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sabato 21 novembre 2015

Ruth&Alex - L'amore cerca casa

Regia: Richard Loncraine
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 92'






La trama (con parole mie): Ruth e Alex sono una vecchia coppia sposata da quarant'anni e residente a Brooklyn, in un vecchio stabile senza ascensore che li ha accolti già dai tempi in cui le unioni miste erano viste come fumo negli occhi in gran parte degli States.
A fronte dell'invecchiamento e degli acciacchi, i due - in particolare Ruth - paiono decisi a vendere l'appartamento che conserva tutti i loro ricordi per acquistarne un altro con più comodità per persone della loro età, magari facendo ritorno a Manhattan: e tra l'intervento subito dalla loro cagnolina alle visite aperte organizzate tra le loro mura e nelle case che decidono di visitare, entrambi i protagonisti trovano spazio per i ricordi costruiti in quarant'anni di legame, dai momenti più tristi a quelli più felici.








Con il progressivo avanzare dell'età media sul pianeta - almeno nelle zone più fortunate - e la ridefinizione dei cinquantenni come i nuovi quarantenni, i film ad argomento "terza età alla riscossa" hanno progressivamente ritagliato uno spazio sempre maggiore in sala negli ultimi anni, contaminando generi come l'action - la mirabolante saga degli Expendables -, la commedia - Last Vegas -, il crime movie - Uomini di parola - e, con questo Ruth&Alex - terribile l'adattamento italiano -, anche il film romantico.
Personalmente trovo che l'abuso di queste proposte abbia finito per mettere fin troppo alla prova il pubblico, senza contare l'effettiva qualità non sempre altissima delle stesse: personalmente, avrei tranquillamente evitato questa visione se non che, in una sera dall'eccessivo minutaggio nella pratica di messa a nanna del Fordino ha finito per restringere il cerchio al solo lavoro di Richard Loncraine con protagonisti i due arcinoti volti di Diane Keaton e Morgan Freeman giocata sul filo sottile della nostalgia e della simpatia dei due personaggi dagli stessi interpretati.
Il risultato non è stato malvagio quanto potessi aspettarmi, quanto più che altro abbastanza insipido e privo di una vera identità: regista e sceneggiatori, infatti, paiono non aver avuto affatto le idee chiare su come sviluppare la trama, mantenendosi sui ritmi della commedia, su quelli della riflessione legata al tempo che inesorabilmente passa, sulla dichiarazione d'amore a New York neanche fossimo in un film firmato da Woody Allen o il film indie leggero in grado di strizzare comunque l'occhio a tematiche attuali come la situazione del mercato immobiliare o la crescente paura alimentata dalle cicatrici lasciate dall'undici settembre.
Gli stessi protagonisti, in bilico tra memoria - confortevoli come una coperta, comunque, i loro ricordi di una vita passata insieme, in particolare la sequenza del ritratto di Ruth e quella della discussione rispetto all'impossibilità della stessa di avere figli -, energia ancora da vendere - incontenibile il sarcasmo di Freeman nel corso delle visite libere - ed incertezza sul futuro paiono non trovare un posto effettivo neppure nella pellicola, che annaspa tra comprimari irritanti - le due agenti immobiliari - ed altri potenzialmente interessanti ma dimenticati per strada - la bambina con la madre appassionata di riposini nelle case che visita senza avere la minima speranza di poterle comprare -.
Un filmetto, dunque, incapace di produrre i danni che mi auspicavo alla vigilia ma che non ha davvero nulla per rimanere davvero impresso nella memoria, se non il pensiero che, prima o poi, saremo noi a faticare a salire un buon numero di piani di scale e diverremo i vicini anziani di qualche giovane coppia nella quale finiremo, volenti o nolenti, per specchiarci, guardando alla loro età con nostalgia o con il sorriso che solo chi ha vissuto davvero destina ai propri figli e nipoti o a tutti quelli che potrebbero esserlo.
  




MrFord




"Don't know what's comin' tomorrow
maybe it's trouble and sorrow
but we travel the road, sharin' our load
side by side."
Ray Charles - "Side by side" - 






lunedì 10 agosto 2015

Youth - La giovinezza

Regia: Paolo Sorrentino
Origine: Italia, Francia, Svizzera, UK
Anno:
2015
Durata:
118'





La trama (con parole mie): Fred Ballinger e Mick Boyle, il primo ex direttore d'orchestra in pensione, il secondo regista pronto ad affrontare il suo film testamento, vecchi amici con ricordi ed esperienze condivise e due figli sposati tra loro, si ritrovano come di consueto tra le Alpi svizzere per una vacanza in un prestigioso albergo che ospita celebrità di tutti i campi.
Proprio entro i confini della località di villeggiatura si incrociano storie che riguardano il presente ed il passato di ognuno dei protagonisti e delle persone che vi si avvicinano nel corso del soggiorno, siano esse artistiche, professionali, emotive, riguardanti il tempo che fu o quello a venire: da Lena, figlia di Fred, lasciata di colpo da Julian, figlio di Mick, pronta a ricominciare a sentire la libertà, passando per il giovane attore Jimmy, fino ai bambini e a Diego Armando Maradona, si osservano le cadute e le ascese di individui che, pur protagonisti, finiscono per essere comparse della grande commedia umana, proprio come Fred e Mick.
Come si approcceranno, i due vecchi compari, all'idea della fine che si avvicina sempre di più?








In condizioni normali, da gestore del Saloon e portatore sanissimo di un certo tipo di approccio alla vita ed al Cinema, dovrei detestare profondamente un regista come Paolo Sorrentino.
Colto, vagamente snob ma ugualmente autoironico, membro di un'elite della settima arte invisa al grande pubblico così come ai critici più radical - gli stessi che, probabilmente, ai tempi de Le conseguenze dell'amore si facevano le seghe sui suoi movimenti di macchina salvo poi voltare le spalle all'autore non appena il successo e l'Academy giunsero a benedire il regista partenopeo -, capace, erede di una tradizione nata prendendo a piene mani dall'immaginario di un signore chiamato Federico Fellini, probabilmente il più grande cineasta che l'Italia abbia mai conosciuto.
Dovrei proprio detestarlo, questo talentuoso figlioccio non autorizzato del Maestro riminese.
Eppure, fatta eccezione per il mezzo scivolone di This must be the place, non ce la faccio proprio.
Ed ogni volta che approccio un suo lavoro, finisco come ipnotizzato e stimolato alla riflessione benchè parta con tutte le riserve ed i dubbi del caso: era accaduto anche con La grande bellezza, e si è ripetuto, inesorabilmente, con questo Youth, che probabilmente in molti speravano di vedere premiato all'ultimo Festival di Cannes.
Le vicende parallele di Fred e Mick, il primo ex direttore d'orchestra burbero ed apatico - almeno a suo dire - ed il secondo regista ancora smanioso di dimostrare il suo valore al mondo, incrociate a quelle degli ospiti di un albergo d'elite nel cuore delle Alpi svizzere, pur concedendo tutto il possibile al Cinema d'essai che spesso e volentieri tanto detesto sono riuscite a colpirmi al cuore per la loro disarmante semplicità, unita alla voglia di raccontarle ed un desiderio di confronto con l'ignoto rappresentato dal passato e dal futuro - bellissima la scena del cannocchiale tra Mick e Lena - cui nessuno di noi - almeno tra quelli che davvero vogliono vivere a fondo - riesce a resistere.
Senza dubbio, prima di apprezzare tutti questi aspetti mi sono trovato a dover superare anche passaggi nati ad uso e consumo di un certo tipo di pubblico intellettualoide e poco sopportabile - la "direzione d'orchestra" della Natura di Fred, su tutti - ed una confezione impeccabile e patinatissima che pare distante anni luce dagli standard che trovano i posti migliori qui al Saloon, eppure dal bellissimo confronto padre/figlia di Fred e Lena a proposito del perchè Julian abbia deciso di lasciarla ad uno straordinario Paul Dano - che non solo non sfigura davanti a due mostri sacri come Caine e Keitel, ma finisce quasi per superarli -, passando per i punti focali di vecchiaia e giovinezza - tematiche in grado di toccare qualsiasi pubblico, in quanto fasi della vita che siamo tutti destinati a sentire sulla pelle, scandite da "un'ultima illuminazione" come potrebbe essere Miss Universo ed il numero di pisciate giornaliere - ed una sequenza che non solo finisce per essere grande, grande Cinema, ma anche per dare un senso all'intero lavoro di Sorrentino, legato a doppio filo agli interrogativi sospesi tra passione e talento: Maradona, el pibe de oro, forse il più grande giocatore di calcio di tutti i tempi, sformato da una quasi obesità e provato dal fiato corto, che palleggia in modo praticamente fantascientifico con una pallina da tennis.
Basterebbe quel momento, per vedere tutta la grandezza di Youth e del suo regista.
Un passaggio in grado di far passare quella che pare una marchetta da tifoso nostalgico del suo idolo di gioventù una metafora di quello che è il passaggio dalla giovinezza in cui tutto è vicino, conquistabile, divorabile, alla vecchiaia che trova anche nell'impresa più facile difficoltà enormi: eppure, dietro tutto questo, ci sono voglia, desiderio - e di nuovo torna a galla l'inserimento di Dano -, libertà, genio.
Quello che ci aspetta nel mondo, è sempre la giovinezza.
Basta saperla accettare, cogliere, vedere dalla giusta prospettiva.
La stessa che porta Fred e Mick, in due modi diversi, con due percorsi quasi opposti, a mettersi in gioco ancora una volta.
Non si finisce mai di imparare, del resto.
E non si finisce mai di crescere.
E' questo il bello della vita.
E della giovinezza.




MrFord




"May you grow up to be righteous
may you grow up to be true
may you always know the truth
and see the lights surrounding you
may you always be courageous
stand upright and be strong
may you stay forever young
forever young, forever young
may you stay forever young."
Bob Dylan - "Forever young" - 




martedì 18 febbraio 2014

Philomena

 Regia: Stephen Frears
Origine: UK, USA, Francia
Anno: 2013
Durata: 98'



La trama (con parole mie): Philomena è un'anziana donna irlandese che, da mezzo secolo, rimugina sul destino del bambino che partorì quando era ancora una ragazza, considerato un peccato da scontare dalle suore presso le quali viveva e venduto come figlio adottivo ad una coppia di coniugi statunitensi. Venuta casualmente in contatto con Martin Sixsmith, ex capo ufficio stampa del Labour Party caduto in disgrazia presso i colleghi nonchè esperto giornalista, la vecchia signora finisce per ispirare lo stesso nella stesura di un libro verità sulla sua vicenda.
Supportata dalla figlia - avuta successivamente rispetto alla permanenza nel convento - e da una fede ed un ottimismo incrollabili, la donna si metterà in viaggio con il disilluso ed ateo Martin nella speranza di ritrovare il figlio ormai adulto negli States.







All'uscita in sala di Philomena, nuova pellicola firmata dal veterano Stephen Frears, ammetto di aver storto il naso all'idea dell'ennesima proposta da signore attempate da the delle cinque finto radical chic buone giusto per la pomeridiana all'Anteo - sala milanese tanto bella quanto inesorabilmente destinata ad un pubblico da sonore bottigliate -.
Tutto questo perchè, per dirla come la direbbe Philomena - la piccola, grande protagonista del qui presente sorprendente prodotto, interpretata ottimamente da Judi Dench -, non sono altro che un "ateo babbeo": lontano, infatti, dalla fede e dalla forza d'animo di questo charachter decisamente più complesso di quanto non appaia, avevo bollato l'opera di Frears come qualcosa di altamente trascurabile, da rimandare ad un'eventuale visione riempitivo futura, in barba alla nomination all'Oscar che, a visione dei candidati al titolo di miglior film avvenuta, risulta decisamente più meritata rispetto a quelle di Gravity e Captain Phillips - non che ci volesse molto, direte voi: ma lo scrivo come un complimento -.
Come si sarà dunque intuito, mi trovo a dover rivedere la posizione a proposito di un titolo che non sarà la scossa definitiva concepibile da uno spettatore o il riferimento assoluto per questo inizio duemilaquattordici - in questo senso soltanto un film è riuscito quasi ad affiancare lo strepitoso The wolf of Wall Street -, ma che è senza dubbio onesto, diretto ed efficace, pur non contando su una trama particolarmente innovativa o un ritmo da cardiopalma.
La perfetta sinergia che si crea tra la Dench e la sua spalla Steve Coogan - in questo caso presente anche in veste di produttore e sceneggiatore - sopperisce infatti ad una prima parte fin troppo lenta ad ingranare spingendo l'audience verso una conclusione al contrario efficace e toccante, in grado di colpire dal momento della rivelazione sull'identità ed il destino del figlio perduto di Philomena al confronto finale che vede coinvolta l'insolita coppia di viaggiatori ed improvvisati investigatori e la Superiora responsabile della vendita del bambino della protagonista, separato dalla madre all'età di tre anni. Rispetto a questo stesso confronto, e cercando con tutte le forze di non spoilerare troppo, inutile per me non prendere le parti - e la posizione più decisa - di Martin, scettico rispetto alla Fede ed ancor più riguardo le istituzioni religiose, pronto a gridare contro un'ingiustizia tra le tante commesse dalla Chiesa nel corso dei secoli e come tante lasciate ben nascoste sotto il pesante tappeto del timore reverenziale che in troppi, ancora, dimostrano di avere quando si tratta di confrontarsi con i galoppini dell'Altissimo, a prescindere dalla provenienza geografica e culturale degli stessi.
Una cosa, però, c'è da dire in favore delle conseguenze di questo incontro tra uno scettico convinto ed una vera credente: così come fu per Vita di Pi, non è detto che il faccia a faccia tra due opposti, quando è costruttivo e votato alla scoperta sincera dell'altro, non sia utile ad entrambi per guadagnare qualcosa in termini umani ed emotivi.
E la sensazione che io stesso ho provato nell'osservare lo sforzo ed il coraggio di Philomena nell'approcciare il perdono è stata quella di una più che sentita ammirazione, perchè neppure con tutte le buone intenzioni riuscirei a giustificare una scelta così forte e pura.
Se non l'amore per un figlio, sia esso perduto, o ritrovato.
Ed in questo senso, al termine del loro viaggio, Martin e Philomena finiscono per ritrovarsi entrambi nel ruolo che, forse, hanno inseguito per tutta una vita.



MrFord



"Mother, you had me, but I never had you
I wanted you, you didn't want me
so I, I just got to tell you
goodbye, goodbye."

John Lennon - "Mother" - 



 

mercoledì 26 giugno 2013

Paulette

Regia: Jerome Enrico
Origine: Francia
Anno: 2012
Durata: 87'




La trama (con parole mie): Paulette è una vecchia signora che vive alla periferia di Parigi, inacidita dalla vita e dalle vicissitudini che l'hanno portata a vendere il ristorante in cui ha lavorato fin da ragazza accanto al marito e passare il tempo a rifiutare quasi ogni contatto con l'esterno diffidando degli immigrati, dei vicini e perfino della figlia, sposata con un commissario di polizia di origini africane che le ha dato un nipote che Paulette si rammarica non sia bianco.
Ritrovatasi alle strette con la pensione troppo bassa e venuta per caso in contatto con il boss del quartiere, la donna finisce per reinvertarsi dapprima spacciatrice di hashish e dunque pasticcera di torte "speciali": di colpo, aiutata dalle sue più care amiche, il suo "giro" si allargherà tanto da impressionare - e preoccupare - perfino il boss del suo boss.




I nostri cugini transalpini da me tanto detestati, occorre ammetterlo, vivono un momento di grazia per quanto riguarda la settima arte che dura ormai da due stagioni piene, praticamente una situazione agli antipodi rispetto a quella in cui versa il Nostro Paese, sprofondato in un oblìo cinematografico capace di destare quasi più preoccupazione di quello politico o sociale.
Tra i molti grandi prodotti distribuiti, però, capita anche che perfino loro facciano qualche passo falso, seppur decisamente meno grave di quelli che siamo in grado di mettere in piedi noi della Terra dei cachi, quando ci mettiamo di buona lena: uno di questi è senza dubbio Paulette, commedia nera carina giusto per intrattenere un'ora e mezza scarsa ma assolutamente lontana non solo dai migliori standard del genere - e rispetto allo stile "geriatrico", decisamente meglio hanno fatto Irina Palm, Svegliati Ned e L'erba di Grace -, ma anche dalle proposte francesi cui ci siamo fin troppo ben abituati di recente.
Certo, gli spunti non mancano, le battute divertenti ed irriverenti ci stanno tutte, gli elementi dell'integrazione e del razzismo sono giocati bene, Bernadette Lafont - acidissima protagonista - e la sua spalla Carmen Maura - vecchia conoscenza dei fan di Pedro Almodovar - funzionano benissimo, eppure tutto viaggia su binari fin troppo facili, e all'interessante riflessione sull'arte di arrangiarsi nei tempi della crisi - ma in questo senso non ci sono paragoni con opere monumentali nello stile di Breaking bad - si contrappone un'aura fin troppo consolatoria da fiaba finto alternativa, che priva la protagonista con il suo gruppetto di irriducibili compagne - mitica Alzheimer! - di quella scintilla in grado di tracciare un confine tra la proposta d'autore da "Sundance style" europeo e la pellicola buona giusto per dare l'illusione di aver assistito alla proiezione di un film diverso dal solito ad un pubblico per nulla abituato al genere.
Da un lato mi dispiace anche, essere così duro con un titolo che mi ha comunque soddisfatto, con tutti i suoi limiti, e che è stato cornice di un pomeriggio "father&son" passato con il Fordino a farmi compagnia in assenza di Julez - stranezze della cassa integrazione -, ma nonostante ci abbia provato, in bilico tra il ricordo della famigerata serata post tortino magico ad Amsterdam di qualche anno fa e l'idea che ormai l'approccio di Quasi amici abbia lasciato il segno nella settima arte transalpina, o almeno nella sua componente più irriverente, non sono riuscito a voler bene ad un film che non ha davvero nulla che lo differenzi da molte altre proposte di medio livello che, seppur senza colpe, finiscono per essere dimenticate prima che il pubblico stesso possa accorgersi di essersele perse per strada.
Un peccato di certo, perchè senza dubbio l'idea che un anziano possa reinventarsi spacciatore per fronteggiare la crisi è interessante almeno quanto il fatto che la nuova professione possa finalmente ed una volta per tutti abbattere i muri tra le frontiere - niente male il rapporto tra Paulette ed i giovani del vicinato -, anche perchè sono certo che non è stata solo una vecchia vedova della periferia parigina a pensare ad una carriera di questo tipo per fronteggiare il disagio economico, eppure sono mancate, al lavoro di Enrico, la cattiveria e le scintille necessarie per compiere il passo che separa un filmetto da pomeriggio in relax da un titolo destinato a diventare un piccolo cult.


MrFord


"No hay chinas, no hay chinas hoy.
No hay chinas, no hay chinas hoy.
¡LEGA LEGALIZACIÓN!
CANNABIS de calidad y barato.
¡LEGA LEGALIZACIÓN!
CANNABIS basta de prohibición."
Ska P - "Cannabis" -



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