Settimana ai minimi storici al Saloon, considerati gli impegni sociali - non ricordavo quanto fossero fisicamente devastanti i matrimoni -, la palestra, l'appuntamento mensile con il pay per view di wrestling, la clamorosa stanchezza che si accumula per poi esplodere come una bomba il venerdì sera, ormai noto per essere l'alimentatore del coma profondo da divano: solo un titolo, infatti, è passato su questi schermi, di quelli che in questi giorni hanno fatto il giro del web principalmente per l'opera incredibile dalla quale è stato originato.
MrFord
EL CAMINO: IL FILM DI BREAKING BAD (Vince Gilligan, USA, 2019, 122')
Breaking Bad è, parlando di piccolo schermo, una delle vette più alte che siano state mai raggiunte, nonchè una delle mie tre serie televisive preferite di tutti i tempi insieme a Lost e Twin Peaks.
Il lavoro che fece Vince Gilligan con Walter White e Jesse Pinkman resta ancora oggi insuperato anche e soprattutto per essere andato in crescendo, senza perdere un colpo ed aggiungendo anzi carichi sempre più importanti fino allo splendido finale.
A distanza di qualche anno e già da prima della sua "pubblicazione" chiacchierato in tutta la rete attraverso Netflix El Camino, vero e proprio film che riprende le fila a partire dagli ultimi episodi della serie per poi rivelarci cosa ne è stato di Pinkman, e dove lo porterà il futuro.
Il fan service è molto - anche se resta un'arma a doppio taglio -, la fotografia ottima, la scrittura ben strutturata - del resto Gilligan ha ampiamente dimostrato di essere uno sceneggiatore fenomenale -, la tensione a tratti in grado di bucare lo schermo - strepitosa la sequenza del "duello" in pieno stile western -: resta, come principale limite di questo lavoro, il fatto che a meno che non si sia finito ieri di guardare l'ultimo episodio dell'ultima stagione si rischia di restare spiazzati da situazioni e charachters che, nel frattempo, si erano dimenticati o quantomeno messi in secondo piano, tanto da dover correre ai ripari ricorrendo a riassunti e simili.
Da questo punto di vista, El Camino resta una pellicola ben realizzata ad uso e consumo dei soli fan di Breaking Bad più che dello spettatore occasionale - che probabilmente non capirebbe una beata mazza di molti degli scambi temporali di narrazione -, e che proprio per questo permette che il dubbio si potesse fare decisamente di più si faccia strada come, ai bei tempi, gli improbabili soci Walter White e Jesse Pinkman nel mondo del traffico della metanfetamina.
La trama (con parole mie): il volo Oceanic 815, diretto da Sidney a Los Angeles, perde la rotta nel pieno del Pacifico e precipita su una misteriosa isola in una posizione imprecisata. I sopravvissuti si ritrovano a dover lottare non soltanto con la loro nuova condizione di esuli, ma anche con minacce apparentemente inspiegabili che paiono in qualche modo avere avuto un ruolo nel loro stesso passato, come se il presente di "naufraghi" fosse il culmine di un Destino già definito.
Così il medico Jack Shepard, i criminali Kate Austen e James "Sawyer" Ford, il milionario infelice Hugo "Hurley" Reyes, il musicista Charley Pace, la coppia in crisi dei Kwon, la giovane in dolce attesa Claire Littleton, l'ex soldato Sayid Jarrah ed il paraplegico ritornato miracolosamente a camminare John Locke divengono i protagonisti di un'avventura che cambierà per sempre le loro esistenze. E non solo.
Ricordo benissimo il periodo in cui approcciai per la prima volta Lost.
Era il maggio del duemilasei, in Italia era già diventata un fenomeno la prima stagione e negli States si avviava alla conclusione la seconda, ancora non mi allenavo, avevo un solo tatuaggio e vedevo la storia che mi aveva accompagnato stare per essere sgretolata da un desiderio di libertà totale ed incondizionata che fino a quel momento avevo vissuto segretamente, come una seconda vita.
Fu un mio collega - l'equivalente di Jack della quotidianità lavorativa - a passarmi i dvd, affermando che mi sarebbe piaciuta: ricordo che rimasi colpito dalla grande tecnica e dal taglio cinematografico del pilota, dai misteri di un'isola che, ancora non lo sapevo, avrebbe in qualche modo segnato la mia esistenza, ma che seguii per le prime puntate con un certo distacco.
Fu Confidence man, il primo episodio dedicato a Sawyer, a cambiare le carte in tavola: vedere quello che sarebbe diventato non solo il mio alter ego per i lostiani che mi frequentavano allora - "Sei proprio stronzo come Sawyer", mi fu detto da una fanciulla all'epoca - ma uno dei personaggi che più avrei amato nella Storia del piccolo e grande schermo fare carte false e subire addirittura una tortura soltanto per il gusto di essere il primo a rubare un bacio alla "bella e maledetta" Kate, prendendosi perfino colpe non sue, fu una vera svolta.
Da quel momento, Lost divenne una droga, una Fede - come direbbe l'indimenticabile John Locke -, qualcosa che, come il Destino pronto a legare i suoi protagonisti, definì alcuni degli anni migliori, più intensi e divertenti della mia vita, cui ancora oggi guardo con una certa malinconia e struggimento: decidere di rivedere l'intera serie una stagione all'anno come se fosse uscita una seconda volta era una vera e propria scommessa, ma per celebrare i dieci anni dalla prima messa in onda negli States qui in casa Ford non abbiamo saputo resistere, memori delle schermaglie che fecero non solo Sawyer del sottoscritto, ma Ana Lucia di Julez.
E la seconda visione è stata magica ed intensa almeno quanto la prima: osservare l'intera storia dei sopravvissuti dell'Oceanic 815 dopo aver assistito al termine delle loro avventure - tanto controverso tra i fan e rispetto alla critica - non solo ha portato alla luce una progettualità incredibile degli sceneggiatori - perfino nei piccoli particolari insignificanti l'impressione è che fosse tutto chiaro fin dal pilota, per Abrams e soci - ma ha finito per ridare lustro a sentimenti mai davvero sopiti per il cast of charachters più incredibile, azzeccato e clamorosamente perfetto mai pensato per un serial televisivo.
Del resto, come fu Twin Peaks un decennio prima e come sarà Breaking bad quasi un decennio dopo, Lost rappresenta senza ombra di dubbio un prodotto inarrivabile, rivoluzionario, magico anche nei suoi momenti peggiori: momenti che, di fatto, non riguardano la prima stagione, una delle più riuscite non solo di questa serie, ma del panorama della televisione in toto, dal già citato pilota alle puntate dedicate ai singoli personaggi, dal ritrovamento della famigerata botola alla morte di Boone, dalla partenza della zattera - forse il momento più commovente, che ha stretto il cuore dei Ford anche a distanza di tanto tempo - fino al climax del season finale, che probabilmente se avessi visto in contemporanea con la prima messa in onda avrebbe causato uno scompenso nel sottoscritto in attesa della visione della season two - ricordo che, invece, ebbi giusto il tempo della parentesi meravigliosa del viaggio a Barcellona in solitaria prima di tornare sull'isola, all'epoca -.
Non troppo tempo fa, parlando di questa nuova avventura con uno dei compagni di viaggio dell'epoca che si è dichiarato incapace di affrontare una volta ancora le vicissitudini dei superstiti dell'incidente aereo più importante della tv, ha finito per rimanermi impressa una sua frase: "Lost è una religione".
Ed è vero.
Con tutte le sue luci e le sue ombre, Lost ha, come nessun'altra serie, cambiato il mio modo di guardare al piccolo schermo, assotigliando la distanza che lo separava dal grande, legandosi a doppio filo non solo alla mia vita di spettatore, ma all'esistenza reale, di tutti i giorni.
Dal "sorriso all'arancia" di Locke ai soprannomi inventati da Sawyer, dagli orsi polari alla Black Rock, dal confronto tra Fede e Scienza dello stesso Locke e Jack, dal "walking the line" di Charlie al rigore di Sayid, dai rapporti pronti ad evolversi di Sun e Jin e Michael e Walt, c'è tutta la magia della vita e el Destino, del karma e dei significati che persone apparentemente estranee e lontane da noi possono assumere in particolari momenti della nostra vita, diventandone di fatto i protagonisti.
Questa è stata la magia di Lost.
Lo è ancora, e lo sarà per sempre.
Tutti sono protagonisti.
Tutti siamo protagonisti.
Perchè il Destino non fa sconti, e ha ben chiari i suoi numeri.
E noi possiamo solo giocarli al nostro meglio, sperando di non aver preso in mano il biglietto sbagliato.
MrFord
"Just a castaway
an island lost at sea
another lonely day
with no one here but me
more loneliness
than any man could bear
rescue me before I fall into despair."
La trama (con parole mie): continua la carrellata dei Ford Awards duemilatredici, che lasciati alle spalle videogames e libri si concentrano sulle serie tv, settore molto amato qui al Saloon e fortemente sponsorizzato da Julez.
Riuscirà Breaking Bad, vincitrice lo scorso anno, a bissare il successo seguendo le orme di Jo Nesbo nei libri?
O qualche straordinaria stagione conclusiva avrà scalzato dal gradino più alto del podio Walter White e Jesse Pinkman?
Apre la classifica la creatura di J. J. Abrams che con il tempo ha saputo convincere sempre più gli occupanti di casa Ford, principalmente grazie ad una terza stagione che è stata non solo la migliore della serie finora, ma di quelle che si ricordano: resta un prodotto di nicchia e per appassionati del genere, ma avercene, di lavori come questo e di personaggi come lo straordinario Walter - un nome, una garanzia - Bishop interpretato alla grandissima da John Noble.
Senza ombra di dubbio, l'erede di X-Files del nuovo millennio.
La serie nata dai romanzi di Martin prosegue inesorabile la sua corsa senza accennare ad una perdita di qualità nella resa tecnica, attoriale e di script, seppur pigiando l'acceleratore soltanto in alcune, devastanti puntate. In grande spolvero il charachter di Jaime Lannister, protagonista di un'evoluzione che pare soltanto al principio, la sempre splendida Daenerys ed il combattuto John Snow, mentre nuovi tasselli vengono aggiunti al ricchissimo mosaico di quella che è la proposta fantasy per eccellenza del piccolo schermo.
Dopo una prima stagione che giudicai terribilmente deludente, American Horror Story cambia ambientazione e sfodera una seconda annata da manuale, intrisa di misteri, follia, violenza ed incubi da manuale, quasi come se Qualcuno volò sul nido del cuculo incontrasse Rosemary's baby.
Lily Rabe e Jessica Lange grandi mattatrici, setting lugubre quanto basta ed un episodio conclusivo con una regia da leccarsi i baffi: un gran bel modo per farmi ritrattare le bottigliate.
La Showtime di Californication regala un'altra perla agli occupanti di casa Ford narrando le gesta dei disfunzionali Gallagher, famiglia più che scombinata figlia della peggio periferia di Chicago tutta pancia, sesso e cuore - e parecchie sostanze illecite -, che in men che non si dica è entrata a far parte dei cult del Saloon grazie a due stagioni una più travolgente dell'altra, arricchite da un cast pressochè perfetto e da tematiche come la Famiglia e la fratellanza da sempre care a questo vecchio cowboy.
Doveste scegliere un titolo "indie" per le vostre peregrinazioni in tv, fate che sia questo.
Dai tempi della conclusione di The Shield, i SamCro protagonisti di Sons of anarchy sono divenuti una sorta di medicamento decisamente efficace per la ferita lasciata aperta da Vic Mackie e soci: Jax Teller ed i suoi compagni di club continuano nella loro striscia di crescita con una stagione dirompente, fatta di morti e tradimenti, scontri con l'esterno e soprattutto tra il nuovo ed il vecchio, con Jax e Clay giunti al loro faccia a faccia definitivo per la presidenza del club.
Una botta di adrenalina e sangue come se ne vedono poche, sul piccolo e sul grande schermo, e palle a volontà.
La rivelazione dell'anno per quanto riguarda le proposte del piccolo schermo è un gioiellino giunto dritto dalla Francia che raccoglie l'eredità di Twin Peaks portando inquietudine e tempi dilatati a fare da cornice ad una vicenda che non vediamo l'ora di scoprire come proseguirà nell'annunciata ed attesissima seconda stagione: un titolo straordinario che, a mio parere, ha ancora molti margini di miglioramento. Un quinto posto di grande incoraggiamento, dunque, nella speranza di ritrovare questi inquietanti "ritornanti" in posizioni decisamente più alte alla fine del duemilaquattordici.
A ridosso delle posizioni più alte della classifica giunge anche quest'anno la squadra vincente del Coach Taylor, giunta alla fine del suo viaggio e ad un commiato emozionante e splendidamente sceneggiato, perfetto per uno dei titoli che da queste parti si è più amato negli ultimi anni.
Il Texas dei grandi spazi e del football raccontato attraverso i sogni di ragazzi che con quella palla ovale lanciano il futuro oltre gli ostacoli che la vita pone loro innanzi, guidati da un uomo che è anche una delle figure paterne più intense che la mia esperienza di spettatore abbia riservato.
Riuscire a migliorare la qualità - già altissima - di una prima stagione con i fiocchi non è cosa da titolo qualsiasi, e Homeland, rivelazione delle ultime due annate, si dimostra all'altezza regalando al pubblico una serie di episodi da cardiopalma che conducono dritti ad uno sei season finale più clamorosi della storia recente, confermando la coppia Claire Danes/Damien Lewis come la più affiatata, passionale, sconnessa e pericolosa della fiction.
La vincitrice morale del duemilatredici è senza dubbio Spartacus: war of the damned, sconfitta ad un passo dal trionfo - così come i suoi protagonisti - da qualcosa di troppo grande ed inarrestabile per essere fermato.
Ma non nascondo il fatto di aver amato - e di amare - visceralmente le gesta di Spartacus e soci, che chiudono con il botto la loro storia grazie ad una stagione praticamente perfetta culminata con episodi meravigliosi tra i quali spiccano Decimation ed il conclusivo Victory, che non solo mi è servito come stimolo per prendere una decisione lavorativa molto importante ma è stato in grado di far versare al sottoscritto lacrime pesanti come macigni.
Siamo tutti Spartacus, da Andy Whitfield ad ogni persona che lotta giorno dopo giorno per conquistarsi la vita.
Non poteva essere che Breaking bad ad occupare il gradino più alto del podio con il suo addio, giunto - al contrario di molte altre proposte naufragate con il tempo - proprio all'apice della sua perfezione di scrittura e creativa.
Una chiusura dolente eppure trionfale per l'intramontabile Walter White, uno dei charachters fondamentali per la storia delle serie televisive nonchè simbolo perfetto del titolo che, con Lost e Twin Peaks, rappresenta la trinità divina del piccolo schermo: ma non sottovalutiamo, o dimentichiamo, Jesse Pinkman, elemento necessario perchè questa formula vincente possa avere un senso, una storia ed una portata così incredibili.
Un Capolavoro.
I PREMI
Preferito fordiano: Gannicus, Spartacus: war of the damned
Miglior personaggio: Walter White, Breaking Bad
Miglior sigla: American Horror Story Asylum
Uomo dell'anno: Andy Whitfield, Spartacus: war of the damned
Donna dell'anno: Anna Gunn alias Skyler White, Breaking Bad
Scena cult: lo sguardo d'intesa tra Walt e Jesse, Breaking Bad series finale
Migliore episodio: Victory, Spartacus: war of the damned
Premio ammazzacristiani: i gladiatori ribelli, Spartacus: war of the damned
Miglior coppia: Claire Danes e Damian Lewis, Homeland Stagione 2
Cazzone dell'anno: Jessie Pinkman, Breaking bad Cattivo dell'anno: Crasso, Spartacus: war of the damned
La trama (con parole mie): siamo in un pronto soccorso della Chicago dei primi anni novanta, e tra le sale emergenza medici, chirurghi, specializzandi ed infermieri incastrano le loro vite con una professione dura quanto intensa. Il giovane John Carter, al suo primo praticantato, si troverà a confrontarsi con l'equilibrato responsabile Mark Greene, il pediatra Doug Ross, il duro chirurgo Peter Benton e tutti gli altri elementi della squadra della sezione ER: nel corso di questo suo primo anno avrà occasione di imparare, porre le basi per quella che sarà la sua professione e vedere se stesso, i colleghi ed i superiori cadere e rialzarsi di fronte alle vite salvate o perdute di pazienti così come rispetto alle storie che ognuno di loro porta come bagaglio nel rapporto con il lavoro, i colleghi e se stesso.
Non è la prima volta che, qui al Saloon, ci si accinge al recupero di una serie ormai "datata" precedentemente ignorata o seguita fin troppo saltuariamente: in realtà, ER arrivò in casa Ford la scorsa primavera, quando, ancora senza sapere che il Fordino sarebbe entrato nelle nostre vite, con Julez si pensava di abbandonare la barca italiota in perenne affondamento e fare rotta verso realtà decisamente più consone alle nostre aspettative, sogni e gusto: una di queste riguardava un ritorno in Australia, terra meravigliosa che non abbiamo mai davvero lasciato e che ancora oggi continua ad essere un pensiero fisso.
Così, per allenare l'inglese, la stessa Julez acquistò una buona scorta di cofanetti di serie che potessero fornire un certo supporto in materia di sottotitoli ed essere pronta nel momento della partenza: la storia ha preso poi una direzione diversa - e che non suoni come un rimpianto -, il Piccolo ha deciso di farci rimanere da queste parti - almeno per un pò - e dunque ER è stato riciclato come una delle consuete visioni "da cena", ormai un vero e proprio rito da queste parti.
Il risultato è stato un piacevole ritorno al passato inizialmente reso ostico da una certa freddezza nel trasporto emotivo della narrazione e dunque esploso fino a solleticare già la curiosità per la seconda annata, che ci aspetta nella sezione cofanetti di serie nella prestigiosa zona del salotto appena sopra le vetrinette degli alcolici: tornando alla visione, è stato decisamente curioso affrontare un look ed un piglio profondamente anni novanta - terribili quasi tutti i capi d'abbigliamento indossati dai protagonisti - che ora appare inesorabilmente datato ma che, nello specifico del drama ospedaliero è stato senza dubbio il punto d'origine di quelli che, un decennio più tardi, sarebbero stati Scrubs, Grey's anatomy e, perchè no, anche Il dottor House.
Se, come già accennato, dal punto di vista emotivo spesso e volentieri i protagonisti di ER si mantengono ad una certa distanza dall'audience, tecnicamente la serie risulta assolutamente valida, spesso giocata su uno stile di regia che privilegia acrobatici piani sequenza all'interno delle sale del pronto soccorso e supportata da un ottimo cast all'interno del quale figurano future star - su tutte, George Clooney - e conferme solidissime - William Macy e Michael Ironside -, senza contare speciali collaborazioni come quella con Quentin Tarantino, che firmò uno degli ultimi episodi fornendo al pubblico i primi indizi del suo amore per il piccolo schermo, che si tradurrà nel decennio successivo con la realizzazione di episodi di Alias e CSI.
Ottima la varietà dei personaggi, dal protagonista e "bravo ragazzo" da tradizione americana John Carter - e non parliamo del muscoloso antieroe in partenza per Marte - al responsabile Mark Greene - che i più legati agli eigthies ricorderanno come protagonista di Toccato! -, dall'apparentemente freddo e duro Peter Benton a tutto il personale infermieristico, per la prima volta mostrato come parte fondamentale del processo di intervento troppo spesso e volentieri assegnato solo ed esclusivamente ai medici.
In questo senso ER può essere senza dubbio definito come il titolo più innovativo del panorama medical-drama, forse ormai naif agli occhi di un pubblico abituato allo stile ed al taglio del nuovo millennio eppure una delle pietre miliari che traghettarono il piccolo schermo ed i suoi fan dalle proposte al limite del kitsch degli anni settanta e ottanta fino alla consolidata - e di qualità quasi cinematografica - realtà attuale.
Come se non bastasse, tra suicidi, morti e disagi personali, l'aspetto "buonista" che un prodotto di questo genere rischiava è ampiamente tenuto a bada, e risulta interessante anche dal punto di vista "storico" soprattutto per la situazione dell'AIDS, ai tempi decisamente più incontrollato e minaccioso di quanto non possa suonare ora soprattutto nei paesi occidentali - anche se, ed è bene ricordarlo sempre, parliamo di uno dei grandi flagelli dell'ultimo secolo che andrà sempre tenuto sotto stretto controllo -.
Una proposta, dunque, coraggiosa e coinvolgente, che forse è stata troppo in fretta dimenticata ma che meriterebbe perlomeno una piccola ribalta, non fosse altro per la grande influenza che ha esercitato sul mondo delle serie televisive.
MrFord
"I think we have an emergency
I think we have an emergency
if you thought I'd leave, then you were wrong
cause I won't stop holding on
so are you listening?
so are you watching me?"