, sconvolgere personaggi come Clarice Starling o Will Graham appaiono davvero fuori portata per quello che non sarà mai più che un onesto thriller da serata disimpegnata in televisione.
Non tutto il male viene per nuocere, comunque, considerato che la visione non finisce per essere nociva o irritante, ed alcuni spunti come quelli legati alla figura del giovane Ben - un sempre interessante Tye Sheridan, che ormai pare essersi specializzato in questo tipo di ruoli - ed alla verità sulla notte nella casa dei Day e sul loro massacro paiono regalare quantomeno una certa intensità e la promessa di non scomparire dalla memoria come la maggior parte del resto.
Non aspettatevi, dunque, da questo Dark Places il thriller dell'anno, quanto più che altro una semplice ma a suo modo solida opera di un mestierante del Cinema da destinare ad una di quelle serate autunnali nel corso delle quali avete bisogno soltanto di una scusa per stringere più forte chi sta accanto a voi sul divano.
E più per goderne, che per tensione o paura.




MrFord




"All of the things that I tried to explain,
how something inside of me started to break.
we were living proof, one by one we drifted away.
one by one we drifted away."
The Gaslight Anthem - "Dark places" - 





martedì 21 ottobre 2014

Joe

Regia: David Gordon Green
Origine: USA
Anno: 2013
Durata:
117'




La trama (con parole mie): Joe è un ex detenuto di mezza età dedito all'alcool e al duro lavoro, un uomo tutto d'un pezzo pronto ad aggredire la vita e chi gli mette i bastoni tra le ruote senza pensarci due volte. Quando Gary, un quindicenne dall'incrollabile voglia di scrollarsi di dosso le violenze del padre - il vagabondo alcolizzato Wade - e cercare di costruirsi un futuro chiede un impiego allo stesso Joe, l'uomo si ritrova in qualche modo coinvolto affinchè il ragazzo possa crescere nel migliore dei modi, ed essere premiato per la fatica che è disposto a fare per raggiungere il suo scopo.
Ma la realtà nella provincia perduta non sempre è facile da digerire e cambiare, e dunque Joe e Gary si troveranno a dover fare fronte comune affinchè i danni siano limitati al minimo e possa, una volta che la polvere si sarà posata ed i conti con Wade saranno saldati, ancora esserci una speranza.








Essere d'esempio a qualcuno, che si tratti di un allievo, un amico, un dipendente, una persona che condivide con noi almeno un pezzo di strada, è una delle cose più complicate con la quale confrontarsi.
Ancor di più se l'essere d'esempio riguarda i figli: questo perchè, nonostante di norma e per consuetudine sociale si tende a nasconderli bene, i nostri difetti finiscono e finiranno inevitabilmente per influenzare in una certa misura chi raccoglierà, volente o nolente, la nostra eredità da queste parti.
Fare da padre - o da madre, ovviamente -, inoltre, a qualcuno che figlio nostro non è risulta ancora più difficile: nel corso della mia vita, ho potuto vivere tre esempi di questo tipo di situazione, ed in tutti e tre i casi sono rimasto ammirato e stupito dalla forza che i loro protagonisti hanno mostrato decidendo di portare sulle loro spalle il peso della responsabilità legata alla crescita di figli non propri.
Uno è stato mio nonno, lo stesso dei western, quello cui devo, probabilmente, anche parte dell'amore per il Cinema, una mia suocera ed il terzo un collega e "vicino".
Quando penso a loro, ed alla mia condizione di padre, penso che non tutti sarebbero in grado di avere certe palle.
Joe è un film - ed un personaggio - con queste palle.
Non è il "Killer" predatorio e senza pietà di Friedkin, quanto più - per rimanere legati ad atmosfere molto simili ed allo stesso protagonista, Matthew McConaughey - una versione adulta ma non meno problematica di Mud: l'incontro con il giovane Gary - interpretato dall'intenso Tye Sheridan, che fu spalla del già citato McConaughey sempre in Mud - smuove infatti il protagonista di questa pellicola ruvida e passionale verso territori che, forse, non avrebbe mai pensato di esplorare, abituato a badare fondamentalmente soltanto a se stesso, seppur dotato di un animo da cavaliere improvvisato pronto a soccorrere chiunque ne abbia bisogno, ed abbia il suo rispetto.
Joe - cui presta volto ed una dirompente fisicità un ottimo Nicholas Cage - è una vicenda di confine, ennesimo ritratto dell'America "persa tra il nulla e l'addio" che dal primo Malick ai più recenti lavori di Nichols, passando per le canzoni di Bruce Springsteen è divenuta parte anche dell'immaginario di tutti noi da quest'altra parte dell'oceano, che al contempo ci ritroviamo affascinati da questa sorta di mitologia a metà tra la malinconia e l'esplosività, gli spazi sconfinati e la mancanza di prospettive.
Non è un film perfetto, soprattutto in fase di scrittura e di post produzione, e non può essere considerato all'altezza dei due pezzi da novanta che ho sfruttato per introdurlo, eppure rappresenta senza dubbio uno dei viaggi nel cuore degli USA della provincia profonda più interessanti e coinvolgenti delle ultime stagioni, un cane da battaglia pronto a mordere alla gola lo spettatore con il suo piglio senza fronzoli e legato ad una realtà che non deve avere molto dell'american dream, così come è raccontato anche in pellicole come Out of the furnace, Shotgun stories ed in una certa misura più autoriale nel recente Nebraska.
David Gordon Green, autore dello spassosissimo Strafumati - che è uno dei miei cult assoluti della Apatow generation, nonchè dei buddy movies da serata di sbronza senza ritegno -, pare aver ingranato la marcia in più che potrebbe portarlo tra i volti più interessanti del Cinema indie di confine statunitense, regalando a Nicholas Cage, divenuto negli ultimi tempi simbolo di quasi ovvie tamarrate di grana grossa uno dei ruoli più interessanti degli ultimi dieci anni di carriera che, tra le altre cose, l'attore veste come un guanto dall'inizio alla fine.
Per quanto scostante, iroso, minaccioso, senza dubbio imperfetto, uno come Joe lo si vorrebbe sempre dalla propria parte. Perchè Joe è come un cane, fedele alla sua Natura fino alla fine.
Ed in un certo senso, lo è anche Wade.
E troppo spesso e volentieri, si sa, i cani finiscono per essere decisamente migliori degli uomini.
A meno che non si sia uno come Joe, che "almeno per quanto mi riguarda, era davvero un brav'uomo".



MrFord



"Hey Joe, where you goin' with that gun in your hand?
Hey Joe, I said where you goin' with that gun in your hand?
Alright. I'm goin down to shoot my old lady,
you know I caught her messin' 'round with another man.
Yeah,! I'm goin' down to shoot my old lady,
you know I caught her messin' 'round with another man.
Huh! And that ain't too cool."
Jimi Hendrix - "Hey Joe" - 



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