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martedì 18 febbraio 2014

Philomena

 Regia: Stephen Frears
Origine: UK, USA, Francia
Anno: 2013
Durata: 98'



La trama (con parole mie): Philomena è un'anziana donna irlandese che, da mezzo secolo, rimugina sul destino del bambino che partorì quando era ancora una ragazza, considerato un peccato da scontare dalle suore presso le quali viveva e venduto come figlio adottivo ad una coppia di coniugi statunitensi. Venuta casualmente in contatto con Martin Sixsmith, ex capo ufficio stampa del Labour Party caduto in disgrazia presso i colleghi nonchè esperto giornalista, la vecchia signora finisce per ispirare lo stesso nella stesura di un libro verità sulla sua vicenda.
Supportata dalla figlia - avuta successivamente rispetto alla permanenza nel convento - e da una fede ed un ottimismo incrollabili, la donna si metterà in viaggio con il disilluso ed ateo Martin nella speranza di ritrovare il figlio ormai adulto negli States.







All'uscita in sala di Philomena, nuova pellicola firmata dal veterano Stephen Frears, ammetto di aver storto il naso all'idea dell'ennesima proposta da signore attempate da the delle cinque finto radical chic buone giusto per la pomeridiana all'Anteo - sala milanese tanto bella quanto inesorabilmente destinata ad un pubblico da sonore bottigliate -.
Tutto questo perchè, per dirla come la direbbe Philomena - la piccola, grande protagonista del qui presente sorprendente prodotto, interpretata ottimamente da Judi Dench -, non sono altro che un "ateo babbeo": lontano, infatti, dalla fede e dalla forza d'animo di questo charachter decisamente più complesso di quanto non appaia, avevo bollato l'opera di Frears come qualcosa di altamente trascurabile, da rimandare ad un'eventuale visione riempitivo futura, in barba alla nomination all'Oscar che, a visione dei candidati al titolo di miglior film avvenuta, risulta decisamente più meritata rispetto a quelle di Gravity e Captain Phillips - non che ci volesse molto, direte voi: ma lo scrivo come un complimento -.
Come si sarà dunque intuito, mi trovo a dover rivedere la posizione a proposito di un titolo che non sarà la scossa definitiva concepibile da uno spettatore o il riferimento assoluto per questo inizio duemilaquattordici - in questo senso soltanto un film è riuscito quasi ad affiancare lo strepitoso The wolf of Wall Street -, ma che è senza dubbio onesto, diretto ed efficace, pur non contando su una trama particolarmente innovativa o un ritmo da cardiopalma.
La perfetta sinergia che si crea tra la Dench e la sua spalla Steve Coogan - in questo caso presente anche in veste di produttore e sceneggiatore - sopperisce infatti ad una prima parte fin troppo lenta ad ingranare spingendo l'audience verso una conclusione al contrario efficace e toccante, in grado di colpire dal momento della rivelazione sull'identità ed il destino del figlio perduto di Philomena al confronto finale che vede coinvolta l'insolita coppia di viaggiatori ed improvvisati investigatori e la Superiora responsabile della vendita del bambino della protagonista, separato dalla madre all'età di tre anni. Rispetto a questo stesso confronto, e cercando con tutte le forze di non spoilerare troppo, inutile per me non prendere le parti - e la posizione più decisa - di Martin, scettico rispetto alla Fede ed ancor più riguardo le istituzioni religiose, pronto a gridare contro un'ingiustizia tra le tante commesse dalla Chiesa nel corso dei secoli e come tante lasciate ben nascoste sotto il pesante tappeto del timore reverenziale che in troppi, ancora, dimostrano di avere quando si tratta di confrontarsi con i galoppini dell'Altissimo, a prescindere dalla provenienza geografica e culturale degli stessi.
Una cosa, però, c'è da dire in favore delle conseguenze di questo incontro tra uno scettico convinto ed una vera credente: così come fu per Vita di Pi, non è detto che il faccia a faccia tra due opposti, quando è costruttivo e votato alla scoperta sincera dell'altro, non sia utile ad entrambi per guadagnare qualcosa in termini umani ed emotivi.
E la sensazione che io stesso ho provato nell'osservare lo sforzo ed il coraggio di Philomena nell'approcciare il perdono è stata quella di una più che sentita ammirazione, perchè neppure con tutte le buone intenzioni riuscirei a giustificare una scelta così forte e pura.
Se non l'amore per un figlio, sia esso perduto, o ritrovato.
Ed in questo senso, al termine del loro viaggio, Martin e Philomena finiscono per ritrovarsi entrambi nel ruolo che, forse, hanno inseguito per tutta una vita.



MrFord



"Mother, you had me, but I never had you
I wanted you, you didn't want me
so I, I just got to tell you
goodbye, goodbye."

John Lennon - "Mother" - 



 

mercoledì 13 marzo 2013

2001: odissea nello spazio

Regia: Stanley Kubrick
Origine: USA, UK
Anno:
1968
Durata: 141'




La trama (con parole mie): dall'alba dell'Uomo al futuro dell'Infinito, dalle scimmie alla scoperta delle loro prime armi d'osso alle astronavi che danzano nello spazio siderale, seguiamo le vicende di chi incrocia la strada di un misterioso monolito che pare risalere a quattro milioni di anni prima della civiltà.
Heywood Floyd, studioso inviato sulla Luna per studiare un esemplare dello stesso gemello rispetto a quello che illuminò i primi Uomini, coglie un segnale che indirizza verso Giove: diciotto mesi dopo un'astronave guidata dai due piloti Frank Poole e Dave Bowman e dal calcolatore senziente HAL 9000 fa rotta verso il gigante gassoso.
Quando il computer di bordo inizierà a dare segni di squilibrio, per gli occupanti della nave la sopravvivenza diventerà una priorità, almeno fino al raggiungimento della loro meta.
A quel punto ci si muoverà andando oltre. E oltre. E oltre.





La Storia della settima arte dovrebbe considerare il 1968 come una sorta di vero e proprio anno zero, qualcosa come Avanti 2001 e Dopo 2001.
Dalle origini del Cinema, i Lumiere e Melies, Murnau e Chaplin, Welles e Lang, hanno posto basi simili alle meraviglie dell'antichità come le Piramidi d'Egitto, illuminando di stupore il pubblico e rendendo possibile il successo di un mezzo che è ad oggi tra i più potenti che la comunicazione umana conosca, realizzando Capolavori a volte considerati addirittura superiori all'Opus Magna di Kubrick.
Ma nessuno di loro, e nessuno dopo, ha mai osato portare sullo schermo qualcosa di grande quanto 2001: odissea nello spazio.
Qualsiasi recensione, voto, opinione, analisi tecnica risulterà sempre riduttiva rispetto a quello che, a mio parere, è e resta il film più importante del Cinema.
Dai primi, incredibili, venti minuti dedicati all'alba dell'Uomo che già basterebbero a portarlo nell'Olimpo della settima arte si vola dritti negli spazi siderali ricreati come una danza di effetti e modellini, musica per gli occhi come solo l'inarrivabile Stanley riusciva a comporre - e come faranno, alle soglie del nuovo millennio, ispirandosi proprio al suo approccio, due grandissimi di questo tipo di poetica visiva, Tarantino e Wong Kar Wai -, prima di partire alla volta di Giove osservando la tecnica stupefacente - come muoveva la macchina quest'uomo nessuno la muoverà mai, non me ne vogliano tutti gli altri - mescolarsi alla tensione crescente del confronto tra HAL e i due piloti della nave, culminata con sequenze da apnea nel vuoto siderale in grado di ispirare generazioni intere di Capolavori della fantascienza - Solaris, Alien, Blade runner, Moon tra gli altri - stendendo il tappeto per quello che, a conti fatti, è il trionfo assoluto ed incontrastato del regista newyorkese: il viaggio che conduce Dave Bowman attraverso l'Infinito, il Tempo e lo Spazio, e che esplode in una vera e propria sinfonia di suoni, immagini, colori, visioni che hanno più di qualsiasi altra influenzato l'intera carriera di cineasti fenomenali giunti dopo questo punto zero del Cinema, da Tarkovskij a Sokurov, da Malick ad Aronofsky.
L'Uomo di Kubrick, imperfetto ed in grado di valicare i confini ultimi proprio grazie alla sua stessa imperfezione - incredibile il confronto tra Bowman e HAL, dalla partita a scacchi ai blocchi di memoria smontati uno per uno - porta l'Universo dentro di sè, lascia che lo stesso lo attraversi, ci si specchia cercando la strada che percorrerà dalla nascita, alla maturità, alla morte, prima di rinascere ancora una volta.
L'Uomo di Kubrick è violento e viscerale come le scimmie con il loro primo sangue, sofisticato e politicizzato come Floyd, pronto a nascondere l'esistenza del monolito ai colleghi russi - si sentono ancora gli strascichi del Dottor Stranamore -, capace di gettarsi oltre le macchine, le intelligenze artificiali, i perfetti sistemi senzienti e lo spazio per affrontare il confine più terribile e sconvolgente di tutti: quello che porta dentro se stessi, proprio come Dave.
L'Uomo di Kubrick, per parafrasare un piccolo gioiellino di questo 2013 cinematografico, è infinito.
Ed è infinito 2001: odissea nello spazio, il film che più osa della Storia del Cinema.
Nessuno prima e nessuno poi sarebbe riuscito allo stesso modo a raccogliere la sfida di racchiudere la Storia dell'Uomo entro i confini di una pellicola: Stanley Kubrick riesce nell'impresa eliminando gli stessi, valicandoli attraverso il suo cristallino talento visivo unito ad un coraggio che normalmente non si assocerebbe ad un cineasta giudicato freddo ed ossessivo come lui.
Con tutto il cuore di cui dispone, l'incredibile Stan si tuffa oltre l'ostacolo, e dalle scimmie armate di ossa conduce dritti ad un disegno interstellare che pare una geometria divina, pur se orchestrata da qualcuno che divino decisamente non è e non fu: come dire che dall'arrivo del treno e dal viaggio sulla Luna si è passati attraverso una Rosebud del futuro che ha preso forma nel nuovo volto del Cinema.
Con 2001 è morta la settima arte, per risorgere in due ore e venti minuti.
Neppure qualcuno decisamente più potente, noto e celebrato del Maestro dei Maestri era riuscito in un miracolo di questa portata.
Lunga vita a Stanley Kubrick.
Lunga vita a 2001.
Se esiste o mai esisterà IL film, signore e signori, è tutto qui.
Ed è solo l'inizio.


MrFord


"Everything, everything, everything, everything..
In its right place
in its right place
in its right place
right place."
Radiohead - "Everything is in the right place" -


sabato 27 ottobre 2012

Cold Case - Stagione 7

Produzione: CBS
Origine: USA
Anno: 2010
Episodi: 22




La trama (con parole mie):  i detectives della sezione delitti irrisolti della Omicidi di Philadelphia stanno attraversando un periodo complicato. 
Lily Rush, storica investigatrice del gruppo, è in apprensione per un sospettato che alla fine della stagione precedente tentò di ucciderla rimesso in libertà da un giudice connivente, Scottie Valens scopre che sua madre nasconde un segreto, Nick Vera accusa problemi di salute che cerca di nascondere ai colleghi, Kat Miller deve fronteggiare il ritorno del padre di sua figlia, mentre Will Jeffries ed il capo del gruppo John Stillman dovranno fare i conti con i giochi di potere del nuovo Capo della Polizia.
Accanto alle loro vicende personali, i consueti casi che sono chiamati a risolvere, e che faranno tornare indietro fino ai tempi della Seconda Guerra Mondiale o a situazioni risalenti ad un paio d'anni prima.





E così, una delle prime serie che fecero capolino in casa Ford quando io e Julez andammo a vivere insieme è giunta alla conclusione.
Dovrebbe esserci almeno un pò di malinconia, a condire situazioni come questa - penso al vuoto lasciato dall'ultimo episodio di Lost, forse la serie più importante della mia vita, o alle lacrime spese per la chiusura incredibile di Six feet under -, e invece il serial che ha portato sui nostri schermi Lily Rush e i suoi colleghi ci ha salutato senza colpo ferire: in fondo, pur essendo un prodotto molto ben confezionato, occorre infatti ammettere la natura di intrattenimento puro e semplice che ha sempre mantenuto, stagione dopo stagione, arrivando addirittura quasi ad annoiare, lo scorso anno.
Curioso quanto, in questo senso, l'annata di chiusura sia stata decisamente superiore alle due che l'hanno preceduta, dando uno spazio ben maggiore all'approfondimento delle vicende personali dei protagonisti, forse l'aspetto che più era mancato a questo titolo fin dal principio.
In particolare, le vicissitudini ed il vacillare della Rush e le azioni di Valens per vendicare la madre - una cosa che avrebbe fatto sfregare le mani a Vic Mackie e alla sua Squadra d'assalto in The Shield - sono riuscite a dare quel pizzico di brivido in più ad una serie che, effettivamente, ormai aveva poco da dire perfino in quello che è stato uno dei suoi punti di forza da sempre, ovvero l'utilizzo di una colonna sonora spesso e volentieri memorabile.
Anche gli stessi casi affrontati dagli investigatori trovano una certa riscossa, quasi una risposta alla prevedibilità proposta con il passare del tempo - ricordo che, in tutta la sesta tornata, Julez mancò il colpevole solo in un'occasione, a volte centrandolo dopo tre o quattro minuti di visione -, finendo per proporre alternative nuove al consueto plot omicidio-sospettati-soluzione, ed inserendo episodi di concorsi di colpa ed addirittura un suicida ed un serial killer.
Probabilmente, però, nonostante la ripresa, effettivamente Cold case non aveva più molto da aggiungere al saturo panorama del piccolo schermo - nonostante io l'abbia sempre ritenuto migliore del commercialissimo CSI, ed il fratellino ufficiale di Criminal minds -, e a conti fatti trovo sia stato giusto porre la parola fine sulle vicende della squadra omicidi irrisolti di Philadelphia: buona, comunque, l'idea di giocarsi la carta di un possibile passaggio di Lily all'FBI - cosa che aprirebbe le porte ad uno spin off ambientato in tutti gli States -, mentre meno azzeccata la scelta del finale completamente aperto tipico dei titoli chiusi anzitempo - ricordo gli indecenti finali di Dirty, sexy, money e Flashforward, giusto per citarne un paio -.
Tra gli episodi, posso dire di essere rimasto colpito da quello ambientato nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, incentrato sulle figure delle prime donne aviatrici, e quello legato al mondo del circo, con una soundtrack d'eccezione tutta legata ai pezzi dei Doors ed un duo di protagonisti mitici, che i vecchi fan di Twin Peaks potranno riconoscere nel nano che parlava al contrario e nel gigante dei sogni di Cooper.
Il resto scivola via con piacere, come sempre, e merita senza dubbio, dopo tanti anni, tutto il mio apprezzamento ed anche un certo affetto che, nonostante la mancanza di un "vuoto" legato alla sua conclusione, si è consolidato per le storie raccontate da un prodotto solido ed affidabile, in grado di soddisfare i fan delle crime stories così come il pubblico occasionale come uno di quegli albi a fumetti che, anche dopo anni, continuano ad essere sfogliati con piacere da chi li ha conosciuti da vicino, e che poi finisce inevitabilmente per consigliarli ad amici, figli, colleghi e quant'altro.
In questo senso, Cold case ha fatto la sua storia, e l'ha conclusa a testa alta.
Dovesse ricapitarmi di trovarlo in tv - le poche volte che la guardo - o, un giorno, di fare il nostalgico come fanno ora i fan del Tenente Colombo con il fordino che starà crescendo, di certo non mi tirerò indietro all'idea di concedergli ancora uno sguardo.
In fondo, anche i casi più "freddi" non restano tali per sempre.



MrFord



"Shattered, shattered
love and hope and sex and dreams
are still surviving on the street
look at me, I'm in tatters!
I'm a shattered
shattered."
The Rolling Stones - "Shattered" -


 
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