lunedì 12 aprile 2010

Katyn

Gli avvenimenti che scuotono la Polonia in questi giorni mi hanno riportato alla mente una delle pellicole che più mi ha sconvolto negli ultimi mesi, di quelle che ti lasciano così secco che, appena terminate, o si chiudono in un baule e si gettano nell'oceano sperando di non ritrovarle mai più, o diventano immediatamente un riferimento.
Direi che, nel mio caso, riguardo a Katyn, è stata clamorosamente ed esplosivamente la seconda.
E' clamoroso quanto, almeno nel percorso pre universitario, questo avvenimento storico - di importanza fondamentale - passi quasi sotto (colpevole) silenzio: ma non sono qui a spiegare la vicenda che portò alla morte quasi ventiduemila polacchi per mano dell'esercito russo, o gli squallidi retroscena che videro l'armata rossa accusare i nazisti prima di ammettere una colpa che le famiglie degli scomparsi ed assassinati attesero per anni.
Sono qui per cercare di trasmettere quanto Wajda ha messo in questo film folgorante, che parte come una testimonianza storica per divenire un macigno scagliato contro i silenzi, le uccisioni, le ingiustizie e tutto quello che sprigiona una guerra.
Il potere del cane, direbbe Winslow.
Il contrario di Lebanon, direi io.
Wajda, che perse il padre nell'eccidio del settembre 1939, dirige con una freddezza glaciale le vicende che si intrecciano, come un triste mosaico, attorno al massacro, concentrandosi più sui congiunti degli assassinati che sugli assassinati stessi, mostrando quanto l'attesa e la speranza possano logorare il cuore di quelle che, a loro volta e in misura anche maggiore, divengono vittime ulteriori, pur se non esplicitamente "fisiche", di un atto terribile e smisuratamente agghiacciante.
Non c'è spazio per l'amore o la rivincita, nel racconto gelido di Wajda, ed inevitabilmente i destini di chi (non) ha visto morire il proprio marito, o figlio, o fratello, vengono da quelle stesse morti condizionati, colpiti, segnati per sempre.
Come un epitaffio per una lapide che non si vuole mostrare. Perchè è la prova di un peccato cui nessuno ha posto rimedio.
Come la voce di un giovane zittito per strada, ammazzato, schiacciato, e della sua novella innamorata che penserà di essere stata abbandonata.
Tutto scorre, inevitabile e spietato. Prima della conclusione.
Perchè Wajda decide, proprio quando meno ce lo si potrebbe aspettare, di mostrare la sua visione del massacro. E lo fa nel modo più terribile e diretto.
Quasi avesse tenuto dentro tutto lo sdegno e la rabbia per quegli atti disumani, quasi volesse gridare con tutto il fiato possibile che quelle vittime hanno nomi e cognomi, così come i loro assassini.
Che quella lapide esiste, ed esisterà per sempre.
Che quella voce non può essere zittita. Che quella ragazza non sarà abbandonata.
Che la foresta di Katyn ha alberi cresciuti nel sangue.

"Mama said the pistol is the devil's right hand."
MrFord

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