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sabato 22 settembre 2012

The yards

Regia: James Gray
Origine: USA
Anno: 1999
Durata: 115'




La trama (con parole mie): il giovane Leo Handler torna a casa dopo quasi due anni di carcere scontati senza fare i nomi dei suoi inseparabili amici, divenuti nel frattempo pezzi grossi del quartiere al lavoro per lo zio acquisito del ragazzo, Frank Olchin, nel giro delle riparazioni dei vagoni e delle linee metropolitane che dalla Grande Mela portano fino al Jersey.
L'uomo vorrebbe che Leo frequentasse un corso di due anni da meccanico per poi iniziare a lavorare onestamente e si offre di mantenere lui e la madre fino al termine degli studi, ma la spinta di Will, braccio destro di Frank e amico d'infanzia di Leo è decisiva perchè quest'ultimo sia affiancato a lui sul campo.
Will si occupa principalmente di spianare la strada affinchè la società di Frank si assicuri gli appalti migliori sulla piazza, spesso e volentieri grazie a corruzione e violenza: quando il gioco comincia a farsi pesante e ci scappa il morto, però, Leo si troverà di nuovo tra l'incudine e il martello, la Famiglia e la Legge.




Lo ammetto senza fare troppi giri di parole: io adoro James Gray.
Nel Cinema americano recente, nessuno meglio di lui mi pare abbia saputo raccogliere l'eredità pesantissima dello Scorsese degli esordi, di Mean streets e Taxy driver, mescolandola a quello che ha portato il vecchio Marty al tanto atteso Oscar con The Departed.
Dal fulminante esordio con Little Odessa all'ultimo, magnifico Two lovers - in attesa del nuovo progetto, atteso per il 2013 -, questo giovane regista è stato in grado di fotografare la realtà del confronto tra la famiglia di sangue e quella d'adozione - spesso legata alla criminalità - in quell'angolo di mondo caotico e magico per tutti gli spettatori di un certo tipo di Cinema che è la strada che corre dal cuore di New York agli angoli più remoti del Jersey, persa nei meandri di città che paiono costruite da pochi giorni ma che hanno visto decenni di lotte, sangue e morte consumarsi nelle loro strade - delle quali anche I Soprano furono interpreti d'eccezione -.
The yards, fratello minore di quello che diverrà il successivo I padroni della notte, era l'ultima delle opere di Gray che ancora mancava all'appello in casa Ford, una visione che ho ripescato con enorme piacere ed ennesima conferma del talento di questo autore ancora troppo poco noto al grande pubblico: sfruttando al meglio un cast che tornerà spesso e volentieri di fronte alla sua macchina da presa - dall'attore feticcio Joaquin Phoenix a Marc Wahlberg che saranno di nuovo uno accanto all'altro nel già citato I padroni della notte, a James Caan, per culminare con una strepitosa Charlize Theron -, uno spiccato gusto per una messa in scena profondamente teatrale - forse la differenza più evidente rispetto all'approccio "street" dei primi lavori scorsesiani - ed una sceneggiatura potente e secca scritta a quattro mani con Matt Reeves - che diverrà noto al grande pubblico per il giocattolone Cloverfield - il regista confeziona un prodotto di grande stile che ricorda il meglio dei crime movies made in Usa nel corso degli anni settanta ed opere più recenti quali Donnie Brasco e Carlito's way, un dramma amaro e terribile in cui nulla - o quasi - è destinato ad andare per il verso giusto, frutto delle scelte e del fato di personaggi assolutamente umani lanciati a tutta velocità in una discesa che conduce inevitabilmente allo schianto.
Emblematici i casi dei tre giovani protagonisti, legati da sentimenti forti quanto pericolosi - l'amore segreto di Leo per Erica, l'amicizia che lo lega a Will e la proposta di matrimonio di quest'ultimo alla ragazza - e già segnati e dati in pasto ad un mondo "degli adulti" corrotto, corruttore e corruttibile, di fronte al quale non avranno alcuna arma o possibilità di uscire indenni: Will, che Leo ha protetto nel periodo trascorso in carcere, passa dal ruolo dell'amico scomodo che condurrà sempre sulla cattiva strada a quello di vittima sacrificale di un gioco che sarebbe stato lui stesso pronto a sfruttare, parallelamente al distacco che porterà il suo vecchio "fratello" a compiere scelte apparentemente inconcepibili in un mondo all'interno del quale vige la regola del silenzio.
Ma tutto il dramma portato sullo schermo da Gray assume una dimensione ancora maggiore negli occhi tristi di Erica, che pare lottare con tutta se stessa affinchè l'oscurità che si annida all'esterno possa non entrare nella sua casa, o in quella che spera di costruire: Charlize Theron da così corpo ed anima ad un baluardo che non ha possibilità - come la madre di Leo, un'ottima Ellen Burstyn - di fronte al buio che campeggia spesso fuori dalle porte di case minacciate da continui blackout - dell'anima? -.
Forse è troppo prematuro definire James Gray lo Scorsese dei nostri tempi, eppure con la sua vena crime notturna e melodrammatica, violenta e triste, costruita su tanti vinti e nessun vincitore, continuo a scoprire e riscoprire tutta la potenza di un grande narratore dei bassifondi, un profondo conoscitore di quei legami di sangue in grado di spezzarci dentro, e che con ogni probabilità non riusciremo mai a spezzare a nostra volta.
Se non pagando un prezzo sempre troppo alto.


MrFord


"You can look at the menu
but you just can't eat
you can feel the cushion
but you can't have a seat
you can dip your foot in the pool
but you can't have a swim
you can feel the punishment
but you can't commit the sin."
Howard Jones - "No one is to blame" -


 

martedì 26 giugno 2012

Detachment

Regia: Tony Kaye
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 97'




La trama (con parole mie): Henry Barthes è un professore supplente di letteratura abituato a muoversi di istituto in istituto, saldo nel suo proposito di mantenere un distacco dagli studenti tale da fornire loro nel modo più equilibrato possibile tutti gli strumenti necessari per affrontare le difficili prove della vita.
Giunto in una nuova scuola sulla quale gravano i problemi dei giochi di potere rispetto alla direzione ed una condotta dei ragazzi praticamente incontrollabile, il giovane insegnante finirà per confrontarsi con le angosce dei suoi alunni, del resto degli insegnanti e di una giovane prostituta che cercherà di redimere in modo da fornirle un'alternativa alla strada.
Il tutto tenendo botta, non senza difficoltà, ai colpi inferti dai fantasmi di una vita senza buoni maestri che non ha lesinato nel segnarlo nel profondo del cuore.





"Ora basta", affermava deciso James Belushi/Rick Latimer nel supercult del trash tardo anni ottanta The principal, deciso a debellare tutto quello che rendeva il disastrato istituto che era stato spedito per i suoi problemi di condotta a dirigere un luogo in cui i giovani studenti si sarebbero persi.
Più o meno, è stato il mio pensiero quando i titoli di coda hanno posto fine alla sofferenza che è stata la visione di Detachment, celebratissimo ed attesissimo - da me per primo - grande ritorno sugli schermi di Tony Kaye, autore di un film che segnò un'intera generazione sul finire degli anni novanta, quell'American history X che, con tutti i suoi limiti, ancora riesce a scuotere il sottoscritto ad ogni visione.
Perchè lo sfoggio di autoreferenzialismo, retorica, arte pretestuosa e demagogia che è questo quasi infinito monologo di un Adrien Brody tornato ad interpretare il suo bollito personaggio depresso dopo l'illusione di ripresa data con il magnifico Dalì di Midnight in Paris volutamente ed insistentemente narrato da Kaye come se fossimo ancora nei magnifici anni dei Cahiers du Cinema, o nel pieno del fermento intellettuale dello stile jazz del primo Cassavetes è una delle delusioni più cocenti e terribili dell'anno, una sviolinata da presuntuosi e presunti grandi saggi della vita e della settima arte venuti a salvare noi poveri stronzi mortali dalle insidie del mondo brutto e cattivo.
Negli anni del mio percorso da studente, purtroppo per il sottoscritto, non ho avuto la fortuna di incontrare un insegnante davvero completo e rispettoso di uno dei ruoli più difficili, impegnativi ma anche appaganti dopo quello del genitore: spesso e volentieri mi sono trovato di fronte individui che, frustrati dalle mancate realizzazioni delle aspirazioni di gioventù, finivano per sfogare gli insuccessi personali esercitando il potere sugli studenti capitati nelle loro mani, senza preoccuparsi di quello che sarebbe stato di loro una volta terminato il percorso didattico - riferimento presente ad inizio pellicola, unico momento davvero promettente del lavoro di Kaye -.
Piccoli uomini e donne, incapaci di comprendere la vera meraviglia del ruolo di educatore: quello di consegnare ai propri allievi tutti gli strumenti possibili affinchè gli stessi possano fare sempre e comunque meglio di quanto abbiamo fatto noi stessi, e non necessariamente seguendo la stessa strada.
Una sorta di passaggio di testimone, una versione ancora più complessa - se possibile - di quello che dovrebbe accadere anche in famiglia.
Ma quasi peggio di tutti loro sono stati i presunti messia dell'insegnamento: personaggi ancora più subdoli, perchè nel loro caso il potere esercitato sugli studenti faceva leva sul fascino che erano in grado di esercitare fingendo una partecipazione ed un interesse che altro non erano se non un massaggio all'ego anche più disturbante di quello dei loro colleghi assetati di potere.
Passato il primo quarto d'ora scarso fino alla conclusione, è come se fossi stato ancora tra i banchi di fronte ad uno di questi ultimi, inebetito dalle fregnacce di un presunto messia, che mi sono sentito. Tanta voglia di stupire, imporre la propria idea, fare in modo che la stessa fosse percepita come migliore delle altre seppur celata dietro il confortante abbraccio del suggerimento.
Pensate con la vostra testa, ragazzi. Leggete, guardatevi attorno.
Ma fatelo sempre e comunque con i miei occhi.
A poco e nulla servono una messa in scena confezionata apposta per i Festival, un cast all star in cui James Caan e Bryan Cranston finiscono per fare le comparse di lusso dando spazio a Sami Gayle e Betty Kaye, brave abbastanza per i ricatti morali che sono i loro due ruffianissimi personaggi, supportati da una sceneggiatura che nel compimento delle vicende di Erica e Meredith trova il punto più alto - o più basso - della sua retorica mascherata da opera d'arte.
Con pellicole di questo genere ci vorrebbe lo Spike Lee dei tempi migliori, da Fa la cosa giusta a La 25ma ora: non si gioca con i ragazzi, i loro destini, le idee che vorresti fossero ancora le tue, perchè sei il primo che vorrebbe essere ancora al loro posto, e viverti tutta la vita con la testa di un adulto.
Loro sono qui per fare molto meglio di quello che abbiamo fatto noi.
E questo Detachment, passatemi il termine duro e piuttosto brusco, mi ha lasciato un sapore amaro in bocca: quello della pedofilia culturale.
Quindi, caro il mio Tony Kaye dell'insegnante buono che però pensa tanto a guardare in macchina e farsi bello scandalizzandosi se una collega dubita di lui, che ha abbracciato una studentessa in lacrime plagiata dal suo modo cool di farla sentire speciale, vaffanculo.
Vaffanculo i disegni da film radical chic del cazzo, il montaggio alternativo, il voler premere sull'acceleratore quel tanto che basta per far rimanere a bocca aperta qualche Giuria che non sa davvero cosa significa stare tra quei banchi.
E mi sa tanto che non lo sai neanche tu.
Fanculo tu ed il tuo sincero patinatismo, o paternalismo che dir si voglia.
Ti rispedisco tra i banchi a suon di bottigliate.
Bocciato.
E chissà che l'anno prossimo, se sarai ne La classe giusta, tu non ti decida ad imparare qualcosa.
O ancora meglio, ad insegnarla.


MrFord


"Well we got no choice 
all the girls and boys
makin' all that noise 
'cause they found new toys 
well we can't salute ya can't find a flag 
if that don't suit ya that's a drag."
Alice Cooper - "School's out" -


 
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