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lunedì 30 maggio 2016

Le ali della libertà

Regia: Frank Darabont
Origine: USA
Anno: 1994
Durata:
142'








La trama (con parole mie): siamo alla fine degli anni quaranta quando Andy Dufresne, vicedirettore di banca, è condannato ad un doppio ergastolo per l'omicidio della moglie e del suo amante.
Incarcerato nella struttura di Shawshank, governata con pugno di ferro dal Direttore Norton e dal capo delle guardie Hadley, stringe immediatamente amicizia con Ellis "Red" Redding, che di norma si occupa del contrabbando tra i condannati: tra i due uomini si sviluppa un legame destinato a durare decenni, che vede detenuti essere rilasciati per finire fagocitati dal Sistema, altri barbaramente uccisi e le speranze alimentate un giorno dopo l'altro, in attesa del momento in cui la libertà possa cambiare le loro vite.
Quando Dufresne, divenuto prezioso per gli affari sporchi di Norton, diverrà una minaccia per il Direttore stesso, l'uomo deciderà di cambiare le carte in tavola rivelando un piano portato avanti per quasi due decenni.











Dovevano essere quasi vent'anni, dall'ultima volta in cui vidi, nell'allora casa Ford, probabilmente con mio fratello, Le ali della libertà, film tra i più cult degli anni novanta e del genere carcerario che lanciò Frank Darabont e consacrò per l'ennesima volta Stephen King come ispiratore del Cinema - i due torneranno a collaborare negli Anni Zero con il più che discreto The Mist -.
Onestamente, temevo molto il confronto con questo titolo: l'esaltazione di molti critici e di una buona fetta di pubblico verso questo titolo è sempre stata alta - a mio parere, fin troppo, considerato il debito che la stessa ha soprattutto con Fuga da Alcatraz -, il Tempo spesso e volentieri non è tenero con i cult che non siano veri Capolavori e la mia percezione, sotto molti punti di vista, è cambiata, eppure la curiosità c'era, e parecchia.
Dunque, come prima cosa devo ammettere che Le ali della libertà - pessimo adattamento dell'originale The Shawshank redemption - è riuscito a tenere testa alle difficoltà alla grande, confermandosi assolutamente un cult di genere ed un grande film, con un cast assolutamente in parte ed un'escalation di quelle in grado di coinvolgere perfino i più freddi tra gli appassionati dediti al solo Cinema d'autore.
Allo stesso tempo, il lavoro di Darabont si conferma anche tra quelli più sopravvalutati - pur bonariamente - del Cinema degli anni novanta e recente, fenomeno che coinvolse titoli di quello stesso periodo come Forrest Gump, Il miglio verde o Strange Days: pellicole che ai tempi dell'uscita in sala apparvero strepitose e che, oggi, hanno il sapore del mito senza, di fatto, averne lo spessore.
Non che sia un male, considerato un tipo pane e salame come il sottoscritto, che li possiede orgogliosamente tutti nella propria videoteca - e non parlo di hard disk, in questo caso - pronto, all'occorrenza, a godersi ogni istante della visione dal primo all'ultimo minuto.
Proprio in questo senso, ripercorrere la vicenda di Andy Dufresne dal processo e dalla condanna al confronto con l'amico di una vita Red che chiude la pellicola vent'anni dopo è stato un vero piacere, dai volti perfetti dei caratteristi che compongono un cast che ogni appassionato si troverà a conoscere quasi a menadito ad un incedere rapido e serrato che spesso e volentieri non ci si aspetta da un film che viaggia spedito verso le due ore e venti, numerose soluzioni tecniche ottime - come la ripresa aerea del carcere all'arrivo del protagonista, davvero strepitosa considerati i tempi in cui i droni sfruttati come appoggio erano fondamentalmente considerati fantascienza - ed un'intensità da grande storia, passando dalla vicenda di Brooks - una delle più toccanti e meglio riuscite del film - alla determinazione quasi glaciale del solo apparentemente fragile Andy, uomo come gli altri detenuti "incastrato dall'avvocato" pronto a fare fronte alle violenze, alle privazioni ed alla propria condizione con acume ed intelletto, quasi fosse un Ulisse dell'evasione.
E nonostante l'elevata importanza dell'aspetto emotivo e partecipativo rispetto alla storia del protagonista, Le ali della libertà diviene un elogio della perseveranza e della pazienza, della capacità di godere delle proprie piccole vittorie - specie da detenuti privati della libertà - in attesa del momento in cui le carte in tavola possano rivelarsi in grado di cambiare le sorti della partita con la vita: come in una partita a scacchi, Dufresne dispone i suoi pezzi con una cura che ad individui istintivi come il sottoscritto, "istituzionalizzati" come Brooks, o rassegnati come Red è sconosciuta, riuscendo ugualmente ad emozionare come un pezzo di Mozart pronto a rapire la mente di uomini che a stento sanno leggere ma con facilità riescono a prendere una vita.
Del resto la Libertà - intesa come concetto, prima ancora che come condizione o fuga - e la Redenzione - che, come spesso cantava Johnny Cash, non avviene certo dietro le sbarre, ma dentro se stessi - passano da momenti di meraviglia come quello.
Momenti che, con tutti i suoi limiti, Le ali della libertà riesce a tradurre in immagini ancora oggi.





MrFord





"Hold on to me
don't let me go
who cares what they see?
Who cares what they know?
Your first name is Free
last name is Dom
cause you still believe in where we're from
man's red flower
it's in every living thing
mind use your power
spirit use your wings."
Pharrell Williams - "Freedom" - 





mercoledì 2 luglio 2014

Saloon Mundial: un legno di troppo

La trama (con parole mie): oggi hanno avuto luogo gli ultimi due ottavi di finale del Mondiale, pronti a definire il quadro delle best eight del torneo.
L'Argentina, favorita quasi al pari del Brasile sospinta dalla sempre più crescente volontà dei tifosi sudamericani di vedere una finalissima tra le due superpotenze del pallone, se l'è vista con la Svizzera, mentre l'indemoniato e giovane Belgio ha incrociato i flussi con gli Stati Uniti, ormai una realtà solida del calcio mondiale.
Chi l'avrà spuntata?










Sono decisamente, inesorabilmente, clamorosamente stanco.
E non parlo di questioni fisiche - anche se ci starebbero tutte, considerati i ritmi lavorativi che mi attendono per questa malefica estate -, quanto senza dubbio emozionali.
Stanco, forse, non è la parola giusta.
Sono molto, molto arrabbiato.
Non è bastata la clamorosa traversa di Pinilla che ha graziato il Brasile qualche giorno fa, ora ci si è messo perfino il palo di Dzemaili, come a dire niente calci di rigore o rischi inutili, per l'Argentina.
E mi chiedo: ma è davvero possibile che perfino il Destino si accanisca contro gli outsiders, quelli che per giungere al risultato di un fuoriclasse devono farsi il culo un migliaio di volte di più?
Come se fosse un peso, essere un Neymar o un Messi.
Senza contare che, per quell'uno come loro, c'è un milione di ragazzi che sputa sangue sul campo da gioco ben sapendo, nel profondo, che non esiste neppure una speranza di potercela fare.
Dovevo aspettarmelo, da un Mondiale che era iniziato con la scandalosa Brasile-Croazia.
Per quanto le partite siano combattute, le speranze di assistere ad una conclusione nuova ed emozionante si affievoliscono sempre di più.
E intanto io covo una rabbia sempre maggiore: rabbia contro i massimi sistemi, i poteri consci dei poteri stessi, il fatto che chi è destinato a restare lì, ci resti.
Va bene essere Goonies per sempre, ma porca puttana, a tutto c'è un limite.
Ed io voglio vedere Neymar piangere, altro che i suoi cazzo di cuoricini da primo della classe all'oratorio.
E voglio vedere Messi ingoiare un boccone amaro. Di vomito, considerato che pare esserci abituato.
Voglio vedere la Colombia, venerdì, alla ripresa delle partite, fare polpette dei carioca da non lasciare a nessuno dei loro tifosi neppure le energie per farla finita.
E l'Argentina a capo chino sabato, destinazione casa.
Sono stanco, per l'appunto. E arrabbiato.
Voglio un Che Guevara del pallone che sovverta ogni pronostico e lasci con il culo per terra tutta questa manica di fighetti dalla strada spianata.
E nel weekend dei quarti di finale voglio che l'unico legno sia quello cantato da Modugno: "Tu ti lamenti, ma che ti lamenti, pigghia nu bastune e tira fora li denti".
Parole sante, cazzo.







Dall'altra parte, il Belgio, dopo un vero e proprio assedio ed una battaglia degne di Game of thrones e grazie all'inserimento all'inizio dei supplementari di Lukaku - che fino a questo momento, pur essendo un grande atteso, aveva deluso -, piega gli Stati Uniti approdando ai quarti più che meritatamente, mostrando un calcio veloce, dinamico, fresco ed una generazione di calciatori che noi nella Terra dei cachi possiamo solo sognarci.
La cosa curiosa è che, ora, le due squadre che spero con tutto il cuore di vedere contendersi la Coppa - Colombia e Belgio - si troveranno, tra venerdì e sabato, a doversi giocare un posto in semifinale contro le due vere favorite del Mondiale, Brasile e Argentina.
Considerato come vanno le cose in questo sporco mondo, sarei felice se ce la facesse anche una sola di loro. Ma poi penso che, fanculo, la vita è una sola.
E sabato sera, provato dall'ennesima settimana di merda al lavoro salvata solo da Julez e dal Fordino, spero di poter essere senza forze alla tastiera per scrivere della clamorosa doppietta che porta il Saloon e tutti quelli abituati a tenere i cavalli ad una sbronza colossale per festeggiare una rivincita con il Potere.
E poco importa se sarà solo calcistico.



MrFord



P. S. Piccolo appunto sugli ottavi appena conclusi: hanno vinto le sfide tutte le squadre arrivate prime nei loro girone ai danni delle seconde. Anche in questo caso, pare una beffa.




mercoledì 29 gennaio 2014

I sogni segreti di Walter Mitty

Regia: Ben Stiller
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 114'





La trama (con parole mie): Walter Mitty è un timido archivista fotografico da sedici anni impiegato presso la rivista Life, prossima ad un'acquisizione che ne comporterà la chiusura. Quando Sean O'Connell, un fotografo da prima linea, gli invia il suo più recente reportage indicando uno scatto in particolare come il migliore della sua carriera nonchè quello adatto per l'ultima copertina, Walter è costretto a smettere i panni del sognatore ad occhi aperti per vivere l'avventura che lo condurrà da una parte all'altra del mondo proprio alla ricerca di O'Connell in modo da risolvere il mistero di quello stesso scatto, che pare misteriosamente scomparso.
L'evoluzione di Walter e le scelte che sarà costretto a compiere per ritrovare la foto mancante saranno un incentivo ad uscire dal guscio per l'uomo, cresciuto immaginando sempre e comunque un mondo in cui lui stesso è il primo ad essere più "straordinario".






L'ultima fatica di Ben Stiller come regista, erroneamente definita dalla distribuzione come la risposta del nuovo millennio a Forrest Gump - analogia che ho trovato quantomeno ridicola -, ai tempi della sua uscita in sala aveva seminato più di un dubbio nella mente del sottoscritto, considerati i rischi che titoli anche solo sulla carta "buonisti" comportano: rischi che, almeno nei primi venti minuti di I sogni segreti di Walter Mitty hanno finito per addensarsi lasciando presagire una tempesta di bottigliate da record, paradossalmente divenuta una giornata di sole quasi estivo con l'evolversi della vicenda e del protagonista stesso, cui presta volto alla perfezione un Ben Stiller - nella doppia veste di regista ed attore, come era già capitato con i suoi Zoolander e Tropic Thunder - decisamente in parte - nonostante non sia affatto un suo fan, almeno dal punto di vista interpretativo -, pronto a divenire sequenza dopo sequenza uno straordinario eroe ordinario e a farsi carico dell'incredibile voglia di vivere - a prescindere dalle avventure in cui ci si imbarca - che questo film trasmette.
La figura dolceamara di Mitty, da Space oddity al lancio dall'elicottero - splendido il tuffo nell'Atlantico, un vero gioiellino di comicità al limite dell'assurdo -, dall'incapacità di relazionarsi alzando la testa - divertente la gag sulla barba di Silente - alla sua conquista del mondo - soprattutto interiore -, finisce dunque per conquistare anche lo spettatore pronto a dare a lui ed alle sue avventure una sonora lezione: con un respiro che ricorda quello dei grandi Classici e sfruttando scenari letteralmente mozzafiato - l'Islanda e l'Hymalaya, eruzioni vulcaniche e lotte con gli squali -, Stiller trascina in un percorso iniziatico che tocca temi importanti quali il rapporto tra padre e figlio ed il senso della vita e del lavoro, sfruttando interpreti d'eccezione per parti marginali - Shirley McLaine e Sean Penn, entrambi perfetti per i loro charachters - e confezionando un piccolo gioiello cui si perdona anche più di un'ingenuità dal punto di vista dello script, che concede effettivamente troppo sul piano della realtà effettiva ma che trova il suo significato ed il suo valore proprio nell'oltrepassare i suoi confini.
Senza dubbio il furbo Ben sfrutta in più di un'occasione gli appigli che i sentimenti offrono in occasioni cinematografiche come questa, eppure l'operazione non ha il sapore posticcio dei blockbuster hollywoodiani o della grana grossa tipica dei titoli da centro commerciale, si fa strada lottando ed osando proprio come il suo protagonista e, dai bellissimi titoli di testa al confronto sul tetto del mondo Stiller/Penn - "A volte non scatto, perchè sento il bisogno di vivere il momento senza pensare all'obiettivo", sussurra il secondo di fronte ad uno spettacolo forse irripetibile che la Natura offre a lui ed al suo vecchio amico - il risultato è un'emozione sincera, quasi come se l'indole di Mitty fosse presente in ognuno di noi.
Di fatto, è in questo modo che spesso ci troviamo ad affrontare la quotidianità, e la vita intera: sognare o cogliere l'attimo, sedere in un angolo fino a dimenticare noi stessi o vivere la nostra comune esistenza rendendola, proprio assaporandola a fondo, davvero unica e, per l'appunto, straordinaria.
Del resto, siamo tutti come Major Tom, pronto a sfidare lo spazio profondo come noi affrontiamo ogni nuovo giorno da passare su questa Terra: ed indiscutibilmente è sempre meglio vivere il più possibile che sognare soltanto, per quanto grandi possano essere quegli stessi sogni.


MrFord


"For here
I'm I sitting in a tin can
far above the world
planet Earth is blue
and there's nothing I can do."

David Bowie - "Space oddity" - 




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