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martedì 22 ottobre 2013

Gravity

Regia: Alfonso Cuaron
Origine: USA, Messico
Anno: 2013
Durata: 91'
 



La trama (con parole mie): Matti Kowalski e Ryan Stone sono due membri dell'equipaggio di una missione in orbita attorno alla Terra con l'intento di effettuare alcune riparazioni su un'istallazione. Quando l'esplosione di un satellite porta su di loro una pioggia di detriti e lo shuttle viene distrutto, i due si ritroveranno ad affrontare, legati l'uno all'altra, una deriva che dovranno pilotare verso una stazione orbitante russa in modo da raggiungere un modulo di salvataggio e fare ritorno sulla Terra.
Il tentativo, però, risulterà ben più arduo di quanto non potessero già immaginare, ed il rientro sul pianeta comincerà ad assumere i connotati di un'utopia, più che di una speranza.





Alfonso Cuaron ha una storia strana, qui al Saloon.
Partito discretamente bene con il piacevole road movie stile Sundance Y tu mama tambien agli inizi del nuovo millennio, il regista di Città del Messico finì per perdere parecchie quotazioni con Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, a mio parere uno degli episodi meno riusciti della saga cinematografica del maghetto più famoso della letteratura: giunse poi I figli degli uomini a lasciare a bocca aperta il sottoscritto e rilanciare il buon Alfonso come riferimento della settima arte messicana pronto a soppiantare l'inaridito Inarritu.
L'hype per Gravity, dunque, accolto anche decisamente bene all'ultimo Festival di Venezia, era clamorosamente alto, considerate anche le opinioni di molti blogger cinefili pronti a spendere grandi parole per quest'epopea umana più che sci-fi come se fosse la cosa più naturale del mondo: onestamente, e non credo per colpa delle aspettative, devo dire che l'attesa è stata almeno parzialmente delusa.
Certo, è d'obbligo ammettere che a livello tecnico e visivo ci troviamo di fronte, con ogni probabilità, ad una delle opere più incredibili del passato recente - almeno per quanto riguarda il genere -, roba da avere l'impressione di precipitare nello schermo e perdere gli occhi per la meraviglia tra effetti speciali da togliere il fiato, piani sequenza da brivido ed evoluzioni della macchina da presa che probabilmente avrebbero lasciato a bocca aperta anche i pionieri dei "Viaggi nella Luna": un'esperienza da spettatori assolutamente incredibile, che vale la pena di vivere al pieno delle possibilità tecnologiche attuali - tanto odiato dal sottoscritto 3D compreso - e dal primo all'ultimo minuto, sostenuta da un'ottima idea rispetto al titolo - il riferimento alla gravità sulla Terra, e non alla sua assenza nello spazio - e da una Sandra Bullock in grandissimo spolvero, ma che, dal punto di vista emozionale e dell'originalità nella scrittura difetta come l'ultimo dei blockbusteroni hollywoodiani.
Non so se la produzione, lo stardom presente o chissà quale imposizione dall'alto abbiano influenzato il lavoro di Alfonso e Jonas Cuaron nel corso della stesura dello script, ma l'impressione è che tutto quello che è finito nella parte squisitamente tecnica e "meravigliosa" della pellicola abbia finito per succhiare il midollo della vita alla sceneggiatura, molto scontata e a tratti davvero al limite dello scivolone - il dialogo tra Ryan ed il miracolosamente rientrante Kowalski nella stazione orbitante russa -.
Per nulla una delusione da bottigliate, ma classico esempio di "bello senz'anima", dunque, questo Gravity trascinato con i piedi per terra si attesta, di fatto, ben lontano dall'Olimpo cinematografico cui certamente aspirava: un peccato, perchè quella che è una delle più incredibili avventure visive dell'anno finisce per essere associata ad un titolo destinato a transitare in un'orbita ben lontana dai primi posti della classifica dedicata al meglio del duemilatredici.


MrFord


"Oh twice as much ain't twice as good
and can't sustain like a one half could
it's wanting more
that's gonna send me to my knees."
John Mayer - "Gravity" - 


martedì 3 settembre 2013

Elysium

Regia: Neill Blomkamp
Origine: Sudafrica, USA
Anno: 2013
Durata: 109'




La trama (con parole mie): siamo nel 2154, e la Terra è ormai popolata dai derelitti della società in balìa di malattie, vulnerabilità e degrado, controllati da una forza di polizia robotica e diretti da un'elite manageriale che vive nella stazione orbitale Elysium, una sorta di paradiso ove Natura e Tecnologia si incontrano e la sicurezza, la salute e la stabilità sono garantite sempre e comunque.
Quando Max, ex detenuto deciso a rigare dritto, è ridotto in fin di vita a causa di un incidente sul lavoro, il tentativo disperato dello stesso di salvarsi trovando posto su una delle tante navi dirette clandestinamente su Elysium diviene una scintilla pronta a dare origine ad una sorta di sotterranea rivolta dei terrestri e all'inizio di una nuova era per l'intera società.





Neppure il tempo di essermi di fatto abituato al ritorno a casa dopo un mese di vita da spiaggia neanche fossi un Ex-Presidente, e subito arriva il confronto con una delle pellicole sulla carta più importanti di questa parte finale dell'anno: Elysium.
Tutto questo clamore perchè dietro la macchina da presa di quest'epopea action/sci-fi dalle forti venature di critica sociale troviamo Neill Blomkamp, genietto cresciuto negli ambiti creativi del videoclip ed esploso qualche anno fa con lo splendido District 9, che raccolse consensi quasi unanimi nella Blogosfera e non.
Peccato che questa volta al buon Neill la ciambella non riesca propriamente con il proverbiale buco: non che Elysium sia un brutto film, mal girato o realizzato - tutt'altro -, o che Matt Damon non si faccia in quattro per mostrare tutte le sfaccettature di un personaggio complesso almeno quanto il Wikus protagonista della precedente fatica del regista sudafricano, eppure l'originalità delle vicissitudini degli indimenticabili Gamberoni si perde in una critica fin troppo evidente al sistema da "Impero" made in USA - si sprecano i riferimenti alla questione del confine con il Messico - e ad una serie di situazioni che danno allo spettatore l'impressione del già visto e sentito, una sorta di deja-vù d'autore che si differenzia da blockbuster di grana decisamente più grossa come Oblivion soltanto grazie all'abilità tecnica di Blomkamp.
E non bastano una partenza convincente - i rapporti decisamente tesi e difficili da immaginare con i funzionari della legge robotici - ed un main charachter quantomeno controverso - l'egoismo di Max, almeno fino al climax conclusivo probabilmente imposto al buon Neill dalla grande distribuzione, e la sua volontà di salvarsi la pelle a tutti i costi anche a scapito della figlia della vecchia amica d'infanzia è uno spunto di riflessione decisamente niente male - per rendere Elysium il piccolo cult che molti appassionati - sottoscritto compreso - si aspettavano: certo, bottigliare uno come Blomkamp quando avevo salvato il già citato Oblivion potrà apparire quantomeno esagerato, eppure la legge dei "numeri dieci" non ammette eccezioni.
Quando sulle spalle porti un talento fuori dal comune il tuo pubblico si aspetterà sempre qualcosa fuori dal comune dalle tue imprese: ed una sorta di versione riveduta e corretta - nonchè pesantemente edulcorata - del lavoro responsabile della fama conquistata non basterà mai e poi mai per far gridare l'audience nuovamente al miracolo.
Il cyberpunk sporco e cattivo, dunque, questa volta finisce per essere tale solo in superficie, rivelandosi un fuoco di paglia che senza dubbio raccoglierà consensi ma che neppure lontanamente regge il paragone con le sue origini: una vicenda che sugli schermi del Saloon si era vissuta anche rispetto a Duncan Jones, passato dai fasti di Moon al decisamente non memorabile Source code.
E come per il pargolo di David Bowie, anche nel caso di Blomkamp non resta che attendere il terzo capitolo dell'avventura per capire se quelle che abbiamo di fronte sono due promesse dalla classe cristallina o meteore dalla luce talmente brillante da illudere (quasi) tutte le platee di essere stelle.


MrFord


"Now nothin' can take you away from me 
we've been down that road before
but that's over now
you keep me comin' back for more."
Bryan Adams - "Heaven" - 



venerdì 11 novembre 2011

I tre moschettieri

Regia: Paul W. S. Anderson
Origine: Uk, Germania, Francia
Anno: 2011
Durata: 110'



La trama (con parole mie): mentre il giovane guascone D'Artagnan parte per Parigi con la benedizione del padre in cerca di avventure e fortuna cacciandosi inesorabilmente nei guai, i tre moschettieri del re Athos, Porthos e Aramis lottano - con frequenti intervalli dedicati a cibo, vino e donne - per tenere a bada il Cardinale Richelieu ed i suoi intrighi, che passano dalla doppiogiochista Milady al nobile inglese Buckingham, e sfruttano il braccio armato di Rochefort e delle sue guardie.
Dopo un primo incontro piuttosto rocambolesco, D'Artagnan e i moschettieri dovranno unire le forze per sventare un inganno che potrebbe costare una guerra con l'Inghilterra.
Che, forse, arriverà comunque.



Evidentemente il titolo di film più brutto dell'anno è più ambito di quanto non potessi credere, e con l'avvicinarsi della fine del 2011 registi e produttori cominciano a rimboccarsi seriamente le maniche affinchè io possa essere sempre più in difficoltà rispetto alla scelta che porterà al controclassificone delle peggiori pellicole uscite in sala negli ultimi dodici mesi.
Anderson, già noto per alcune perle del trash come Mortal Kombat, Alien vs. Predator e tutta l'agghiacciante saga di Resident evil, decide di mettere da parte la componente horror del suo Cinema - anche se pare proprio una parola grossa, da associare al lavoro del buon Paul W. S., e intendo Cinema, non horror, che invece lì accanto starebbe da dio - per concentrarsi su un'ambientazione che ricorda più il gigionismo de I pirati dei Caraibi che tanta fortuna - e soldi - ha portato nelle casse di mamma Disney: peccato che il risultato, oltre a risultare televisivo e raffazzonato, non riesce minimamente nell'impresa di eguagliare le imprese - peraltro da tempo in netto declino qualitativo - di Jack Sparrow e soci, e addirittura risulta così estremamente buonista da far apparire il più buonista dei film prodotti dalla suddetta Disney Vivere e morire a Los Angeles.
Niente - o quasi - pare funzionare, dall'utilizzo della computer graphic - in uno stile che vorrebbe richiamare la splendida sigla di Game of thrones - al cast - troppo sopra le righe i moschettieri, pessima Milla Jovovich nel ruolo dell'intrigante Milady, Christoph Waltz ridotto alla caricatura di se stesso neanche fosse il DeNiro degli ultimi anni, Mads Mikkelsen nel ruolo della versione da parodia del mitico One eye di Valhalla rising -, dalla sceneggiatura troppo facile e bambinesca al "facciamo un circo di casino ed esplosioni ma cerchiamo di evitare di essere anche soltanto col pensiero politicamente scorretti, non si sa mai cosa potrebbe pensare il pubblico: in particolare, rispetto a quest'ultima nota dolente - come giustamente notato da Julez nel corso della visione -, è agghiacciante sottolineare quanti sforzi vengano fatti per evitare di far passare qualcuno come un vero bastardo, tanto da far uscire come dei quasi santarellini anche due stronzi da competizione come dovrebbero essere Milady e Richelieu. 
A mia memoria, perfino il cartone animato passato in tv nel pieno degli anni ottanta appariva più tosto di questa robetta firmata Anderson, che oltretutto riesce a rendere ridicole alcune caratteristiche dei personaggi - oltre allo stesso Richelieu, anche del Re e di Buckingham con i loro agghiaccianti riferimenti alla moda e ai colori, per non parlare del "religioso" Aramis - che, al contrario, avrebbero potuto trasformare la vicenda tratta dagli scritti di Dumas in un nuovo e decisamente più interessante capitolo del Cinema d'avventura.
Il tutto, senza neppure menzionare le ridicole navi volanti in stile Wild wild West, la "caduta" ed il "ripescaggio" di Milady - uno dei momenti più bassi della pellicola -, le sequenze neanche fossimo in Mission impossible ed il terrificante finale aperto, che lascia presagire - e speriamo che il box office ce ne scampi - addirittura un sequel.
L'unico a fare davvero le spese dell'evolversi della vicenda - e a fare da carne da cannone neanche fosse l'ultima delle sue guardie - è Rochefort, reso peggio dei peggiori bar di Caracas grazie ad un'aura da cattivo slavato da cartoon - e di nuovo, il Maschera di ferro della serie animata citata poco fa aveva tutt'altro spessore - che viene definito il "miglior spadaccino del continente" eppure non duella mai, se non con se stesso o in tenzoni non leali, alla spada preferisce la pistola e, straordinariamente rispetto all'aura perbenista della pellicola, riesce anche a morire al termine di un'agghiacciante sfida tra le guglie di Notre Dame.
Dovessi trovare un solo pregio a quello che potrebbe essere tranquillamente essere definito il peggiore adattamento cinematografico de I tre moschettieri mai realizzato, direi che, tutto sommato, l'intera operazione non risulta minimamente spocchiosa, quasi la sensazione dell'effettivo valore della stessa fosse ben chiaro a Anderson e a chi ha avuto l'ardire di buttare montagne di soldi in questa roba.
Inoltre - e sono due! - posso anche ammettere che il tutto sia assolutamente innocuo, talmente "centrista" da non riuscire neppure a farmi incazzare abbastanza da tirare fuori le bottiglie pronto a scatenare una tempesta di colpi.
Certo, mi ha anche ricordato un collega che, qualche elezione fa, una sera dichiarò candido: "Io sono rimasto al centro."
Risposta: "In che senso, scusa?"
E di nuovo: "Beh, i miei hanno votato Casini, così l'ho votato anche io."
A fronte di un'affermazione come questa, neanche due calci rotanti valgono più.
Chi sta al centro, deve restarci. Ed essere dimenticato nel suo essere insignificante.
Un pò come questo I tre moschettieri.

MrFord

"Oh, oh, oh - Is there anybody home?
Who will believe me, won't deceive me, who'll try to teach me?
Ah, ah, ah - Is there anybody home?
Who wants to have me, just to love me?
Stuck in the middle."
Mika - "Stuck in the middle" -


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