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mercoledì 13 gennaio 2016

La grande scommessa

Regia: Adam McKay
Origine: USA
Anno: 2015
Durata:
130'








La trama (con parole mie): siamo nei primi anni duemila quando alcuni outsiders, geni, giovani rampanti e folli legati al mondo della finanza americana profetizzano quello che era da sempre considerato impensabile, l'implosione del mercato immobiliare, da sempre sostenuto fondamentalmente dalle truffe legalizzate perpetrate dalle banche a partire dai mutui.
Michael Burry, Jared Vennett, Mark Baum e Ben Rickert - di fatto mentore dei giovani Jamie Shipley e Charlie Geller - decidono di lanciare una sfida all'intero sistema attendendo come squali il momento in cui le loro intuizioni si riveleranno fondate: il tempo richiesto finirà per essere più del previsto, le difficoltà e i dubbi decisamente maggiori, ma quando alla fine i nodi verranno al pettine, per questo insolito manipolo di uomini arriverà l'attimo non solo della vittoria, ma anche dell'affermazione e della ricchezza.
Peccato che, di fatto, questo avrà significato la bancarotta per un intero Paese.










Non ho mai capito nulla, di finanza e simili.
E non sono mai stato attaccato ai soldi, come concetto o anche fisicamente.
Nel corso della mia vita, ho sempre speso quel poco che ho guadagnato, finendo per mettere a frutto l'amore per l'esperienza rispetto a quello che potrebbe dare un conto in banca ben ingrassato.
In un mondo come quello descritto con ironia pungente e sagacia da Adam McKay, ispiratosi ad un romanzo ed a fatti reali, probabilmente, risulterei fuori luogo almeno quanto in canotta e bermuda con tatuaggi in vista in una festicciola di radical chic hipster.
E forse anche di più.
Ammetto, dunque, di essermi sentito un povero stronzo in più di un'occasione, nel corso della visione de La grande scommessa, pronto a raccogliere i suggerimenti - spassosissimi - delle varie Margot Robbie o Selena Gomez chiamate a spiegare a noi comuni mortali cosa accade nei corridoi dell'alta finanza usando esempi e termini più vicini a quelli cui siamo abituati nella vita di tutti i giorni: in un certo senso, il lavoro del buon McKay ha riportato alla mente del sottoscritto la visione di Margin Call, più di quella di The Wolf of Wall Street, e la coscienza del fatto che, essendo così poco legato ai soldi, probabilmente finirò per essere per tutta la vita fregato da chi tira le fila del mondo in questo senso, spinto come sono più dal senso di sopravvivenza e dalla dedizione al succhiare il midollo della vita che non a preoccuparmi di tenere i conti o del fatto che la mia banca mi stia allegramente inculando con il mutuo.
Del resto, io non controllo neppure il cedolino della busta paga, giusto per darvi un'idea.
Ad ogni modo, La grande scommessa è senza dubbio uno dei titoli più interessanti di questo inizio anno molto promettente, un film corale che non è un film corale, una sorta di docu-fiction legata a fatti realmente accaduti che riesce a mantenere la giusta distanza dall'eccessiva freddezza della cronaca così come dall'enfasi a rischio retorica della grande pellicola strappa-Oscar, interpretato da applausi da un cast in grandissimo spolvero - su tutti, gli ottimi Christian Bale, sempre strepitoso, e Steve Carell, ormai diventato una garanzia - ed impreziosito da una serie di espedienti - l'utilizzo di Ryan Gosling e degli "ospiti" del regista prima di tutto - pronti ad alleggerire quello che, diretto diversamente, sarebbe apparso come un polpettone buono giusto per gli studenti di economia e gli aspiranti yuppies.
Pur riconoscendo il valore dell'opera, però, devo ammettere di aver amato La grande scommessa molto meno di quanto avrei voluto, finendo per giudicarlo "solo" un gran bel film, interessante e divertente ad un tempo, nonchè una denuncia per nulla sottile di un sistema - il nostro, figlio del consumismo e della corsa al possesso - che non può e non potrà fare nient'altro che danni e rimanere uguale a se stesso - emblematico il finale, in questo senso -: probabilmente, per un tipo pane e salame e poco interessato all'argomento come il sottoscritto, un prodotto di questo genere potrà sempre e solo apparire distante, e privo dell'emozione che, ogni volta che mi siedo sul divano, davanti al computer o in sala mi aspetto di ricevere come se fosse il bicchiere bello pieno dall'uomo dietro il bancone.
Di fatto, in casi come questo, è come se mi si porgesse un calice di vino - per quanto strepitoso - al posto di un Islay, o di un whisky giapponese.
Da par mio, dunque, scommetto sul valore de La grande scommessa pur non avendolo sentito così nel profondo, rimanendo a distanza con il bicchiere in mano pensando a quanti criminali sono a piede libero nel mondo senza neppure avere le palle per essere criminali veri, e quanto riesce ad essere davvero grande il Cinema americano quando si libera dalla retorica e decide di raccontare una storia, anche quando quella stessa storia è distante anni luce da quella che vorremmo ascoltare.





MrFord





"Master of puppets I’m pulling your strings
twisting your mind and smashing your dreams
blinded by me, you can’t see a thing
just call my name, ‘cause I’ll hear you scream
master
master
just call my name, ‘cause I’ll hear you scream
master
master."
Metallica - "Master of puppets" - 






martedì 7 maggio 2013

Effetti collaterali

Regia: Steven Soderbergh
 Origine: USA
Anno: 2013
Durata:
106'





La trama (con parole mie): Emily Taylor aveva tutto, un marito giovane, bello e ricco che l'amava, soldi, visibilità, svago, e tutto ancor prima dei venticinque anni. Quando il suo compagno Martin viene incarcerato per insider trading e sconta quattro anni, la giovane è costretta a ripartire da zero, trovandosi un lavoro e cercando di ricostruire un'esistenza dalle fondamenta.
Il ritorno di Martin, che in carcere ha fatto nuove conoscenze ed ha mille progetti per il futuro, però, non appare così roseo ad Emily, che sprofonda in una crisi depressiva e tenta il suicidio: affidata alle cure dello psichiatra Jonathan Banks, deciderà di sperimentare un nuovo e rivoluzionario prodotto in modo da poter tornare a vivere, senza sapere che lo stesso prevede consistenti effetti collaterali.
Quando, in preda al sonnambulismo, commette un delitto e viene incarcerata, sarà chiamato proprio Banks a fornire una perizia della giovane Emily: è l'inizio di un viaggio nella mente della donna che ribalterà da capo a piedi il mondo del medico.




Devo ammettere di essere rimasto molto sorpreso.
Onestamente, ero preparato a sfoderare le bottiglie delle grandi occasioni per festeggiare quello che, a quanto lui stesso afferma, dovrebbe essere l'ultimo atto sul grande schermo di Steven Soderbergh, pronto a ritirarsi dal giro della settima arte per concentrare le sue energie su Teatro e Musica: ed invece il buon Steven, che in passato ha abituato il sottoscritto a lavori decisamente convincenti - Traffic, Erin Brockovich, Sesso bugie e videotape, il recente Magic Mike - ed altri assolutamente inguardabili - la doppietta Contagion/Knockout - è riuscito a chiudere più che dignitosamente - e per ora - la sua carriera di cineasta con un thriller interessante e decisamente riuscito nell'intento di tenere inchiodati alla poltrona, giocato su una sceneggiatura furbetta ma efficace e su un'ottima interpretazione della fordiana Rooney Mara, che spolvera un personaggio sfaccettato e pericoloso - per se stessa e chi le sta accanto - guadagnandosi ulteriormente l'odio di Julez, che deve ormai averla identificata come l'attrice nemica numero uno.
L'idea di una sorta di trucco da illusionista - anche se non va certo paragonato ad una qualsiasi delle perle di Nolan - che distrae il pubblico dal bersaglio grosso passando dal dramma di coppia a quello della malattia mentale, per poi spostarsi sulle attualissime tematiche dell'insider trading e divenire una sorta di crime story con tanto di intrigo sentimentale ed il morto a rendere tutto più difficile - o più facile, a seconda dei punti di vista - è senza dubbio azzeccata, e Soderbergh riesce nell'intento di evitare che il suo lavoro assuma connotazioni banali e prevedibili virando spesso e volentieri, soprattutto spostando l'attenzione dello spettatore da Emily - assoluta protagonista e vittima nella prima parte - a Jonathan Banks - assoluto protagonista e vittima nella seconda -.
In questo senso Jude Law è bravo a raccogliere il testimone di Rooney Mara e ad assumere il ruolo nocchiero per l'audience, lasciata priva di riferimenti - almeno fino all'escalation conclusiva - e spaurita come il buon dottore cui presta il volto, ritenuto almeno in parte responsabile degli accadimenti che colpiscono Emily e Martin: il progressivo sprofondare di quello che, almeno all'apparenza, si presenta come un professionista integerrimo, diviene così una sorta di riflessione di regista e sceneggiatore a proposito dei lati oscuri e dei segreti che ognuno di noi finisce per avere, e che in determinate situazioni hanno il potere di diventare leve sfruttabili per indurci a commettere atti mai pensati prima o a rappresentare i varchi ideali nel nostro sbarramento di difesa, punti deboli perfetti per essere sfruttati da chiunque voglia manipolarci, o portarci all'esasperazione e alla sconfitta.
E nello scioglimento della matassa Soderbergh riesce addirittura ad essere a suo modo originale nel mescolare ingredienti già visti e conosciuti, creando una sorta di (quasi) nuovo cocktail basato sul riciclo intelligente e mantenendo alta la tensione anche una volta rivelati i retroscena di un piano che ribalta completamente l'ottica di partenza, in un twist che ricorda in qualche modo il primo De Palma ed un certo tipo di Cinema made in USA anni settanta o legato alle migliori performance del recente Allen - Match point e Sogni e delitti -.
Certo, non è tutto oro quello che luccica, e senza dubbio Effetti collaterali si presenta come uno di quei titoli che si guardano rapiti la prima volta, curiosi di scoprire come si è stati raggirati la seconda e dalla terza assumono la non sempre conveniente connotazione dell'esercizio di stile, un pò quello che accadde, ai tempi, anche con un cult come Fight club: lungi da me pensare che quest'opera "ultima" del regista della saga di Ocean possa anche solo sognare di lasciare un segno marcato come quello della creatura di Fincher nata dal romanzo di Chuck Palaniuk, ma senza dubbio siamo di fronte ad una pellicola solida che porta a casa non soltanto la pagnotta standard, ma finisce per stupire - e neppure poco - pur articolandosi su un impianto che, di fatto, non ha nulla di davvero geniale nella sostanza, ma pare rimaneggiato ad arte nella forma.
Sicuramente, proprio per questo, c'è chi non esiterà a definirlo un film vuoto ed incapace di lasciare un segno in questo duemilatredici partito con il botto ed afflosciatosi settimana dopo settimana, eppure trovo che Soderbergh sia riuscito a trasformare un potenziale e banalissimo flop in un thriller d'autore di quelli che, ormai, paiono materia da consegnare alla Storia e al decennio che ne fece la fortuna, quei novanta che per uscire dalla sbornia di tamarrate che furono gli eighties finirono per ricordare al pubblico che era giunto il momento di tornare a sentire brividi lungo la schiena: e non c'è modo migliore, per scatenarli, che partire dal luogo più oscuro, affascinante e malleabile di ognuno di noi.
La mente. Anche quando la stessa è venata dalle più torbide passioni del nostro essere animali.


MrFord


"But instead, I kept my tears inside
'cause I knew if I started I'd keep crying
for the rest of my life with you
I finally built up the strength to walk away
don't regret it but I still live with the side effects."
Mariah Carey - "Side effects" -


martedì 16 ottobre 2012

Cosmopolis

Regia: David Cronenberg
Origine: Canada
Anno: 2012
Durata: 109'




La trama (con parole mie): Eric Packer, multimilionario ventottenne, sale sulla sua limo corazzata e superaccessoriata deciso ad attraversare Manhattan nonostante i ripetuti avvertimenti degli uomini della sicurezza in modo da sistemarsi il taglio in una particolare bottega dalla parte opposta della città.
L'Odissea che ne consegue diviene una galleria di incontri per Packer, che approfitta di moglie, amici, nemici, donne, idoli musicali, dipendenti e quant'altro per riflettere sull'economia, il sesso, gli scontri che vedono la gente comune ribellarsi al Potere e sull'idea che, un giorno o l'altro, la moneta di uso corrente possa diventare il ratto.
O forse, sul nulla, mostrando dunque il vuoto di una società in decadenza e sull'orlo del baratro.




I cattivi presagi avevano cominciato ad addensarsi come nuvole cariche di tempesta sulla carriera di Cronenberg - uno dei miei favoriti di sempre, autore nel passato recente di Capolavori quali A history of violence e La promessa dell'assassino - con A dangerous method, primo film effettivamente deludente del regista canadese: in quell'occasione, decisi comunque di dare fiducia al geniale David, che negli anni è sempre stato capace di stupirmi, e che già ai tempi veniva annunciato al lavoro su un progetto ambizioso e potenzialmente cultissimo, ispirato ad un romanzo amato praticamente ad ogni latitudine del pianeta, Cosmopolis di DeLillo.
Onestamente, non ho ancora letto il libro in questione - e, a questo punto, dubito che lo farò -, ma il fatto che Cronenberg tornasse a cimentarsi con una materia a lui congeniale - una sorta di versione alternativa del prossimo futuro legata al decadimento morale che tanto mi ricordava cose splendide come Videodrome o Crash - riusciva a stuzzicare nel sottoscritto tutte le vibrazioni giuste: peccato, però, che il Cosmopolis cinematografico si sia rivelato come una delle cose che maggiormente riescono ad irritarmi, per quanto riguarda la settima arte.
Tradotto in linguaggio pane e salame, quest'ultima fatica del cineasta responsabile di meraviglie come La mosca, Inseparabili, M. Butterfly e chi più ne ha più ne metta è una vera, inesorabile, impressionante merda d'autore.
Certo, la regia è pulitissima, il variegato cast funziona - se così si può cercare di credere -, fotografia, montaggio e colonna sonora paiono perfetti come un piatto da ristorante chic, peccato che manchi tutto quello che, di norma, fa la differenza tra un polpettone da pippaioli d'essai ed un vero, succulento, lavoro da amanti del Cinema.
Posso capire che l'opera da cui è tratto sia in realtà una sorta di arzigogolato ritratto ispirato dal vuoto della società dei mercati, del capitalismo e di tutti quei precetti che ora finiscono per far funzionare il mondo - che lo si voglia o no -, ma non esiste alcun motivo - proprio alcun cazzo di motivo, David - per sottoporre l'audience a quasi due ore due di martellamento di cosiddetti con dialoghi che paiono sparati a caso in bocca ai protagonisti e che, tendenzialmente, fanno venire una voglia irresistibile di dispensare bottigliate fino a slogarsi l'articolazione della spalla a quello che pare un compiaciuto e davvero irritante ralenti intellettuale.
Non fossi stato frenato da un certo rispetto per la settima arte, avrei volentieri premuto il fast forward per andare direttamente dalla prima all'ultima sequenza senza preoccuparmi troppo di ratti, prolungate visite di prostate asimmetriche, agghiaccianti siparietti moglie e marito nonchè amante e marito - pessima la Binoche -, salvando da una montagna di noiosissimo ciarpame soltanto la morte della star musicale e lo scontato eppure interessante confronto con il capo della sicurezza.
Quello che mi domando è: cosa diavolo è successo al Cronenberg delle mutazioni fisiche, dell'estremo, dei confini varcati con uno spirito da esploratore della mente - e non solo del corpo - degno d'altri tempi?
Il metodo che appariva pericoloso soltanto per la qualità delle sue pellicole applicato ad un vuoto che risulta asfissiante - per noia e nient'altro - è quanto di più lontano possa esistere rispetto all'inquietudine del finale del già citato A history of violence, o delle eleganti beffe di Exsistenz: Cosmopolis è il nulla che tanto si contesta alla nostra generazione e momento storico, un'apparenza che, se non fosse Cronenberg a firmare, starebbero tutti ad etichettare come lo sfogo di qualche bulletto alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa.
Non credevo davvero che mi sarei ritrovato a scrivere un post così furente rispetto a quello che era indiscutibilmente uno dei numeri uno della mia lista - almeno per quanto riguarda il Nord America -, e invece dopo Scorsese e Malick anche il vecchio David pare caduto nella trappola della moda, del cool a tutti i costi e dell'elite intellettuale che più passa il tempo e più mi ritrovo a combattere a bottiglie tratte.
Peccato.
Perchè autori come lui ce ne sono pochi.
Ed il pensiero che possa essere caduto così rovinosamente, fa davvero pensare che forse, per il Cinema, lo stesso vuoto rappresentato da Packer sia decisamente più vicino di quanto non si creda.
Un pò come quelle nuvole minacciose rispetto a Cronenberg pronte a piovere calci rotanti made in Saloon.


MrFord


"Past the stars in fields of ancient void
through the shields of darkness where they find
love upon a land a world unknown
where the sons of freedom make their home
leave the earth to Satan and his slaves
leave them to their future in their grave
make a home where love is there to stay
peace and happiness in everyday."
Black Sabbath - "Into the void" -


 
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