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lunedì 8 febbraio 2016

The hateful eight

Regia: Quentin Tarantino
Origine: USA
Anno:
2015
Durata:
187'






La trama (con parole mie): siamo nel cuore dell'inverno in Wyoming, quando John Ruth, cacciatore di taglie soprannominato "il Boia", sta conducendo nella cittadina di Red Rock la ricercata Daisy Domergue, in modo da consegnarla viva e riscattarne la taglia.
Quando, sulla via, incontra l'ex Maggiore dell'esercito nordista Marquis Warren, anch'egli cacciatore di taglie con prede da consegnare - morte -, quello che doveva essere un viaggio tranquillo diviene una vera e propria lotta per la sopravvivenza: caricato il Maggiore sulla diligenza con quello che dovrebbe divenire lo sceriffo di Red Rock, Chris Mannix, figlio di un ufficiale sudista ribelle, Ruth è costretto a causa della tormenta incombente a ripiegare sulla stazione di cambio gestita da Minnie, in modo da lasciare che il clima divenga più favorevole.
Peccato che Minnie stessa abbia lasciato la gestione del locale ad un messicano mai incontrato, e che gli ospiti non ispirino tutta questa fiducia: avrà inizio, dunque, una sorta di partita a scacchi tra Ruth, Warren e Mannix ed il resto dei loro forzati compagni di sosta.











L'approdo in sala di Tarantino è sempre, in un modo o nell'altro, un evento.
Il ragazzaccio del Tennessee, fin dai tempi de Le iene e Pulp fiction, ha catalizzato l'attenzione non solo della critica, ma anche del pubblico mainstream, finendo per diventare, di fatto, uno degli autori più di culto che la settima arte statunitense abbia prodotto negli ultimi cinquant'anni.
Al suo ottavo film, il vecchio Quentin ha lanciato un'altra sfida: sfruttare il Western, già materia del precedente Django Unchained, per raccontare, di fatto, un thriller da camera decisamente teatrale che non sfigurerebbe nella filmografia di un Polanski, pur filtrato attraverso la mitologia pulp che, di fatto, ha lui stesso consacrato.
E ci sarebbero scene a profusione, da citare in termini critici, dai dialoghi fitti e serrati della prima parte alle immagini del finale, dalla rappresentazione della cultura americana come e più di quanto non fu fatto con il già citato Django al retaggio dei Dead man e de Gli spietati, tra giustizialismo a stelle e strisce a menzogne vendute come sogni.
Di fatto, per quanto mi riguarda e di pancia - scrivo questo pezzo un mese prima che esca in Italia, fresco di visione -, The hateful eight è il film più maturo di Tarantino come regista, il primo a sfidare davvero sia il suo "pubblico occasionale", più alternativo e giovane - principalmente, gli amanti di Kill Bill - sia quello di vecchia data, che si aspetta ad ogni nuova uscita un'innovazione anche quando, di fatto, la stessa innovazione risulti ormai un marchio di fabbrica - come la decostruzione temporale che rese così noto il vecchio Quentin ai tempi della Palma d'oro a Pulp fiction -: troppo lento ed ostico per i primi, troppo classico per i secondi, anche quando, di fatto, The hateful eight non è l'una o l'altra cosa.
Da amante del West e della Frontiera, ho adorato il modo in cui, di fatto, Tarantino ha snobbato entrambe le cose, finendo per raccontare una storia di violenza, vendetta, menzogna, voglia di dimostrare chi si è e chi non si è pur di arrivare a quello che si vorrebbe, adattabile a qualsiasi epoca ma soprattutto specchio di quello che è da sempre la cultura degli USA, dal senso del dovere esasperato - John Ruth - al giustizialismo - quei "bastardi che vengono impiccati dai più bastardi che sono quelli che impiccano" -, dai problemi razziali al concetto del "self made" in grado di sconfinare oltre ogni limite.
Ed è curioso come e quanto i charachters tutti d'un pezzo che tanto hanno fatto la fortuna della settima arte del passato siano spazzati via in favore di quelli che, al contrario, vivono di sfumature, profondamente umani nel loro essere in bilico tra senso comune ed istinti primordiali: e nel film meno "musicato" - nonostante il lavoro splendido di Morricone - di Tarantino a fare la parte del leone sono soprattutto i personaggi, pensati e sentiti profondamente dal Quentin sceneggiatore, prima che regista, coccolati nel bene e nel male dal primo all'ultimo minuto, ed a prescindere dal tempo concesso agli stessi davanti alla macchina da presa.
The hateful eight diviene, dunque, una versione della maturità de Le iene, un dramma da interno che potrebbe essere inserito in qualsiasi contesto ed epoca, vissuto più come una lettura dell'animo umano - ed in particolare statunitense - che non come un omaggio al Cinema di genere che tanto Tarantino ha dichiarato di amare: e senza dubbio, è uno dei suoi lavori più puri, in termini di settima arte.
Ma, ancora una volta, non voglio confinare un'opera di questa portata ad un post ed una recensione "di testa": The hateful eight è un film di interiora, carne e sangue, per quanto figlio di un cervello che quasi scoppia dalla voluminosità del materiale che contiene, un'opera di immagini di potenza rara - le "ali" di Daisy formate dalle racchette da neve su tutte - e volgarità sopra le righe, che non ha mezze misure e non le chiede, sfrutta il retaggio del percorso del suo autore ma ha un'identità così forte da scomodare paragoni per il sottoscritto di norma impossibili da mettere in gioco.
Qui non si entra in un Saloon con bevute, pacche sulle spalle e magari, di tanto in tanto, qualche pugno: qui ci si muove in un covo di vipere, con gli istinti primordiali che tutti noi umani, chi più predatorio e chi meno, portiamo in dono al mondo.
Ruth o Domergue, poco cambia.
Quelli sono gli estremi.
Ed intanto i Mannix così come i Warren dovranno continuare a vivere giocandosi tutto su faccia tosta o menzogne, pompini alle convenzioni razziali e lettere d'amore a qualcuno che possiamo soltanto sognare di conoscere.
In un certo senso, si potrebbe pensare che il West sia stato la preistoria del social marketing.
O che, ancora più semplicemente, l'Uomo non possa vivere senza un confronto all'ultimo colpo con chi sta di fronte a lui: caccia o complicità che sia.





MrFord





"I am tired of this devil
I am tired of this stuff
I am tired of this business
so when the going gets rough
I ain't scared of your brother
I ain't scared of no sheets
I ain't scare of nobody
girl, when the goin' gets mean."

Michael Jackson - "Black or white" - 









lunedì 2 marzo 2015

Selma - La strada per la libertà

Regia: Ava DuVernay
Origine: USA, UK
Anno:
2014
Durata:
128'
 




La trama (con parole mie): Martin Luther King, leader afroamericano fondamentale nella lotta per la conquista di diritti civili fino ai primi anni sessanta negati alla sua gente dai salotti della Casa Bianca e dal rapporto con Lyndon Johnson fino alle marce di protesta, ritratto in uno dei momenti cruciali della sua carriera politica ed esistenza.
A Selma, in Alabama, si visse infatti nel sessantacinque una delle stagioni più importanti della lotta per il voto degli afroamericani ed alcuni dei drammi più terribili legati alla conquista di diritti che ogni uomo dovrebbe acquisire alla nascita: sostenuto da gente comune, avversari politici come Malcolm X, il suo entourage e la famiglia, il Dottor King dovrà fare fronte alle difficoltà organizzative, personali, politiche e legate all'ignoranza manifestata dagli estremisti bianchi in modo da portare a termine quello che sarà ritenuto un atto dimostrativo pacifico fondamentale per conquiste che ancora oggi hanno importanza nella società.








In quello che, con ogni probabilità, sarà ricordato come l'anno dei biopic - almeno rispetto ai film candidati nelle categorie principali degli Oscar -, una proposta come Selma era davvero un rischio: trattando una tematica importante ma potenzialmente pericolosa - in termini di resa finale e trabocchetti legati alla retorica - come quella dei diritti civili passando attraverso una delle figure cardine legate agli stessi, Martin Luther King, Ava DuVernay di fatto ha deciso di scommettere sulla sua capacità di narratrice mettendo probabilmente in conto di finire, in caso di fallimento, per essere ricordata come la conciliante regista del The butler di questa stagione.
Fortunatamente per noi la coraggiosa donna dietro la macchina da presa è riuscita nell'impresa di trovare il giusto equilibrio e consegnare all'audience un film artigianale e privo di chissà quali spunti "alti" eppure solido e potente, sobrio e di pancia, interpretato alla grande da tutti i i suoi protagonisti e pronto a raccontare le vicende legate a Selma, Alabama - uno dei centri nevralgici della lotta di quegli anni - senza essere schiacciato dagli stessi e dai loro interpreti - Tim Roth, Tom Wilkinson e David Oyelowo su tutti -: la presenza, infatti, nel ruolo di protagonista, di Martin Luther King - e, seppur solo per una breve parentesi, di Malcolm X - non inficia la narrazione che resta legata a doppio filo ad una città e ad una zona, quella del profondo Sud, che ancora oggi mostra di avere problemi legati alla gestione dei rapporti tra bianchi e neri.
Una narrazione che non solo non patisce le oltre due ore di durata, ma che ha il potere di intrattenere il pubblico come il più riuscito dei blockbuster d'autore hollywoodiani e ad un tempo soddisfare quantomeno in parte il desiderio di una certa asciuttezza di fondo del pubblico più di nicchia e della critica: interessanti, in questo senso, il confronto tra l'approccio assolutamente passionale del Dottor King e del suo entourage contrapposto a quello degli organismi di controllo statunitensi, ben rappresentati dai report "battuti a macchina" all'inizio di ogni sequenza dai riscontri storici documentati, neanche ci trovassimo all'interno di un file della CIA o dell'FBI fino ad ora secretato e rivelato all'opinione pubblica nella sua interezza.
Dovendo pensare a quello che dovrebbe essere il classico blockbuster artigianalmente di livello superiore che si finisce per vedere e rivedere sempre con grande piacere - come fu The Help tre anni or sono - traendo una lezione importante anche in termini di contenuti, Selma sarebbe un ritratto perfetto, senza dubbio superiore agli spenti The Imitation Game e La teoria del tutto ed in linea con uno stile ed un approccio che riescono a mescolare il piglio del documentario, o della serie tv di qualità a quello del Cinema in grado di riunire lo spettatore occasionale e l'appassionato.
Tutte qualità non da poco, che si traducono al loro meglio più che nelle scene madri - la marcia nei suoi due tentativi, l'uccisione del ragazzo nella caffetteria - in quelle apparentemente marginali e legate al mondo più privato del Dottor King - il suo rapporto con Mahalia Jackson, le difficoltà con la moglie - ed alle incertezze che il Presidente Johnson ebbe rispetto all'appoggio dato al grande leader afroamericano.
Da questo punto di vista - ma non solo - il lavoro della DuVernay si può considerare un grande successo, ed un importante sguardo su una cittadina che, per quanto piccola e geograficamente lontana dai veri luoghi di potere USA, rappresentò il fulcro di una rivoluzione fondamentale per quella che, con tutte le sue imperfezioni, è la società attuale: la marcia di King e la sua lotta, unite, seppur distanti per ideologia, a quelle di Malcolm X, ebbero il compito di formare le nostre coscienze di bianchi prima ancora di quelle degli afroamericani, giunti alla vigilia di un cambiamento sacrosanto ed epocale nella loro vita sociale.
E forse, a ben vedere, una Selma - almeno in termini astratti, o di coraggio - servirebbe a volte anche oggi, non fosse altro che per sensibilizzare una società che troppo spesso si maschera dietro un finto progressismo.



MrFord



"One day when the glory comes
it will be ours, it will be ours
one day when the war is won
we will be sure, we will be sure
oh glory."
John Legend - "Glory" - 




mercoledì 20 marzo 2013

Arbitrage - La frode

Regia: Nicholas Jarecki
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 107'
 



La trama (con parole mie): Robert Miller è un magnate di successo, un milionario potente alle prese con affari che smuovono capitali da fantascienza al comando di un vero e proprio impero, un padre di famiglia spesso in ritardo ma sempre pronto a tornare a casa nei momenti che contano.
Robert Miller, però, è anche un uomo che cerca di proiettare un'immagine da vincente in modo da avere sempre le spalle in qualche modo coperte, anche quando gli affari non vanno così bene e tocca liquidare il suddetto impero grazie a trucchi da illusionista e squalo che, se portati alla luce, lo condurrebbero dritto in galera.
Il rischio maggiore però viene dall'amante di Miller, l'artista francese Julie, che una notte durante una gita in macchina muore a causa di un incidente causato da un colpo di sonno dell'uomo che, una volta in fuga, muove ogni pedina gli sia possibile affinchè tutto possa essere risolto sott'acqua, senza che le increspature turbino gli affari.
Riuscirà il capitano d'industria a far quadrare conti e questioni legali? O il detective Bryer sarà in grado di mettergli i bastoni tra le ruote?





Film come Arbitrage tornano sempre utili, nel loro sapore Classico, un pò come un whisky di malto che si sorseggia seduti in poltrona, in tranquillità, lasciandolo scivolare fin nel profondo e ben sapendo che il suo calore difficilmente si trasformerà nel malessere del "day after": il lavoro di Nicholas Jarecki, infatti, ripercorre le orme dei legal thriller dal sapore vagamente eighties che nel corso della mia infanzia funzionavano alla grande nel weekend, quando in casa Ford si riusciva, di tanto in tanto, a raggrupare tutta la famiglia davanti a titoli che mettessero d'accordo due onnivori affamati di pellicole come me e mio fratello - allora senza whisky - e spettatori occasionali come i nostri genitori, che non sono mai stati grandi amanti della settima arte.
Come se non bastasse, considerate le aspettative pressochè assenti che nutrivo alla vigilia, devo ammettere che la riflessione sul Potere e la sua gestione è riuscita a mantenere vivo il mio interesse dal primo all'ultimo minuto con una discreta facilità evitando al contempo di perdere troppi colpi dal punto di vista della logica, sfruttando una più che buona prova di Richard Gere, che porta sullo schermo un personaggio che pare la versione "romantica" del Gordon Gekko di wallstreetiana memoria.
Certo, la vicenda di Robert Miller e la sua lotta per mantenere a galla un impero milionario proiettando sempre e comunque l'immagine del vincente infallibile non sarà una novità e neppure una visione che sconvolgerà il vostro panorama del Cinema nel corso di questo 2013, eppure il meccanismo gira senza intoppi, stimola curiosità nello spettatore e giunge alla sua conclusione sfoderando anche una chiusura quasi autoriale con una neppure troppo velata critica ad un sistema che privilegia e privilegerà sempre gli squali ed il Potere - sia esso dato dal denaro, dalla politica o dai rapporti che si creano in una coppia o in famiglia - a scapito di chi lotta e si dibatte affinchè un giusto ordine delle cose possa essere di nuovo costituito - emblematico il personaggio del detective Bryer interpretato da Tim Roth, cornuto e mazziato nonostante i tentativi di mettere alle strette Miller/Gere inchiodandolo alle sue evidenti bugie e manipolazioni -.
Restiamo comunque nell'ambito del patinatissimo prodotto hollywoodiano, ma occorre dare merito a Jarecki di aver trovato un invidiabile equilibrio nel proporre una vicenda che in mano ad altri avrebbe rischiato retorica, confusione e conseguenti copiose bottigliate come fosse un compromesso tra il gusto del grande pubblico, una strizzata d'occhio ad un genere che negli ultimi anni ha certamente perso il suo antico splendore e perfino diversi risvolti quasi "di nicchia", ovviamente ben celati probabilmente per non incorrere in tagli o modifiche da parte di una produzione che avrà voluto senza dubbio e con forza l'impostazione laccata che Arbitrage porta - volente o nolente - nel profondo di ogni suo fotogramma.
In periodi di calma cinematografica come quello del post-Oscar, prodotti di questo genere, onesti e senza troppe pretese, realizzati con professionalità nonostante la forte impronta mainstream e quasi televisiva - l'influenza delle serie tv di stampo crime è evidente - sono perfetti per accompagnarci in serate senza troppo impegno e, chissà, anche ricordare visioni che hanno fatto parte della nostra formazione di appassionati.


MrFord


"I need a dollar dollar, a dollar is what I need
hey hey
well I need a dollar dollar, a dollar is what I need
hey hey
and I said I need dollar dollar, a dollar is what I need
and if I share with you my story would you share your dollar with me."
Aloe Blacc - "I need a dollar" -


sabato 10 novembre 2012

Le iene

Regia: Quentin Tarantino
Origine: USA
Anno: 1992
Durata: 99'



La trama (con parole mie): quando il vecchio, granitico Joe organizza una rapina in una gioielleria piazzando nella squadra i suoi uomini migliori coordinati dal figlio Eddie e questa finisce in una vera e propria carneficina, i superstiti corrono ai ripari in un vecchio magazzino con il bottino ed il sospetto che, tra loro, si annidi una spia della polizia.
Mr. White e Mr. Orange - l'acquisto più recente della squadra, ferito gravemente all'addome -, Mr. Pink con le sue ossessioni, Mr. Blonde ed il poliziotto che porta in dono per la banda attendono così l'arrivo dei loro boss cercando di scoprire quali inghippi potrebbero celarsi dietro l'operazione: tra il taglio di un orecchio, un lago di sangue ed il ricordo di quella che è stata la strada percorsa da Orange fino al momento dello sparo che potrebbe rivelarglisi fatale.
Un'opera fulminante, violenta e potentissima che avviò l'ascesa di uno dei registi statunitensi più importanti della storia recente.





Basterebbero la fava grossa di Madonna, il violino più piccolo del mondo e la danza di Michael Madsen prima di iniziare la tortura sul poliziotto, e non ci sarebbe bisogno di scrivere altro.
Le iene ha rappresentato, in una certa misura, per il Cinema quello che Nevermind è stato per il rock: non soltanto questo lavoro incredibile, sfacciato, scritto da dio e potentissimo ha lanciato quello che di lì a un paio d'anni sarebbe divenuto uno dei registi più cool del pianeta, ma ha definito lo standard di un genere, la voglia di "rivolta" che la settima arte covava nel cuore da troppo tempo, aspettando soltanto il grimaldello giusto che lo scassinasse.
Se Pulp fiction, a suo modo, ha rappresentato la perfezione come manifesto di genere del regista e Bastardi senza gloria l'equilibrio raggiunto tra estetica e contenuto, Le iene conserva ancora oggi tutta la carica selvaggia di uno stallone mai domato, l'esplosività dirompente di un bastimento di dinamite pura pronta ad scoppiare in faccia allo spettatore, sorprendendolo con un perfetto equilibrio di violenza ed ironia come pochi titoli negli anni successivi si vedranno sul grande schermo: i dialoghi fitti e le improvvise impennate da schizzo di sangue, i flashback a ricostruire la storia di Mr. Orange - che smentiscono all'istante chiunque potrebbe imputare al lavoro di Tarantino una mancanza di profondità -, lo scenario quasi western che minuto dopo minuto prende forma all'interno del capannone rendono questo film praticamente impareggiabile anche ora, ad un ventennio di distanza - e fa davvero strano pensare che sia passato tanto tempo -, dipinto con potenza anche maggiore sui volti sofferenti di Orange e White, sulle mani strette, il cameratismo e la fiducia nata sul campo, pur se, guardando ad una certa etica criminale, mal riposta.
E quelle pistole che si incrociano in un girotondo selvaggio quasi più del mucchio tracciano in rosso una nuova linea di confine ben oltre tutte le precedenti, che racconta storie diverse che partono una accanto all'altra per finire nello stesso posto, che attende tutti quelli che hanno scelto di vivere in una wasteland in cui non ci sono violini che tengano, e per quanto buone siano le mani che ci giochiamo, si finisce sempre a restituire tutto al banco.
Un pò come Orange, dalle risate in macchina con White e gli apprezzamenti sui culi alla Cosa dei Fantastici Quattro, dalla storia dei cani poliziotto a quel colpo sparato per salvare un compagno d'armi, un socio, un amico: e finire stecchito per mano di un proprio "simile".
Ironia della sorte, anche qui.
La vera iena pare essere proprio lei, che si fa beffe dei duri e dei vigliacchi, di chi spara e chi scappa, di chi fa quello che fa perchè è un piacere ammazzare cristiani e chi, invece, cerca una gloria che soltanto lui potrà capire in un gioco che non avrà mai un vincitore.
E non contenta, avvolge il pacchetto in una coperta calda e confortevole fatta di note che soltanto in pochi sarebbero riusciti a sposare allo stesso modo con le immagini - a mia memoria i soli Wong Kar Wai e Kubrick hanno fatto di meglio, mica bruscolini -, completando la meraviglia sfruttando il poco che serve per realizzare un vero e proprio colpo di genio.
O un colpo.
Che non è quello di una scellerata gioielleria o di una banda pronta ad implodere.
Quello di una pistola che spezza l'equilibrio, e chiede vendetta di un tradimento che potrebbe anche non esserlo.
Di una parte o dell'altra della Frontiera.

Della calma al calor bianco di Keitel o della furia rossa di Eddie.
Ma di Quentin Tarantino, l'uomo che sparò in faccia al Cinema.
E quella ferita sanguina ancora.


MrFord


"Well I don't know why I came here tonight,
I got the feeling that something ain't right,
I'm so scared in case I fall off my chair,
and I'm wondering how I'll get down the stairs,
clowns to the left of me,
jokers to the right, here I am,
stuck in the middle with you."
Stealers Wheel - "Stuck in the middle with you" -


domenica 17 luglio 2011

Lie to me Stagione 3

La trama (con parole mie): Cal Lightman torna alla ribalta pronto a smascherare nuovi bugiardi e ad esplorare i più remoti recessi della psiche umana una volta slegata la sua agenzia dal giogo dell'Fbi, divenuto troppo pesante per l'irrequieto, scorbutico e poco ligio alle regole protagonista. 
Chiusa senza troppi rimpianti la svolta action della stagione precedente, un ritorno ai casi singoli che umanizza Lightman ma toglie qualcosa alla costruzione dello script così come al lavoro sui personaggi.

Devo ammettere di aver sempre avuto un debole per i finti cattivi, anche quando il mio rapporto con gli stessi è dovuto passare attraverso un lento lavoro ai fianchi prima di arrivare alla folgorazione: dal mio "omonimo" Sawyer passando per Alex Karev ed Eric Northman, per non dimenticare il recente mito del digitale terrestre Gordon Ramsay, non sono mai riuscito a resistere al provocatorio fascino di questi all'apparenza poco avvicinabili personaggi.
Cal Lightman - come giustamente sottolinea Dembo, una sorta di versione sociologo di House - è entrato fin da subito nel novero grazie alla faccia di merda che il buon Tim Roth mette - a mio parere autobiograficamente - al servizio del suo protagonista: dopo una prima stagione folgorante, la serie pareva aver ceduto il passo ad atmosfere decisamente troppo action nella seconda annata, capace di dipingere un Lightman praticamente trasformato in una sorta di agente segreto supercazzuto alla Bourne e poco in linea con le aspettative che in casa Ford si avevano rispetto al personaggio, decisamente imperfetto nonostante i numerosi talenti.
In questa terza serie gli autori propongono una sorta di marcia indietro tornando ad un numero di episodi ridimensionato e all'eliminazione della parte che legava l'agenzia del protagonista all'Fbi con conseguente pacchetto di missioni ad alto rischio ed intrighi internazionali di vario genere: se, dunque, da un lato la dimensione decisamente più a misura d'uomo riporta il fascino indubbio che questo prodotto aveva risvegliato negli spettatori nel corso della prima stagione, dall'altro pare essersi perso l'approfondimento dei personaggi principali, resi più esili nello spessore neanche fossimo in una qualsiasi annata del pur discreto Cold case.
La storia tra Torres e Locker caduta nel dimenticatoio così come la figura dell'agente Reynolds, il sospeso tra lo stesso Lightman e la collega/socia Foster rimasto tale e quale dalla prima all'ultima puntata, la voglia di emancipazione manifestata fin dai tempi della prima stagione dallo stesso Locker parcheggiata come fosse un tratto da sfruttare soltanto per solleticare le continue punzecchiature ad opera dell'incontenibile Cal: un vero peccato, considerata la potenzialità dei personaggi, che si spera gli autori vogliano recuperare con la prossima stagione e tornare ad analizzare almeno quanto i protagonisti fanno rispetto ai casi che di volta in volta si presentano.
Ben gestito - pur se in qualche modo reiterato - il legame tra il dottore a caccia di menzogne e la figlia Emily, una delle parti più divertenti e ben costruite dell'intera stagione: insieme all'inserimento di un possibile nuovo membro della squadra, se ben studiata questa potrebbe diventare senza troppa fatica una delle linee guida più interessanti della prossima serie, proponendo in questo senso una sorta di specchio e confronto del protagonista con se stesso attraverso gli occhi ed il cuore della ragazza.
Il tutto, comunque, senza dubitare neppure un istante, pur rimanendo nell'ambito dell'intrattenimento, che questo insolente specialista della bugia possa essere in grado di stupirci di nuovo.

MrFord

"White lies for dark times and I don't need your crutch
I'm kicking out stained glass windows and I'm
Tender to the touch."

Ben Harper and Relentless 7 - "Shimmer and shine" -

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