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lunedì 8 febbraio 2016

The hateful eight

Regia: Quentin Tarantino
Origine: USA
Anno:
2015
Durata:
187'






La trama (con parole mie): siamo nel cuore dell'inverno in Wyoming, quando John Ruth, cacciatore di taglie soprannominato "il Boia", sta conducendo nella cittadina di Red Rock la ricercata Daisy Domergue, in modo da consegnarla viva e riscattarne la taglia.
Quando, sulla via, incontra l'ex Maggiore dell'esercito nordista Marquis Warren, anch'egli cacciatore di taglie con prede da consegnare - morte -, quello che doveva essere un viaggio tranquillo diviene una vera e propria lotta per la sopravvivenza: caricato il Maggiore sulla diligenza con quello che dovrebbe divenire lo sceriffo di Red Rock, Chris Mannix, figlio di un ufficiale sudista ribelle, Ruth è costretto a causa della tormenta incombente a ripiegare sulla stazione di cambio gestita da Minnie, in modo da lasciare che il clima divenga più favorevole.
Peccato che Minnie stessa abbia lasciato la gestione del locale ad un messicano mai incontrato, e che gli ospiti non ispirino tutta questa fiducia: avrà inizio, dunque, una sorta di partita a scacchi tra Ruth, Warren e Mannix ed il resto dei loro forzati compagni di sosta.











L'approdo in sala di Tarantino è sempre, in un modo o nell'altro, un evento.
Il ragazzaccio del Tennessee, fin dai tempi de Le iene e Pulp fiction, ha catalizzato l'attenzione non solo della critica, ma anche del pubblico mainstream, finendo per diventare, di fatto, uno degli autori più di culto che la settima arte statunitense abbia prodotto negli ultimi cinquant'anni.
Al suo ottavo film, il vecchio Quentin ha lanciato un'altra sfida: sfruttare il Western, già materia del precedente Django Unchained, per raccontare, di fatto, un thriller da camera decisamente teatrale che non sfigurerebbe nella filmografia di un Polanski, pur filtrato attraverso la mitologia pulp che, di fatto, ha lui stesso consacrato.
E ci sarebbero scene a profusione, da citare in termini critici, dai dialoghi fitti e serrati della prima parte alle immagini del finale, dalla rappresentazione della cultura americana come e più di quanto non fu fatto con il già citato Django al retaggio dei Dead man e de Gli spietati, tra giustizialismo a stelle e strisce a menzogne vendute come sogni.
Di fatto, per quanto mi riguarda e di pancia - scrivo questo pezzo un mese prima che esca in Italia, fresco di visione -, The hateful eight è il film più maturo di Tarantino come regista, il primo a sfidare davvero sia il suo "pubblico occasionale", più alternativo e giovane - principalmente, gli amanti di Kill Bill - sia quello di vecchia data, che si aspetta ad ogni nuova uscita un'innovazione anche quando, di fatto, la stessa innovazione risulti ormai un marchio di fabbrica - come la decostruzione temporale che rese così noto il vecchio Quentin ai tempi della Palma d'oro a Pulp fiction -: troppo lento ed ostico per i primi, troppo classico per i secondi, anche quando, di fatto, The hateful eight non è l'una o l'altra cosa.
Da amante del West e della Frontiera, ho adorato il modo in cui, di fatto, Tarantino ha snobbato entrambe le cose, finendo per raccontare una storia di violenza, vendetta, menzogna, voglia di dimostrare chi si è e chi non si è pur di arrivare a quello che si vorrebbe, adattabile a qualsiasi epoca ma soprattutto specchio di quello che è da sempre la cultura degli USA, dal senso del dovere esasperato - John Ruth - al giustizialismo - quei "bastardi che vengono impiccati dai più bastardi che sono quelli che impiccano" -, dai problemi razziali al concetto del "self made" in grado di sconfinare oltre ogni limite.
Ed è curioso come e quanto i charachters tutti d'un pezzo che tanto hanno fatto la fortuna della settima arte del passato siano spazzati via in favore di quelli che, al contrario, vivono di sfumature, profondamente umani nel loro essere in bilico tra senso comune ed istinti primordiali: e nel film meno "musicato" - nonostante il lavoro splendido di Morricone - di Tarantino a fare la parte del leone sono soprattutto i personaggi, pensati e sentiti profondamente dal Quentin sceneggiatore, prima che regista, coccolati nel bene e nel male dal primo all'ultimo minuto, ed a prescindere dal tempo concesso agli stessi davanti alla macchina da presa.
The hateful eight diviene, dunque, una versione della maturità de Le iene, un dramma da interno che potrebbe essere inserito in qualsiasi contesto ed epoca, vissuto più come una lettura dell'animo umano - ed in particolare statunitense - che non come un omaggio al Cinema di genere che tanto Tarantino ha dichiarato di amare: e senza dubbio, è uno dei suoi lavori più puri, in termini di settima arte.
Ma, ancora una volta, non voglio confinare un'opera di questa portata ad un post ed una recensione "di testa": The hateful eight è un film di interiora, carne e sangue, per quanto figlio di un cervello che quasi scoppia dalla voluminosità del materiale che contiene, un'opera di immagini di potenza rara - le "ali" di Daisy formate dalle racchette da neve su tutte - e volgarità sopra le righe, che non ha mezze misure e non le chiede, sfrutta il retaggio del percorso del suo autore ma ha un'identità così forte da scomodare paragoni per il sottoscritto di norma impossibili da mettere in gioco.
Qui non si entra in un Saloon con bevute, pacche sulle spalle e magari, di tanto in tanto, qualche pugno: qui ci si muove in un covo di vipere, con gli istinti primordiali che tutti noi umani, chi più predatorio e chi meno, portiamo in dono al mondo.
Ruth o Domergue, poco cambia.
Quelli sono gli estremi.
Ed intanto i Mannix così come i Warren dovranno continuare a vivere giocandosi tutto su faccia tosta o menzogne, pompini alle convenzioni razziali e lettere d'amore a qualcuno che possiamo soltanto sognare di conoscere.
In un certo senso, si potrebbe pensare che il West sia stato la preistoria del social marketing.
O che, ancora più semplicemente, l'Uomo non possa vivere senza un confronto all'ultimo colpo con chi sta di fronte a lui: caccia o complicità che sia.





MrFord





"I am tired of this devil
I am tired of this stuff
I am tired of this business
so when the going gets rough
I ain't scared of your brother
I ain't scared of no sheets
I ain't scare of nobody
girl, when the goin' gets mean."

Michael Jackson - "Black or white" - 









martedì 30 dicembre 2014

Ford Awards 2014: i film (N°10 - 6)

La trama (con parole mie): come si recitava nel cult targato Van Damme Senza esclusione di colpi, "adesso cominciano gli incontri seri". Si entra nella top ten del meglio uscito in sala in questo duemilaquattordici made in Saloon, ed inevitabilmente si alza - e non di poco - il livello delle pellicole chiamate in causa a rappresentare un'annata partita alla grande e proseguita, al contrario, decisamente in sordina fatta eccezione per alcune clamorose fiammate.
Che, guarda caso, si sono date appuntamento tutte qui.


N°10: GONE GIRL di DAVID FINCHER


David Fincher è un regista cui non devono piacere le mezze misure: lo stesso rapporto che ho avuto - e continuo ad avere - con la sua filmografia è piuttosto disomogeneo, e resto sempre stupito rispetto al fatto che si possa essere passati da cose trascurabili come The Game ad altre enormi come The Social Network. Gone Girl non è certo il miglior lavoro del buon David, eppure scava nell'ombra dei rapporti di coppia come pochi altri, e pur non volendo scomodare paragoni eccessivi, è stato il primo dai tempi di Eyes Wide Shut a solleticare certe corde nel sottoscritto.


N°9: LO SCIACALLO di DAN GILROY


Al suo esordio dietro la macchina da presa, Dan Gilroy confeziona un thriller sociale di spaventosa scarsa empatia con il suo protagonista - un gigantesco Jake Gyllenhaal - che mescola le atmosfere tanto care a Mann e Friedkin con l'indagine del mondo attuale filtrato attraverso la comunicazione e la televisione. Un affresco urbano crudele ed ipnotico, ed uno dei thriller più serrati degli ultimi anni.



N°8: NEBRASKA di ALEXANDER PAYNE


America profonda, road movie, famiglia, padri e figli.
Si potrebbe affermare che con Nebraska, oltre ad aver raggiunto l'apice della sua carriera - almeno finora -, Payne abbia amalgamato tutti gli ingredienti - o quasi - favoriti del sottoscritto per servire un cocktail forse amaro a tratti eppure in grado di lasciare il segno come pochi.
Per quanto di basso profilo, e forse legata al concetto di outsiders più di quanto sembri, uno dei titoli più importanti dell'anno.

N°7: LOCKE di STEPHEN KNIGHT


Ricordo che, quando vidi Locke, rimasi letteralmente folgorato.
Non mi era mai capitato di rimanere inchiodato alla poltrona stimolato da un livello di adrenalina ben oltre la soglia di guardia seguendo semplicemente le telefonate di un uomo giunto ad una svolta nella sua vita normale nel corso di un viaggio in macchina.
Tom Hardy pazzesco, sceneggiatura ad orologeria, finale perfetto.
Ivan Locke è un uomo tutto d'un pezzo. Come questo film è un pezzo importante della passata stagione.

N°6: DOM HEMINGWAY di RICHARD SHEPARD


E a ridosso della top five giunge quello che è stato il film - e più ancora, il personaggio - fordiano per eccellenza dell'anno: uno strepitoso Jude Law - forse nel ruolo più interessante della carriera - presta una fisicità per lui inaspettata ad un charachter scombinato e casinista, dedito all'alcool e agli errori come solo i migliori - o i peggiori - tra i santi bevitori.
Un film non perfetto, e forse il meno perfetto tra quelli giunti fino a qui, eppure assolutamente irresistibile.

TO BE CONTINUED...

lunedì 27 gennaio 2014

Nebraska

Regia: Alexander Payne
Origine: USA
Anno: 2013
Durata:
115'




La trama (con parole mie): Woody Grant è un vecchio ex meccanico alcolizzato, sposato da una vita con l'arcigna e tenace Kate e padre di Ross, conduttore di un telegiornale regionale, sposato ed economicamente ben messo, e David, da poco tornato single, commesso di un negozio di elettronica.
Quando l'anziano riceve una lettera che gli promette un milione di dollari a patto che i suoi numeri siano estratti una volta presentatosi di persona a Lincoln, Nebraska, decide che non ci sarà nulla al mondo in grado di impedirgli di ritirare il suo premio: fuggito più volte di casa intenzionato a percorrere i più di mille chilometri che separano Billings, nel Montana, sua città, e la stessa Lincoln a piedi non avendo più il benestare per la guida, Woody insisterà a tal punto che David deciderà di passare qualche giorno con suo padre accompagnandolo fino a ritirare la "vincita", ovviamente fasulla.
Sarà un viaggio intenso e ricco di avvenimenti, che aprirà uno squarcio sul passato della famiglia Grant e sul rapporto tra Woody e suo figlio, di fatto mancato nel resto delle loro vite.






"Non posso dire di essere dispiaciuto per le cose che ho fatto, ma comunque io e lei abbiamo avuto i nostri bei momenti": canta più o meno così Springsteen in Nebraska, uno dei dischi più struggenti ed intensi del Boss stesso.
Alexander Payne, regista dei più che discreti - e dal sottoscritto amati - Sideways e Paradiso amaro tornato sul grande schermo con un'altra epopea in grado di mescolare famiglia, vita vissuta ed il concetto di viaggio come palestra per il cuore ed i rapporti umani, non solo deve aver ascoltato a fondo quel grande disco, ma aver sentito sulla pelle il concetto, più che la descrizione fisica o la posizione geografica del Nebraska: parliamo della provincia americana profonda, quella delle città che paiono uscite dal West e dalla Frontiera, con una main street circondata da fattorie e campi che sanno, per dirla come Clint, di nulla ed addio.
La provincia di cult movies come L'ultimo spettacolo, dal quale pare avere ereditato anche il meraviglioso bianco e nero che incornicia non soltanto un ritratto sentito, divertente e maliconico di una famiglia, ma anche una squadra di attori in forma smagliante capitanata dagli strepitosi June Quibb e Bruce Dern - quest'ultimo premiato a Cannes per la migliore interpretazione maschile ed in lizza per l'Oscar -, che prestano corpo ed anima rispettivamente a Kate e Woody Grant, insieme da una vita, pronti a combattere il mondo così come a lottare l'uno contro l'altra.
Le loro schermaglie, come i vuoti di coscienza dell'uomo - alla prima inquadratura, con il vecchio Grant ubriaco sul ciglio della strada fermato da un poliziotto, ho pensato subito che ci sarebbero state ottime probabilità di trovarmi nello stesso stato dopo gli ottanta - e la carica dirompente della donna - la sequenza al cimitero di Hawtorne è da antologia - sono riusciti a portare a galla nella mia memoria l'approccio che il già citato Maestro Eastwood tenne con uno dei suoi Capolavori, Gran Torino, altro film monumentale sulla vecchiaia e sui rapporti da costruire - o ricostruire - tra genitori e figli: il viaggio di David - in quella fase della vita in cui non è ancora troppo tardi per trovare la propria strada ma non è più così presto per far conto soltanto sui sogni - e Woody è una meravigliosa fotografia proprio di quegli stessi rapporti, che eventi assolutamente comuni di colpo divenuti straordinari trasformano in profondamente reali, presenti, vissuti e parlati dopo anni, decenni, vite intere di silenzio.
E dalla divertentissima e grottesca ricerca della dentiera sui binari o i botta e risposta sulla birra - "Papà, non avevi smesso? Stai bevendo una birra", e di contro "E allora? La birra non è mica alcool!" - all'agghiacciante riunione della famiglia Grant o al faccia a faccia con l'ex amico Ed Pegram - un redivivo Stacy Keach - nel pub - da brividi il gioco di sguardi, i silenzi pesanti come macigni -, due uomini finiscono per ritrovare loro stessi nell'altro, scoprendo di non avere mai smesso di vivere o imparare, e di avere di fatto vinto un premio ben più importante di una fasulla lotteria da pubblicità ingannevole.
Nebraska è un film sulle piccole cose, gesti che noi stessi facciamo giorno dopo giorno senza, magari, renderci conto della loro stessa importanza: dai "fanculo" a "quella era proprio una troia" di Kate al bacio a Woody poco prima di lasciare l'ospedale - un passaggio di una tenerezza quasi straziante, che ben descrive il sacrificio che è presente in ogni storia più o meno d'amore che duri una vita intera -, dal compressore rubato e restituito - divertentissimo momento in grado di riportare alla memoria del sottoscritto il portafoglio recuperato dal motociclista in Sideways o il Cinema dei Coen in generale - al ritorno da Lincoln dell'ormai consolidata squadra composta da David e Woody, che di fronte alle iniziative del figlio affinchè tutto non sia servito proprio a nulla non pare affatto "appannato" come potrebbe sembrare.
E la carrellata sulla via di casa per le strade di Hawtorne, con tanto di cappellino e furgone nuovo, è un gioiellino di sentimento che esalta la componente umana di un film "straight" - per usare un paragone con un altro Capolavoro che Nebraska ricorda, Una storia vera di Lynch - come un solido bourbon da Saloon, di quelli che si bevono "tra uomini" senza dimenticare che non si sarebbe tali, senza delle grandi donne alle quali tornare.
Chiunque si sia fatto - o si faccia - il culo quotidianamente per lavorare, costruire una famiglia e soprattutto mantenerla tale, crescere dei figli e sopravvivere ad amici e nemici, così come all'amore, o semplicemente sognare un furgone nuovo o di "lasciare qualcosa" a chi viene dopo, entrerà in questo film come nella casa in cui è cresciuto: e dovrà ricacciare indietro le lacrime, farsi un bicchiere e riderci sopra.
In fondo, in Nebraska ci siamo andati tutti, almeno una volta.
Per tornare segnati, ma senza dubbio più forti di prima.



MrFord



"I can't say that I'm sorry 
for the things that we done
at least for a little while 
sir me and her we had us some fun."
Bruce Springsteen - "Nebraska" - 



lunedì 27 maggio 2013

Cannes 2013

La trama (con parole mie): questa sera si è conclusa la sessantaseiesima edizione di quello che è considerato il Festival più importante del Cinema, appuntamento imperdibile per gli appassionati di tutto il mondo della settima arte e parata di stelle del mainstream così come dell'indie.
Nell'anno del ritorno in Italia - e alle origini - di Sorrentino e del Refn post-Drive la Palma d'oro è rimasta invece oltralpe, a premiare un regista che non ha, di fatto, mai deluso e che pare abbia colpito più di ogni altro la giuria: Abdellatif Kechice.
Ecco la lista dei vincitori e, come al solito, qualche commento del sottoscritto.



- Palma d'oro: La vie d'Adéle di Abdellatif Kechiche

Non posso che essere contento della vittoria di Kechiche, regista che ho seguito fin dal suo primo lavoro - Tutta colpa di Voltaire - e che avrebbe meritato anche il Leone d'oro a Venezia con il meraviglioso Cous cous, uno dei film corali più belli degli ultimi dieci anni.
La vie d'Adéle, costruito attorno alla storia d'amore di due ragazze, è stato fin da subito uno dei titoli più apprezzati sulla Croisette: a questo punto non vedo l'ora di poterlo ospitare anche qui al Saloon.




- Grand Prix: Inside Llewyn Davis di Ethan e Joel Coen

Secondo premio ed altri due protetti fordiani: i fratelli Coen.
Il loro Inside Llewyn Davis pare sia qualcosa di decisamente interessante: ambientato nella New York degli anni sessanta, racconta una settimana della vita un giovane folk singer nel pieno del fermento dei tempi. Il cast promette bene, l'argomento anche.
Certo, non mi stupirei se il premio fosse arrivato principalmente per l'intercessione di Spielberg, ma me lo faccio andare bene comunque.


- Regia: Amat Escalante per Heli


Di questa produzione affidata al giovane regista di Barcellona non so praticamente nulla, dunque non mi pronuncio rispetto alle polemiche insorte sui nostri quotidiani a proposito dei mancati riconoscimenti a Sorrentino per il suo La grande bellezza, almeno fino a quando non avrò visto entrambi i titoli e potrò confrontarli come si deve.


- Giuria: Tale padre, tale figlio di Hirokazu Koreeda


Il premio della Giuria è andato ad un autore giapponese tra i meno conosciuti oltre i suoi confini - almeno per quanto riguarda quelli di respiro internazionale - che ha presentato una storia che, sulla carta, mette in gioco sentimenti e sensazioni che in questo periodo della mia vita mi toccano particolarmente: quelli della paternità.
Non so se e quando verrà distribuito in Italia, ma senza dubbio con l'arrivo del Fordino e questo nuovo mondo da esplorare giorno per giorno non intendo certo perdermi questa visione.


- Migliore attore: Bruce Dern per Nebraska di Alexander Payne


L'anziano caratterista americano Dern mi è sempre passato sotto gli occhi senza rimanermi particolarmente impresso, ed il suo premio è fondamentalmente stato uno di quelli di cui non mi preoccupo più di tanto, sia in positivo che in negativo.
Sono però molto curioso di affrontare la visione del nuovo lavoro di Payne, un regista simbolo della parte buona del Sundance-style che fino ad ora non mi ha mai deluso.


- Migliore attrice: Berenice Bejo per Il Passato di Asghar Farhadi


Berenice Bejo, salita agli onori della cronaca con il magnifico The artist, incassa il premio per la migliore interpretazione femminile grazie ad uno dei registi che più attendo - sempre che la distribuzione nostrana non giochi brutti scherzi -,  Asghar Farhadi, autore di chicce come About Elly e dello splendido Una separazione.
Avrà giocato anche in casa, ma trovo che la Bejo abbia ottime carte da giocarsi, dunque approvata anche questa scelta dei giurati.







- Sceneggiatura: Jia Zhangke per A touch of Sin


Il premio per la migliore sceneggiatura è andato invece ad un'altra vecchia conoscenza del Saloon, Jia Zhangke, che non troppi anni fa mi lasciò a bocca aperta con il film che gli valse il Leone d'oro, Still life, un'opera struggente legata al nuovo e al vecchio corso della Cina.
Di questa sua più recente fatica non so nulla, ma di sicuro non mi lamenterò a cercare di recuperarla - impresa ardua, considerato che tra i premiati questo è senza dubbio il titolo che incontrerà più difficoltà di distribuzione qui nella Terra dei cachi -.


- Palma d'oro per il miglior cortometraggio: Safe di Byong-Gon
- Menzione speciale a 37/o 4S dell'italiano Adriano Valerio e a Le fjord des baleines di Gudmundur Arnar Gudmundsson
- Camera d'or (migliore opera prima): Ilo Ilo di Anthony Chen (dalla Quinzaine)

domenica 2 settembre 2012

Twixt

Regia: Francis Ford Coppola
Origine: USA
Anno: 2011
Durata: 88'




La trama (con parole mie): Hall Baltimore, scrittore vicino al fallimento specializzato in romanzi legati alle streghe, giunge in una sperduta cittadina di provincia per presentare il suo nuovo lavoro pressato dalla moglie via Skype affinchè scriva una nuova ed interessante trama in modo da ottenere un anticipo dal suo editore che possa coprire alcuni dei loro debiti.
Avvicinato dall'insistente sceriffo locale che vorrebbe scrivere un romanzo con lui, Baltimore scopre che dietro un vecchio albergo ormai in disuso è celata una macabra storia legata all'omicidio di dodici bambini che pare in qualche modo rimandare al caso di una giovane impalata come fosse un vampiro sul quale sta lavorando lo stesso sceriffo.
Tra una sbronza ed un sogno in cui compaiono i fantasmi di Edgar Allan Poe e della giovane V, tredicesima potenziale vittima, mescolatasi ai sensi di colpa per la morte della figlia, Baltimore troverà pane per i suoi denti e, forse, la materia per un nuovo romanzo in grado cambiare la sua vita.




E' proprio un caso strano, quello di Francis Ford Coppola: universalmente riconosciuto come uno dei più grandi Maestri del Cinema statunitense attuale, dopo aver disseminato Capolavori come Apocalypse now, la trilogia - anche se, a guardar bene, sono i primi due a contare - de Il padrino, La conversazione e via discorrendo, il regista di Detroit qualche anno fa decise di uscire di scena e godersi la pensione, ritagliandosi un ruolo come produttore senza più fare capolino dietro la macchina da presa.
Poi, come una folgorazione, dopo dieci anni il ritorno sul grande schermo con Un'altra giovinezza: un film che ancora manca all'appello in casa Ford, ma che raccoglie giudizi altalenanti per pubblico e critica, e soprattutto agli occhi dei suoi fan hardcore. 
Ma non finisce qui: non passa molto tempo che il buon Francis raddoppia con Tetro - qui da noi Segreti di famiglia -, pellicola assolutamente valida, tecnicamente notevole e tremendamente sottovalutata praticamente ovunque, tanto da muovere la distribuzione nostrana a trattarlo neanche fosse l'ultimo degli esordienti. 
Ed arriviamo a Twixt: l'ultima fatica del regista di Rusty il selvaggio, prodotta come fosse un film indipendente dalla sua Zoetrope, nuova escursione dopo il Dracula di Bram Stoker dell'autore nel territorio dei vampiri e del gotico, non trova alcuna etichetta disposta - almeno fino ad ora - a portare anche qui nella Terra dei cachi questo interessante lavoro.
Davvero un brutto colpo per il Cinema, pensare che in uno dei paesi che più l'hanno coccolato e coltivato in passato non ci sia spazio per uno dei nomi più importanti degli ultimi trenta e più anni di settima arte.
Ma non vorrei, con la polemica, togliere anche io voce al film: Twixt non è il più riuscito dei lavori di Coppola, su questo non c'è alcun dubbio. Addirittura, dopo la visione, Julez si è detta certa che se dietro la macchina da presa non ci fosse stato lui, avrei sfoderato le bottiglie e liquidato il tutto senza neppure troppa fatica.
Sinceramente non saprei cosa avrei pensato di questo lavoro se a firmarlo fosse stato un altro, o se effettivamente la cosa avrebbe inciso oppure no sul mio giudizio: quello che so è che Twixt è riuscito ad ammaliarmi in maniera silenziosa e sotterranea, come fosse una sbronza salita piano, un dolce oblio, o un sonno arrivato durante un massaggio.
Circondato da una cornice "reale" che mi ha ricordato i Devil's rejects di Rob Zombie ed un'altra onirica dal gusto molto burtoniano, ed avvolto in un'atmosfera che recupera - pur non raggiungendo gli stessi livelli - Il seme della follia di Carpenter, questo titolo dal retrogusto decisamente metacinematografico tocca temi lontani dall'horror e richiami a quello che è stato uno dei trend più di moda degli ultimi anni - quello dei vampiri - concedendosi una sfida non certo semplice per un cineasta ormai oltre i settanta che pare avere la stessa voglia - se non di più - di molti colleghi che potrebbero essere suoi nipoti di mettersi in gioco.
L'indagine di Hall Baltimore - un ottimo e bolsissimo Val Kilmer - assume significati che possono variare a seconda dei punti di vista dello spettatore, in grado di cambiare le atmosfere dal grottesco - la cittadina che pare posta su un crocevia tra lo sperduto, il sonnecchioso ed il terrificante - al thriller passando dall'horror fino alla satira, senza dimenticare il pesante fardello del protagonista in bilico tra il ricordo della morte della figlia ed il rapporto con la giovane V, anch'ella vittima, predatrice, immagine illusoria e realtà da carne e sangue - bravissima, come sempre, Elle Fanning -.
Come se non bastasse il beffardo finale - visto da molti come una parodia del fenomeno di Twilight degli ultimi anni - e l'utilizzo dei giovani emosbandati dall'altra parte del fiume malvisti da tutta la vecchia comunità di paese pone lo spettatore di fronte a più di una riflessione: il sogno di Baltimore - e di Coppola - è una bonaria - ma neppure troppo - presa per il culo o un monito a ricordare che i vampiri - ed i predatori in genere - non possono essere cambiati da occhi luccicanti e buoni sentimenti perchè sono e resteranno cacciatori con l'istinto del sangue?
Quanto di loro c'è in un assassino? E quanto nella coscienza dello scrittore fallito Hall?
Forse tutto, forse niente.
Di sicuro, per un filmetto "di riserva", direi che Twixt ha parecchie carte da giocarsi, esteticamente e non.
E in fondo, il bello dei Maestri è proprio questo: anche quando i conigli da cappello paiono ormai un lontano ricordo, finiscono per tirare fuori qualche magia da illusionisti provetti.


MrFord


"So give them blood, blood, gallons of the stuff!
give them all that they can drink and it will never be enough.
So give them blood, blood, blood.
Grab a glass because there's going to be a flood!"
My chemical romance - "Blood" -


 
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