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sabato 14 gennaio 2017

Imperium (Daniel Ragussis, USA, 2016, 109')




Fin dai primi tempi dell'apertura del Saloon, una delle cose più interessanti oltre al confronto con gli altri blogger ed i titoli emersi proprio grazie al popolo della rete, è risultata per il sottoscritto senza dubbio la "pesca" degli stessi, in particolar modo quelli ancora privi di una data di distribuzione in Italia: di norma ogni settimana, spesso senza neppure sapere, almeno inizialmente, di cosa si tratti, cerco di recuperare tutto quello che è stato sottotitolato e che, con ogni probabilità - specie se si tratta di produzioni lontane dal concetto di blockbuster o di autori molto noti -, non vedranno mai la luce nelle nostre sale.
Uno dei titoli in questo senso approcciati più di recente è stato questo Imperium, che aveva finito per colpirmi sia per l'argomento trattato - l'infiltrazione degli agenti federali nelle organizzazioni criminali è sempre un ambito interessante, per il sottoscritto - sia per un ruolo tutto sommato inedito portato in scena dall'ex Harry Potter - e dubito, purtroppo, per nulla aiutato anche dal fisico, che potrà mai scrollarsi di dosso questo pesante fardello - Daniel Radcliffe, pronto ad interpretare la talpa all'interno delle organizzazioni operanti nel sicuramente inquietante mondo dei gruppi inneggianti alla supremazia bianca.
Ovviamente non siamo certo di fronte al nuovo Donnie Brasco - in fase di scrittura si ha l'impressione che tutto sia troppo facile, ed è chiaro che, nonostante Radcliffe, Toni Colette ed un paio di nomi riconoscibili soprattutto dagli amanti del piccolo schermo, non si tratti di chissà quale produzione altisonante -, la vicenda è abbastanza lineare e telefonata - si capisce fin dalla sua prima apparizione chi sarà il "vero cattivo", anche se la chiusura lampo dell'indagine non giova alla tensione accumulata nella prima parte della pellicola - e l'impressione, nonostante sia tutto ispirato da fatti realmente accaduti, è che per il protagonista Nate sia davvero tanto, troppo facile infiltrarsi arrivando subito a piacere ai pezzi grossi senza per questo incontrare nessuna reale difficoltà, eppure la visione di questo Imperium scorre come deve scorrere ed intrattiene come deve intrattenere, suscitando a tratti anche una certa inquietudine a proposito di come devono sentirsi gli agenti che finiscono a ricoprire incarichi di questo genere, sottoposti ad un carico di tensione costante, al rischio per la propria incolumità ed all'influenza che la loro nuova "famiglia" potrebbe avere su di loro - e torno a citare Donnie Brasco, un vero e proprio caposaldo del genere -.
Da questo punto di vista è molto interessante il confronto finale tra Toni Colette e Daniel Radcliffe che giustifica la scelta dell'ufficiale in comando di optare per uno o per l'altro agente a seconda di quelle che sono le caratteristiche del gruppo e delle persone controllate e spiate: in questo senso, sfruttare un ex vittima di bullismo che possa, nonostante il QI molto alto ed un grande raziocinio, per empatizzare con molti estremisti rifugiatisi nello stesso estremismo proprio perchè vittime a loro volta è quantomeno interessante, e probabilmente, in mano a sceneggiatori ed un regista di altra caratura, in grado di confezionare prodotti di spessore ben superiore a quello di Imperium.
Ma poco importa: quello che conta è aver affrontato una visione a suo modo onesta e convincente, tesa e serrata il giusto, e pronta a fornire gli elementi base per una buona serata senza troppe pretese, ma non priva di spunti di riflessione.
Considerate quelle che sono le capacità effettive del fu Harry Potter, direi che è stata quasi una piccola magia.




MrFord




 

lunedì 12 maggio 2014

Enough said - Non dico altro

Regia: Nicole Holofcener
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 93'





La trama (con parole mie): Eva è una donna di mezza età divorziata ormai da dieci anni, con una figlia sul punto di lasciare casa per affrontare l'esperienza del college ed una vita scandita dal lavoro di massaggiatrice. Quando, ad una festa, conosce Albert, i due scoprono di avere molte cose in comune, dall'imminente partenza delle figlie al matrimonio fallito alle spalle: passo dopo passo, il loro rapporto comincia a funzionare, e ne nasce una storia che potrebbe significare un nuovo inizio per entrambi.
Quando, però, Eva scopre di avere tra le sue clienti l'ex moglie di Albert, comincia ad associare i racconti denigratori della donna al suo rapporto con lui, finendo per minare lo stesso alla base: riuscirà il legame a resistere agli echi del passato e ai difetti che ognuno si porta dietro in un rapporto di coppia?









Impegnarsi in una storia a lungo termine non è affatto una cosa da poco: occorre considerare di mettere sul piatto i propri difetti ed avere la pazienza di mescolarli con quelli dell'altra persona dal momento in cui il primo periodo, fatto di sesso, divertimento e sole cose positive lasci il posto ad una quotidianità che deve riuscire a rendere parte dei sentimenti che si provano anche gli aspetti che si detestano del proprio partner.
Per anni ho sempre avuto il terrore di questo tipo di confronti, e ricordo bene quando, ai tempi del liceo, vedevo i miei amici cominciare a scambiarsi regali con le fidanzate per il primo mese insieme ed io cercavo in tutti i modi di far naufragare le mie "relazioni" - se così si possono chiamare, a quell'età - prima che si arrivasse alla fatidica data, evitandomi cose imbarazzanti come i suddetti regali o un'uscita a due nel mondo esterno che non avevo affatto voglia di affrontare.
In questo senso, con l'età si tende sempre a crescere ed affrontare le cose in modo molto diverso, eppure non cambia la fatica - parlando a partire dal suo senso positivo, si intenda - che costa mantenere una relazione anche e soprattutto in barba a quelli che sono i difetti, le manie, i punti deboli che ognuno si porta dentro e che, come il Santo Bevitore della leggenda, per quanto possano chiedere perdono, difficilmente spariranno per sempre dalla nostra Natura.
Enough said, che avevo colpevolmente snobbato all'uscita in sala un paio di settimane or sono considerandolo, sulla carta, la più banale e già vista tra le proposte indie in stile Sundance, racconta con grande sincerità, ironia ed onestà emotiva ed intellettuale proprio questo aspetto delle relazioni tra "adulti", ammettendo che tutti noi si possa essere considerati tali quando di mezzo ci si mettono le affinità, il sesso o il cuore.
Nicole Holofcener, sfruttando una delle ultime interpretazioni di James Gandolfini ed un'ottima Julia Louis-Dreyfus, racconta in pieno stile Drinking buddies le vicende di due cinquantenni con alle spalle un matrimonio fallito alle prese con l'inizio e forse la fine di una relazione che potrebbe significare per entrambi un nuovo inizio, a partire dalle stimolanti ed eccitanti prime uscite - grazie alle quali il brivido rispetto a quello che potrebbe accadere non pare essere diverso da quello delle figlie adolescenti dei due, alle prese con i primi turbamenti sessuali - fino ai difetti e alle manie personali che escono passo dopo passo mettendo alla prova qualsiasi relazione, dalla più collaudata a quella destinata a fallire presto e volentieri: qualche anno fa, in occasione di uno di quei pranzi di famiglia che volentieri cercherei di evitare, conobbi i genitori ultraottantenni del compagno di una delle zie di Julez, che affermarono senza mezzi termini che il segreto di un rapporto pronto a durare una vita è basato principalmente sulla capacità di sopportarsi e perdonarsi a vicenda, prima ancora che sull'amore - comunque si voglia mettere quest'ultimo -.
Ora, nessuno avrà mai la verità assoluta in tasca, eppure ho sempre pensato che parte del fascino di una storia importante fosse l'attrattiva che principalmente i difetti - fisici o non - riescono ad esercitare, alimentando la curiosità o stimolando il confronto, anche quando lo stesso finisce per non essere propriamente positivo: l'importante è che, alla base di tutto, resti la volontà di costruire qualcosa, senza darlo per scontato o arrendersi, o sabotarlo più o meno indirettamente come Eva nel corso della pellicola o io stesso ai tempi delle superiori: per il resto, nessuno svelerà mai questo grande mistero con un colpo di genio o una trovata naif, ma è un piacere incrociare il cammino, a volte, di opere che riescono a toccare cuore, pancia e cervello come questa.
Enough said è stato come un'uscita cui non avrei dato un soldo bucato - o al massimo concesso le speranze della scopata di una notte - e che, al contrario, si è rivelata la base giusta per iniziare una storia.
Come poi andrà a finire la stessa, a nessuno è dato di saperlo.
Ma è bello e confortante pensare che sarà quella che sarà, con tutti i suoi pregi e, perchè no, tutti i suoi difetti.




MrFord




"I like the color of your hair,
I think we make a handsome pair.
I can only see my love growing
I like the way this is going."
Eels - "I like the way this is going." -




mercoledì 7 maggio 2014

C'era una volta un'estate

Regia: Nat Faxon, Jim Rash
Origine: USA
Anno: 2013
Durata:
103'





La trama (con parole mie): Duncan, timido quattordicenne pronto ad affacciarsi ai difficili anni dell'adolescenza, parte per le vacanze estive con la madre Pam ed il suo nuovo compagno, il decisamente poco paterno Trent accompagnato dalla decisamente poco simpatica figlia. Travolto da un ambiente in cui non si riconosce e che pare presagirgli un'estate da dimenticare, Duncan troverà la forza di crescere e muovere i suoi primi passi da quasi adulto grazie al legame che si costruirà con la figlia dei vicini Susanna e soprattutto con Owen, coetaneo di sua madre ed eterno bambino - o quasi - pronto a mostrare a Duncan un lato solo apparentemente spensierato che lo trasformerà nella figura paterna della quale il ragazzo aveva disperatamente bisogno.








Ci sono film che è davvero un piacere, incontrare.
E non importa che siano a loro modo piccoli, o raccontino storie che tutti noi ben conosciamo, e che dunque potrebbero risultare quasi già sentite, o non siano destinati, di fatto, a fare la Storia della Settima Arte.
Si incontrano, e finiscono per entrarti dentro.
Lo stile Sundance, negli anni, è riuscito a regalare al sottoscritto diverse di queste esperienze, da The station agent a Little Miss Sunshine, senza dimenticare Adventureland o Sideways.
C'era una volta un'estate entra dritto nel novero di questi gioiellini pane e salame pronti ad arrivare dritti al cuore con genuina semplicità, parlando come se conoscessero il pubblico anche nelle parti degli stessi costruite sui ricordi di chi li ha scritti, diretti o interpretati.
E proprio da questo dovrei partire, rintracciando nel lavoro dietro la macchina da presa di Faxon e Rash, nella sceneggiatura che pare uscita da un film di formazione adolescenziale anni ottanta e nel variegato ed ottimo cast - in particolare il sempre grande Sam Rockwell - tutti i motivi per i quali ho amato moltissimo questa visione, con tutti i suoi limiti: ma non lo farò.
In fondo, quando scrivo di un film preferisco sempre quando lo stesso riesce a toccare corde che mi permettono di divagare mettendo vita ed esperienza al servizio delle parole, piuttosto che farmi soffermare sugli argomenti tecnici analizzati per non chiudere il post dopo una manciata di righe: The way way back - decisamente più funzionale titolo originale - è uno di questi.
Osservando, infatti, l'evoluzione del rapporto tra Owen e Duncan, mi è parso di essere spettatore di un miracolo temporale, e di assistere, di fatto, all'incontro tra il Ford di oggi e quello di una ventina d'anni fa, timido ed incasinato come il protagonista di questo film, uscito in pompa magna da un Noi siamo infinito non così fortunato come quello mostrato dall'appena citato - e meraviglioso - film.
Potendo, infatti, tornare indietro ed avere la possibilità di un confronto con il mio io di allora, sfrutterei tutta la faccia da cazzo di oggi per stimolare il carattere e la voglia di vivere che, ai tempi, parevano sepolti sotto una tonnellata di insicurezze e di paure, ed al contempo penso che sarei stato grato al Destino se, allora, avesse posto sul mio cammino una figura di riferimento così importante, invece che lasciare che fosse solo l'esperienza sulla pelle a mostrare al sottoscritto come stavano le cose.
Dalla partita a Pac-Man, dunque, fino all'ultimo saluto, nel legame tra questi due protagonisti così diversi per età, approccio, stile e chi più ne ha, più ne metta, ho riscoperto una buona parte di me stesso, finendo per lasciare libero spazio ai sentimenti e alle sensazioni, più che all'occhio critico e all'analisi "dura e pura" del film, godendomelo davvero e come una liberatoria estate, di quelle destinate a cambiare la direzione della nostra vita - almeno nel loro piccolo e per un certo periodo -, ed in grado di trasformare episodi semplici ed apparentemente da nulla come il bacio dato ad una ragazza in qualcosa di unico, epocale, mitico.
Qualcosa che possa permettere a noi che lo stiamo vivendo di sentirci, almeno per una volta, "fuori scala", o ai Goonies per sempre della mia risma in gente "da dieci", perchè sempre e comunque anche al massimo delle nostre possibilità non riusciremo ad andare oltre il nove, che sia per volontà, per caso o semplicemente per aver combinato qualche casino.
Duncan e Owen, il primo a sognare di vivere eternamente in quel luogo ed in quel momento, ed il secondo a ricordargli quanto sia importante sognare e rompere le regole e quanto, d'altro canto, sia fondamentale tenere conto dell'inverno, quando luoghi da sogno e pronti a regalare magie per una vita diventano vuoti e quasi tristi.
Duncan e Owen, due versioni di me stesso incontratesi al di fuori del Tempo.
Ed in mezzo Steve Carell ed il suo insopportabile Trent, che è riuscito a regalarmi il momento migliore della visione di questo piacevolissimo e prezioso film: all'ennesima stronzata dispotica del compagno della madre di Duncan, mi sono rivolto al Fordino dicendo "se per caso papà dovesse un giorno dirti una cosa del genere, sei autorizzato a prenderlo a pugni".
Julez, d'istinto, ha incalzato: "Puoi prendere a pugni papà quando vuoi, ma lui non ti parlerà mai in questo modo".
Nonostante non abbia avuto un Owen a farmi da guida, posso dirmi orgoglioso della strada che mi ha portato fino a qui.
Estate dopo estate.



MrFord



"When I met you in the summer
to my heartbeat sound
we fell in love
as the leaves turned brown."
Calvin Harris - "Summer" - 




domenica 25 agosto 2013

United States of Tara - Stagione 3

Produzione: Showtime
Origine: USA
Anno: 2011
Episodi: 12




La trama (con parole mie): Tara e la sua famiglia, nonostante le difficoltà date dagli squilibri creati dagli alter ego della donna, paiono aver raggiunto un certo equilibrio. Mentre la stessa Tara, infatti, manifesta la volontà di tornare all'università studiando la psiche in modo da cercare di venire a capo della sua situazione, suo marito Max è deciso a riportare in vita la vecchia band dei tempi del liceo, la figlia maggiore Kate a trovare il suo posto nel mondo cominciando a viaggiare come hostess ed il minore, Marshall, continuando ad inseguire il sogno di diventare un regista.
Ma proprio quando le cose paiono cominciare ad andare per il verso giusto, una nuova personalità emerge dal lato più oscuro di Tara: si tratta dell'incarnazione del suo fratellastro Bryce, che abusò di lei quando erano ancora ragazzini.
L'arrivo dello scomodo personaggio darà il via ad una vera e propria guerra nella mente di Tara che coinvolgerà e sconvolgerà, come al solito, tutti i membri della famiglia.





Ricordo che, nel corso della visione della prima manciata di episodi di United States of Tara, non feci altro che sbellicarmi dalle risate ad ogni cambio di personalità registrato dall'insolita protagonista - la sempre bravissima Toni Colette -, di fatto considerando questa serie un esempio ottimamente riuscito di commedia alternativa in pieno stile Sundance, per dirla come se si trattasse di un film, illuminata dai dialoghi serrati della diabolica Diablo Cody.
Con il passare del tempo ed il progressivo ridursi della presenza della stessa sceneggiatrice - senza constatare un effettivo calo della qualità del prodotto -, però, le vicende di Tara e dei Gregson hanno assunto sempre più la connotazione della commedia nera a tratti mascherata da vero e proprio dramma, non più consumato soltanto all'interno della mente di questa donna dalle personalità multiple ma anche e soprattutto nella vita e nelle esistenze dei suoi cari, costretti loro malgrado a trovare un modo di interagire, dialogare, confrontarsi e scontrarsi con i vari Buck, Alice, T, Gimme e chi più ne ha, più ne metta.
Il risultato di questo crescendo drammatico è stato, soprattutto per quanto riguarda questa terza e conclusiva stagione della serie, spiazzante, tanto da necessitare di una manciata di episodi di ambientamento prima di riuscire a trovare la quadratura per un crescendo finale decisamente efficace cui è mancata, di fatto, soltanto una chiusura coinvolgente e tosta in modo tale da permettere a quest'ultima annata un salto deciso di qualità - qui in casa Ford è stato giustamente sollevato il dubbio, da parte di Julez, che non fosse prevista la chiusura della serie -.
Nonostante questo, comunque, il prodotto si è mantenuto su livelli più che discreti inserendo nel cocktail della psiche della sua protagonista una vera bomba ad orologeria come Bryce, alter ego completamente negativo, simbolo di un'adolescenza selvaggia e ribelle nella sua peggiore accezione - sono convinto che piacerebbe da impazzire al Cannibale - pronto a dare battaglia a tutti gli altri volti di Tara, completamente oscurati - nel bene e nel male - dallo stesso Bryce per tutta la seconda parte della stagione - e onestamente ho sentito molto la mancanza di quel vecchio tamarro redneck di Buck -.
Interessanti, inoltre, il rapporto tra la sorella di Tara, Charmaine, ed il padre di sua figlia Wheels - molto migliore dell'italiano Ruote -, il generoso e sempre presente Neil, le evoluzioni di Kate - passata dall'essere ragazza oggetto su internet a manifestare il desiderio di avere sue relazioni e suoi problemi da adulta - e di Marshall - che attraverso il Cinema cerca di venire a capo del mistero della sua famiglia e del rapporto tra i suoi genitori -, senza contare Max, solido compagno di Tara messo costantemente alla prova dai continui ribaltamenti di fronte offerti dagli "ospiti" della testa di sua moglie: l'assolo di chitarra liberatorio e malinconico che precede la partenza per Boston in chiusura di annata è uno dei momenti più toccanti di un personaggio dello stesso stampo del coach Taylor di Friday night lights, uno di quegli uomini all'antica e tutti d'un pezzo sempre intenti a non mostrare eventuali falle nelle loro armature di cavalieri pronti ad accorrere in aiuto di chi amano.
Sicuramente non saremo di fronte ad una delle pietre miliari assolute del piccolo schermo, eppure United States of Tara ha rappresentato, per gli occupanti del Saloon, un'ottima digressione indie nel mondo delle serie televisive, e doveste avere un pò di tempo da dedicare alle vicende di questa strampalata famiglia che gira attorno allo strampalato mondo della sua fragilissima eppure cazzuta matriarca sono sicuro che non ve ne pentireste.
Se non altro, avendo modo di conoscere un sacco di personaggi chiusi - più o meno adeguatamente - nella testa di uno soltanto.


MrFord


"All about that Personality Crisis
you got it while it was hot
but now frustration and heartache
is what you got."
New York Dolls - "Personality crisis" - 


martedì 7 agosto 2012

Little Miss Sunshine

Regia: Jonathan Dayton, Valerie Faris
Origine: Usa
Anno: 2006
Durata: 101'




La trama (con parole mie): Olive Hoover è una bambina appassionatasi ai concorsi di bellezza dopo un soggiorno dalle cugine, piccola protagonista di una famiglia a dir poco curiosa. Richard, suo padre, lavora ad un programma motivazionale in nove passi in cerca del successo, vessando la sua famiglia più di quanto sarà mai possibile con un pubblico. Sheryl, sua madre, sacrifica ogni giorno se stessa per tenere sulle spalle il peso delle responsabilità e di tutti loro. Il nonno, scopertosi eroinomane a settant'anni suonati, è il suo mentore per quanto riguarda la danza. Il fratellastro Dwayne, in silenzio da mesi a seguito di un voto pronunciato in nome di Nietszche e della carriera che vorrebbe come pilota d'aeronautica, odia il mondo. Lo zio Frank, invece, ha appena tentato il suicidio perchè privato del titolo di migliore studioso statunitense di Proust dal rivale letterario che gli ha portato via l'uomo della sua vita.
Insieme partono alla volta della California per il concorso di Little Miss Sunshine.
Sarà il viaggio più incredibile delle loro vite.





Ci sono film che ho da sempre considerato oggettivamente Capolavori.
Ed altri che, a prescindere dal loro valore artistico ed effettivo, sono andati oltre lo schermo e divenuti parte integrante della mia vita: Gli spietati, Il grande Lebowski, Barry Lyndon, Hong Kong Express e, ovviamente, Little Miss Sunshine.
Potrei, in effetti, mettendomi la maschera del blogger recensore, parlare di un film Sundance style privo della spocchia dell'autorialità e costruito sulla sincerità di ogni suo personaggio, diretto con tocco leggero ed interpretato alla grande da un cast a dir poco perfetto - a cominciare dalla fenomenale mini-protagonista Abigail Breslin -, scritto magnificamente in modo da raggiungere ogni possibile fetta di pubblico - e non in senso negativo o buonista -.
Ma sinceramente, non mi frega nulla.
Mi piace invece ricordare il periodo in cui uscì in sala, nel pieno del mio anno più selvaggio e di perdizione, quando lo vidi per la prima volta sul finire dell'inverno, con un desiderio di primavera che quasi mi sfondava il cuore, rimanendo folgorato da quella piccola, paffuta bambina all'inseguimento di un sogno: onestamente, ho sempre pensato e sognato di essere padre, un giorno o l'altro, e questa pellicola è stata la prima - paradossalmente in un momento della mia vita in cui andavo in una direzione a dir poco opposta - a farmi capire che un giorno ce l'avrei fatta.
In quel periodo - forse il migliore degli ultimi anni, lavorativamente parlando - conobbi Julez, e da grandi amici quali diventammo da subito, le propinai ovviamente Little Miss Sunshine, divenuto un cult istantaneo in casa Ford, e giungemmo alla conclusione che, se nessuno ci si fosse presi, un giorno o l'altro ci saremmo regalati l'un l'altra una piccola Olive da crescere.
Guardando le cose con il senno di poi, ho dunque qualche motivo in più per amare un film meraviglioso come questo.
Ogni volta che me lo concedo, mi pare quasi di osservare una parte di specchio in ognuno dei personaggi: di vedere la determinazione di Richard - pur se male espressa -, la forza di Sheryl - magnifico il suo confronto con il marito da una parte all'altra dell'abitacolo del mitico furgone Volkswagen giallo -, la voglia di insegnare di Frank - come giustamente affermano i registi, il vero ponte tra il pubblico ed i protagonisti -, la volontà e la rabbia di Dwayne - che sarebbe un perfetto bottigliatore -, me stesso da vecchio - con l'alcool a sostituire l'eroina - nel nonno, un fordiano fatto e finito.
E poi, Olive.
Olive che sogna in un mondo di bambine rese mostruose dalla filosofia dei concorsi di bellezza fatti di trucchi, abbronzature e denti finti, di stupire con un ballo elaborato dal geniale grandpa la giuria di una gara che non potrebbe essere più distante da lei, dalla sua bellezza e dalla sua genuina semplicità.
Olive che non vede l'ora di mangiare le sue cialde "a la mode", che tiene le cuffie nel corso del viaggio per imparare il numero al meglio, che chiede al nonno se è una perdente perchè suo padre odia i perdenti, in una delle sequenze più potenti che il Cinema indipendente americano abbia regalato al pubblico negli ultimi dieci anni.
Olive che, con passo incerto, scende una collinetta per "andare a parlare" al fratello "muto" così da consolarlo dal trauma di una scoperta che lo porterà lontano dal suo sogno.
Olive che non dice nulla, e lo abbraccia soltanto.
E non c'è bisogno di più.
Perchè chiunque fosse stato seduto al posto di Dwayne non avrebbe avuto possibilità di rispondere altro se non "va bene".
Olive che balla. E non sarà mai sola.
Non dico nulla, perchè non ce n'è bisogno.
Basta lasciarsi travolgere da ogni singolo momento di questa piccola meraviglia.
E rimanere a bocca aperta, e sognare, con tutte le imperfezioni possibili, che un giorno la propria famiglia possa stare su un palco allo stesso modo degli Hoover.
E se mi immagino arrabbiato, spesso e volentieri ubriaco, guardingo e selvaggio come allora, seduto sul ciglio di una strada, so che non avrei armi sentendo avvicinarsi Olive, con il suo braccio attorno alla mia spalla e la testa appena appoggiata.
E so anche cosa le direi.
"Va bene, Olive. Sono pronto a diventare padre."


Tutto questo, oltre che per parlare di un film, anche per raccontare della vita che si mescola alle immagini e alle parole.
Tutto questo per dirvi, con tutta la felicità possibile, che tra qualche mese ci sarà un altro - o un'altra - Ford in giro in questo strano, grande mondo.


MrFord


"That girl is pretty wild now 
the girl's a super freak 
the kind of girl you read about 
in new-wave magazine 
that girl is pretty kinky 
the girl's a super freak
I really love to taste her 
every time we meet 
she's all right, she's all right 
that girl's all right with me, yeah 
she's a super freak, super freak."
Rick James - "Superfreak" -


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