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lunedì 19 marzo 2018

Jumanji - Benvenuti nella giungla (Jake Kasdan, USA, 2017, 119')




Penso che chiunque sia stato adolescente o pre adolescente negli anni novanta conosca Jumanji, popcorn movie ludico che divenne, grazie anche al compianto Robin Williams, un piccolo cult generazionale: alla notizia di un recupero del brand in una sorta di reboot, ammetto che l'unica cosa in grado di tenere a galla le speranze per qualcosa che non si rivelasse uno spreco di tempo e di energie degli spettatori risultò essere Dwayne Johnson, al secolo The Rock, ex wrestler ormai lanciatissimo attore che da sempre è considerato uno dei fordiani più fordiani che si potrebbero incrociare al Saloon.
Lui e l'entusiasmo di Julez, che non vedeva l'ora di cimentarsi nella visione.
Pur se con colpevole ritardo rispetto all'uscita in sala - inaugurò il nuovo anno lo scorso primo gennaio -, era dunque un dovere per gli occupanti del Saloon affrontare la visione sperando in leggerezza, divertimento, neuroni in vacanza e via discorrendo: ebbene, il Jumanji versione millenial di Jake Kasdan ha rispettato in tutto e per tutto le attese, rivelandosi godurioso, divertente e senza pretese come un film anni ottanta conscio del tempo che è trascorso e pronto ad ironizzare sulle differenze evidenti che passano dai tempi della mia infanzia a quella di chi è nato e cresce nel Nuovo Millennio.
Senza darsi arie o alcuna pretesa, gli autori azzeccano un'idea dopo l'altra, dall'adattamento a videogame del Jumanji versione gioco da tavolo al ribaltamento dei ruoli dato dalla scelta dei personaggi, ben resi dai protagonisti pronti a prendersi in giro vestendo panni inconsueti - almeno al principio -, dal già citato Dwayne Johnson a Jack Black e Kevin Hart: in questo modo l'audience, che si tratti di vecchi nostalgici o di nuove leve, trova tutti gli elementi necessari per godersi una serata in gran scioltezza in grado di unire spiriti di epoche diverse prendendo il meglio da entrambe, forse non brillando per originalità di svolgimento - è ovvio fin dall'inizio che non si assisterà a colpi di scena inaspettati, e con il crescendo finale si perde una fetta della freschezza della prima parte di pellicola - ma affrontando le prove una dopo l'altra senza paura e con tutto l'entusiasmo di chi ha voglia di raccontare e vivere una storia, piuttosto che di proporla come fosse un compitino svolto per gonfiare il portafoglio dei produttori.
Questo Jumanji - Benvenuti nella giungla, dunque, un pò come fu qualche tempo fa per Piccoli brividi, riesce nella non facile impresa di portare l'innocenza che regnava sovrana all'interno delle proposte d'avventura dei tempi in cui ero bambino nel panorama attuale senza che questo possa far apparire il tutto come un'operazione nostalgia o una ruffianata, incontrando al contempo il gusto di chi visse i tempi dei controller con il cavo e le "cassette" e chi, oggi, non concepisce un'esistenza senza internet o lo smartphone, buttando nel calderone riflessioni divertenti ed interessanti a proposito del rapporto con se stessi ed il proprio aspetto ed elementi esotici come ambientazioni da Indiana Jones e animali a profusione - sono sicuro che, dovessi far vedere questo film al Fordino, potrebbe impazzire grazie a coccodrilli, ippopotami, rinoceronti e giaguari, in barba a tutte le sfumature che, per età, ancora non afferrerebbe -.
Un'operazione, dunque, promossa su tutta la linea, in grado di alimentare la voglia di spassarsela a qualsiasi età, e cogliere lo spirito di quelli che, ai tempi, erano i giochi da tavolo - o di ruolo -, e che ora sono i videogames e, in una certa misura, i social: in fondo, proiettare un'immagine ideale di se stessi - o forse, non così ideale - a volte aiuta a comprendere meglio quello che ci portiamo dentro.
E affrontare la bestia, in un certo senso, è un pò come guardare oltre l'immagine che osserviamo ogni giorno allo specchio, prima di uscire di casa ed avventurarci nella giungla.




MrFord




venerdì 12 dicembre 2014

Chef - La ricetta perfetta

Regia: Jon Favreau
Origine: USA
Anno:
2014
Durata: 114'





La trama (con parole mie): Carl Casper è un ex fenomeno della cucina da tempo accasatosi in un rinomato ristorante di Los Angeles ed in cerca di sfide e nuovi orizzonti. Quando un blogger e critico culinario critica aspramente il suo approccio conservatore, inizia per lui un viaggio che lo porta a tornare al punto di partenza della sua carriera, Miami, accanto all'ex moglie ed al figlio, con il quale non è mai riuscito a costruire davvero un rapporto.
La scelta di ricominciare grazie ad un food-truck percorrendo la strada che separa le due coste degli States rimetterà in gioco la sua passione per i fornelli, la volontà di mettere le basi per una nuova storia d'amore ed un rinnovato legame con il piccolo Percy: riuscirà Carl a mettere insieme gli ingredienti migliori per la sua nuova ricetta?
O la scommessa legata al ripartire dal basso scriverà la parola fine sulla sua carriera?








Personalmente, sono più legato all'atto del mangiare, che non a quello del cucinare.
Del resto, sono un predatore ingordo e dedito ai piaceri, spesso egoista e decisamente travolto dalle passioni: ho sempre pensato, al contrario, che la cucina fosse un'arte perfetta per le persone in qualche modo generose, intellettualmente o emotivamente.
Ho deciso di recuperare Chef su consiglio di una persona che ritengo se non generosa, quantomeno più in grado del sottoscritto di concepire il pensiero di qualcosa fatto per gli altri, e nel corso della visione ho avuto in mente Julez, che senza dubbio è l'essere umano più generoso che conosca - anche nei suoi difetti -, e dedicarmi a questa stessa visione è stato un vero e proprio piacere quasi fisico.
Osservare il percorso di Carl/Favreau - bravissimo nel dirigere, scrivere ed interpretare un charachter costruito con ogni probabilità sul suo stesso essere - attraverso l'arte culinaria - che è il suo terreno congeniale - e le peripezie in famiglia - decisamente più ostiche, ma non per questo meno soddisfacenti di una ricetta elaborata e ben riuscita - è stato un piacere in grado non solo di alimentare il bisogno di un film indie dal sapore decisamente Sundance, ma anche e soprattutto di una necessità fisica, legata al piacere di mangiare, ed osservare chi segue ispirazione ed istinto affinchè sia soddisfatta una delle voglie più antiche e primordiali di noi esseri umani: l'appetito.
Un appetito che non si contenta del riempire la pancia, ma che si concede perfino il lusso di scegliere la direzione da prendere non solo da parte del pubblico, ma dalla stessa direzione: Chef è senza dubbio un film dalle concessioni generose, per quanto, di fatto, prodotto di nicchia, eppure in grado di alimentare l'acquolina in chi si trova dall'altro lato della macchina da presa.
Favreau, sfruttando un cast d'eccezione per un titolo che dovrebbe essere una sorta di outsider semisconosciuto, riesce nella non facile impresa di dimenticarsi delle sue origini hollywoodiane e confezionare ad un tempo un prodotto onesto e piacevole, ritmato da una colonna sonora splendida e soprattutto pane e salame nell'affrontare tematiche che finiscono per essere note anche a chi non è avvezzo al successo ed al dorato mondo della cucina alternativa d'alto bordo.
Attraversando gli States più caldi e favoriti dal sottoscritto - e l'ideale linea Miami/New Orleans/Los Angeles - il main charachter tocca tematiche importanti come il riscatto, l'amicizia - splendido il rapporto tra Carl ed il suo vice interpretato da John Leguizamo - ed il legame unico che si crea, rinnova e costruisce tra padre e figlio, basato anche e soprattutto sul confronto, in grado di far crescere da entrambi i lati della barricata senza distinzione alcuna, esperienza da un lato ed energia dall'altro.
La cucina, di fatto una scusa legata, probabilmente, ad una delle attività collaterali dello stesso protagonista/sceneggiatore/regista, troppo abile con il coltello e tra i fornelli per essere soltanto un attore, rappresenta un punto di partenza per l'esplorazione dell'evoluzione di un uomo adulto trovatosi a mettere in gioco un ruolo lavorativo ma non solo nel nome non tanto di critiche piovute dall'esterno - quasi divertente la riflessione rispetto ai criticoni cresciuti nella blogosfera - ma della volontà di costruire qualcosa che vada ben oltre a quello che ci si potrebbe aspettare o alle crisi di mezza età imputabili per svariati motivi agli esponenti di sesso maschile - ottima l'idea di lasciare solo accennata la storia con la collaboratrice interpretata dalla Johansson, conquistata proprio con un piatto -.
Chef - e non voglio neppure pronunciarmi rispetto al pessimo adattamento italiano - è uno degli esperimenti più riusciti dell'anno per quanto riguarda l'alternativismo a stelle e strisce positivo, privo delle influenze che l'elitarietà cinematografica a volte induce nei suoi artisti più promettenti: ed è assolutamente interessante osservare l'uomo dietro la macchina da presa di Iron Man concentrarsi su un progetto low budget tenuto in piedi da favori chiesti agli amici - a tutti i livelli della settima arte - eppure in grado di regalare l'impressione che tutto avrebbe funzionato anche senza spinte, come un panino ben farcito e preparato con il piglio che si richiede ad un food-truck che si rispetti.
E qui al Saloon va bene così.
Pane, carne, il giusto condimento e quei momenti unici alla fine della serata, in bilico tra un drink e un sigaro.
Dove si andrà domani, chissà. Anche quando apparirà una concessione.
Nel frattempo, ce la saremo goduta davvero.




MrFord




"Ooh, now let's get down tonight
baby I'm hot just like an oven
I need some lovin'
and baby, I can't hold it much longer
it's getting stronger and stronger
and when I get that feeling
I want sexual healing."
Marvin Gaye - "Sexual healing" - 





lunedì 20 gennaio 2014

Blue Jasmine

Regia: Woody Allen
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 98'




La trama (con parole mie): Jasmine, abituata ad una vita di agio estremo, ricchezza ed opulenza nel cuore di New York, caduta in disgrazia dopo l'arresto del marito per frode fiscale ed illeciti finanziari, decide di volare dalla sorella Ginger a San Francisco per stabilirsi da lei e ricominciare a vivere.
La convivenza con la stessa e la sua famiglia, però, non sarà semplice, così come confrontarsi con il lavoro, gli uomini, l'insorgere continuo di un crollo nervoso in grado di dissociarla dalla realtà trasportandola nel passato, ai tempi del benessere e della storia d'amore con Hal: quando un incontro casuale finisce per rimettere la donna in gioco, il passato torna a galla rivelando il segreto più amaro sulla fine del suo matrimonio e della vita d'alto bordo di New York.




Woody Allen è decisamente un tipo strano: se c'è una cosa che non ho mai davvero capito della sua carriera è l'esigenza del regista newyorkese di produrre sempre e comunque almeno una pellicola all'anno, anche a dispetto di un'ispirazione che, con il passare del tempo, ha finito per non essere più quella del grande spolvero degli esordi: così, nelle ultime quindici stagioni - più o meno - abbiamo assistito a spettacoli decisamente all'altezza dei suoi anni migliori - Match point e Midnight in Paris - ed altri talmente lontani dal vero Allen da lasciare sconvolti per la loro pochezza - Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni, To Rome with love -. 
Quest'ultimo Blue Jasmine, venuto dopo il disastro "all'italiana" dello scorso anno, pareva essere dipinto come uno dei Woody che vale la pena di vedere davvero, accolto più che discretamente dalla critica e da molti colleghi qui nella blogosfera: visione sedimentata e alle spalle devo dire che, senza dubbio, le vicende della scombinata Jasmine rappresentano uno degli script più interessanti dell'ultimo periodo del loro autore, e vengono narrate con la consueta perizia ed una serie di interpretazioni davvero splendide - la Blanchett supera se stessa, ma la Hawkins non è da meno -, finendo per portare a casa un risultato più che discreto, seppure non abbastanza convincente da indurre a pensare di essersi trovati di fronte ad uno dei "must see" del vecchio Woody.
Non voglio però sminuire un film senza dubbio in grado di lasciare un segno - soprattutto emotivo - negli spettatori, che è stato un piacere - seppure amaro - seguire e che mi ha ricordato i tempi in cui Allen si dedicò all'esplorazione dell'universo femminile negli ormai lontani anni ottanta: la sua Jasmine, fragile e dirompente, bisognosa di protezione e profondamente irritante, è uno dei charachters più tridimensionali di questo inizio anno, e con la sorella Ginger finisce per formare un duo magnetico quanto di fatto spaiato, una riflessione coraggiosa, in parte cattiva ed in parte tenera sull'amore e le relazioni, oltre che una critica neppure troppo velata alla lotta di classe e alle prospettive differenti di chi vive sopra - o sotto - una certa linea.
Se, dunque, da un lato troviamo Jasmine, il marito Hal - che affianca felicemente la beneficenza alle frodi fiscali -, il nuovo amore Dwight, tutti intenti a sfoggiare interi set di valigie di lusso, o a parlare di ristrutturazioni d'interni in ville che si affacciano sulla baia, dall'altra parte abbiamo Ginger, l'ex marito Augie - finito senza un soldo per aver lasciato i suoi risparmi ad Hal per un ipotetico e sicuro investimento -, l'irruento Chili e Danny, figliastro di Jasmine schifato dalle ombre che si celano dietro i party ed il mondo dorato della ricchezza.
Ma attenzione, però: perchè la riflessione di Allen non è una critica a senso unico rispetto ai ricchi brutti e cattivi, e anche dall'altra parte della barricata assistiamo a tradimenti, drammi, cadute rovinose e faticose ripartenze: la morale - se poi ce n'è una, nel campo di battaglia che è l'amore - è che difficilmente, quando si lotta e ci sono di mezzo i sentimenti, si finisce per uscirne tutti interi.
Specie quando si costruisce attorno alla vita un castello di carte un pò troppo grande per le nostre fragilità.
E se Ginger e Chili, nella loro semplicità, riescono a riprendersi e sostenersi l'un l'altra, a Jasmine non resta che il confronto - certo non piacevole - con se stessa.


MrFord


"You're beggin' me to go, you're makin' me stay
Why do you hurt me so bad?
It would help me to know
Do I stand in your way, or am I the best thing you've had?
Believe me, believe me, I can't tell you why
But I'm trapped by your love, and I'm chained to your side."
Pat Benatar - "Love is a battlefield" - 



domenica 16 giugno 2013

Parker

Regia: Taylor Hackford
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 118'




La trama (con parole mie): Parker è un ladro di professione, specialista in operazioni rapide e pulite, rapine che possano fruttare il massimo con il minimo rischio possibile.
Quando il padre della sua ragazza nonchè suo ex socio lo mette in contatto con il gruppo capitanato dal duro Melander e viene pianificato un colpo in una grande fiera in Ohio, per l'uomo le cose prendono una piega inaspettata: la rapina, infatti, viene portata a termine, ma gli uomini dello stesso Melander hanno in mente di reinvestire l'intera cifra per un altro progetto che prevede una più remunerativa operazione a Palm Springs, paradiso per ricchi della Florida.
Parker non ci sta, e per questo viene "licenziato" e dato per morto.
Ovviamente il Nostro è destinato a sopravvivere, e neanche il tempo di riprendersi ed il suo scopo principale diverrà quello di mettere i bastoni tra le ruote alla banda che l'ha fregato, nonchè vendicarsi del torto subito.





Ricordo di aver recuperato Parker praticamente per caso, attratto più dalla presenza di Statham nel ruolo di protagonista che non dalla regia di Taylor Hackford, mestierante hollywoodiano di indubbia capacità autore, tra le altre, di ottime pellicole come L'ultima eclissi così come di blockbuster nello stile di Ray, L'avvocato del diavolo e Ufficiale e gentiluomo, nella speranza di ritrovarmi di fronte una sorta di tamarrata d'autore che potesse tornare utile alla prima serata da stanchezza e rutto libero disponibile.
Al contrario, invece, il risultato di questa visione è stato uno di quegli ibridi senza carattere impossibili da catalogare da una parte o dall'altra, partito come una sorta di omaggio a Rapina a mano armata di Kubrick - e se io fossi un regista, non mi imbarcherei mai e poi mai in qualcosa che possa in qualche modo mettermi a confronto con il Maestro - ed incanalatosi nei rassicuranti binari del thriller d'azione per famiglie incapace di appassionare pur se ben confezionato, totalmente privo di un cuore in grado di coinvolgere l'audience come si dovrebbe in questi casi: tutto questo nonostante la presenza nel cast di uno degli spaccaculi più tosti del Cinema action attuale, quel Jason Statham che appare come unico e credibile nuovo volto del genere in grado di raccogliere l'eredità di miti degli anni ottanta come Stallone, Schwarzenegger e Willis, e che avrebbe potuto regalare un pò di ironia ad una pellicola decisamente troppo seriosa per il target cui potrebbe essere indirizzata.
Per il resto le cose funzionano anche - in fondo Hackford sa come muoversi, dietro la macchina da presa -, Michael Chiklis, ancora in cerca di un'identità dopo la conclusione di The Shield, è un ottimo bad guy, la vicenda pare un incrocio fra l'heist movie e la missione di vendetta del classico antieroe positivo, e perfino Jennifer Lopez pare non stonare troppo, compreso il suo curioso - per quanto molto poco verosimile - rapporto con il nostro Expendable: eppure il risultato finale non convince, e scivola via senza lasciare davvero il segno neppure nelle sequenze più interessanti - lo scontro con il killer nella stanza d'albergo su tutte -, senza acuti che possano essere ricordati o una tensione che valga davvero il coinvolgimento del pubblico, considerato anche che il minutaggio non aiuta una visione resa stopposa da un approccio decisamente troppo autoriale, se così possiamo definirlo.
Perfino vecchie glorie come Nick Nolte appaiono decisamente poco ispirate, e lo stesso Statham, soffocato da travestimenti e piani da tavolino, risulta molto frenato rispetto alla sua esplosività fisica e alla componente comedy che, se stimolata, riesce sempre ad emergere quando in campo scende il duro inglese: una visione non dannosa o inesorabilmente legata alle peggiori tempeste di bottigliate, eppure nettamente inferiore alle aspettative che qui al Saloon si potevano nutrire in merito, buona giusto per qualche sparatoria o cazzotto ben assestato ma troppo poco divertita e divertente per essere una degna proposta trash e tamarra ed altrettanto esile e priva di carattere per proporsi come un titolo prettamente d'autore, seppur inserito in un ambito cinematografico votato al panesalamismo.


MrFord


"Stop your stalling,
and just give me more than you should,
before we're all in
the same mess I knew we would;
I will not call you,
'cos I know he'll answer the phone;
there's something stunning
about the way we lie till it's gone."
Snow Patrol - "Steal" -




domenica 26 febbraio 2012

Cold Case - Stagione 6

Produzione: CBS
Origine: Usa
Anno: 2009
Episodi: 23



La trama (con parole mie): siamo di nuovo alla omicidi di Philadelphia, in compagnia della squadra che si occupa dei casi irrisolti avvenuti nella "città dell'amore fraterno" dagli anni sessanta ad oggi.
A fare da parallelo alla consueta struttura da "un caso a puntata" nel corso di questa penultima stagione gli autori si sbilanciano cercando di indagare più approfonditamente sui protagonisti, dalla relazione di Scotty con la giovane esperta della scientifica Frankie alla ricerca di una nuova casa di Nick Vera, passando attraverso il tentato omicidio di Will Jeffries e la riscoperta del rapporto con il padre di Lily Rush.
Un tentativo non sempre riuscito per dare una scossa ad una serie ormai stanca.





Come ormai tutti i frequentatori abituali del saloon ben sanno, in casa Ford le serie con i morti ammazzati di mezzo - eccetto la fighetta e da noi cordialmente detestata C.S.I. in tutte le sue incarnazioni - trovano sempre terreno fertile, mettendo d'accordo il mio gusto maggiormente legato ai prodotti più realistici - I Soprano, The shield, Californication, Breaking bad, Sons of anarchy - e quello di Julez, che è di norma più attratta da titoli in grado, al contrario, di far evadere dalla quotidianità il più possibile.
Insieme a Criminal minds, Cold case è stata una delle prime serie che abbiamo iniziato a seguire consci del fatto che avrebbe trovato il compromesso giusto tra i nostri differenti approcci, divenendo di fatto una delle mascotte di casa Ford e facendo la sua regolare comparsata nei periodi di stacco da altri titoli più "forti", intrattenendoci come si conviene in attesa dei serial più attesi - in questo caso, delle seconde annate del già citato Breaking bad e del magnifico Friday night lights, prossimamente su questi schermi -: con questa sesta stagione, però, comincia a divenire evidente la stanchezza della formula e degli autori, nonostante alcuni tentativi di dare profondità e spessore ai protagonisti inserendo elementi prima sostanzialmente ignorati a proposito delle loro vite private, e, pur mancando per il momento all'appello la settima e conclusiva annata la chiusura della serie pare più che giusta.
Gli episodi - così come le colonne sonore degli stessi, piatto forte della serie soprattutto nei suoi primi anni - cominciano a diventare prevedibili e poco interessanti a meno che il coinvolgimento dei membri della squadra non divenga personale, riportando in quel caso la qualità del prodotto agli standard più alti del passato: in particolare, la puntata dedicata al tentato omicidio di Jeffries e la doppia in chiusura di stagione in cui si apre uno squarcio sul passato di Lily sono risultate le più efficaci, nonchè le uniche - o quasi - ad allontanarsi dalla consueta struttura da fumetto seriale in cui i protagonisti sono sempre uguali a se stessi e tutto quello che accade inizia e finisce nei quaranta minuti canonici senza alcuna ripercussione sul resto della storia.
D'altra parte alcune potenziali sottotrame interessanti vengono accantonate in maniera decisamente frettolosa o - peggio - ingiustificata, come la storia di Rush con l'agente della narcotici Saccardo - interpretato da Bobby Cannavale e sparito come nulla fosse da un episodio all'altro - o quella di Scotty con la giovane Frankie, portata avanti praticamente come riempitivo nei momenti di stanca di questa o quella puntata.
Certo, il risultato è comunque piacevole, il prodotto è confezionato discretamente e si lascia guardare senza fatica, ma forse, considerato l'avvicinarsi della fine del suo percorso televisivo, sarebbe stato più giusto nei confronti di un titolo comunque nel suo genere importante che gli autori si fossero impegnati maggiormente per regalare al pubblico un crescendo da cardiopalma, in modo da lasciare un ricordo davvero importante.
Staremo a vedere, dunque, con l'ultima stagione: intanto cresce un certo rimpianto per un titolo adagiatosi neanche fosse la metà stanca di una vecchia coppia.


MrFord


"You've got time, you've got time to escape
there's still time, it's no crime to escape
it's no crime to escape, it's no crime to escape
there's still time, so escape
it's no crime, crime."
Pearl Jam - "All thos yesterdays" -


 
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