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lunedì 10 ottobre 2016

I magnifici sette (Antoine Fuqua, USA, 2016, 133')




Quando al Saloon si pronuncia la parola magica - Western, per inciso -, è ovvio e doveroso che scatti l'immediato giro di bevute a carico della casa.
Nel caso particolare, inoltre, de I magnifici sette, all'ambientazione si unisce l'ispirazione data da uno dei più grandi registi di tutti i tempi e favoriti del sottoscritto, Akira Kurosawa: il supercult con Yul Brinner, Steve McQueen e Charles Bronson, infatti, altro non fu se non un remake in salsa USA dell'immortale Capolavoro I sette samurai, uno dei film più importanti della Storia del Cinema.
Quando, mesi fa, scoprii che era in cantiere un ulteriore remake, lo ammetto, ebbi il timore di andare incontro ad una delle scelleratezze più terrificanti che si potessero immaginare rispetto alla settima arte tutta: fortunatamente per me e per gli appassionati, Fuqua - regista tamarro e sempre apprezzato da queste parti, dai tempi di Training Day al recente e spassosissimo The Equalizer, uno degli action più centrati degli ultimi anni e, forse, dalla fine degli anni ottanta in avanti - non solo riesce a non svilire i cult che l'hanno ispirato, ma anche e soprattutto a confezionare un solido intrattenimento d'autore supportato da splendide riprese, un ottimo cast ed un ritmo niente male, che perde inevitabilmente qualcosa rispetto all'originale ma che consegna alle nuove generazioni un gran bell'esempio di solidità e spettacolo in salsa Western, in barba a tutti quelli che ancora credono che la buona e vecchia Frontiera sia un argomento che potrebbe catturare l'attenzione solo dei nostri nonni.
Del resto, quando hai il Denzellone a fare la parte del leone che fu di Yul Brinner vai senza dubbio sul sicuro, e vedere il suddetto far fuori cattivoni a mazzi senza quasi sudare o farsi davvero, davvero minaccioso in quell'ultimo faccia a faccia con il numero uno dei sacchi di merda Peter Sarsgaard - poveraccio, io con il signor Washington in giro non farei cambio con lui per niente al mondo - è una soddisfazione grossa almeno quanto le riprese della battaglia tra i sette ed il villaggio e l'esercito personale del suddetto Sarsgaard, senza contare - SPOILER - il finale in gloria di Chris Pratt - una delle morti più belle del passato recente per quanto riguarda il Cinema d'avventura -, la coppia quasi da cartone animato formata da Ethan Hawke e Byung Hun Lee, il personaggio sopra le righe di D'Onofrio e l'elemento nativo americano pittato come il lottatore WWE Finn Balor nel corso della resa dei conti che esaltano e non poco lo spettatore, specie se si tratta del sottoscritto.
Peccato per il bandito Vasquez, dei sette forse il meno affascinante e - SPOILER - nonostante questo destinato a sopravvivere allo scontro che vede i nostri protagonisti, ed il fatto che, inevitabilmente, un'operazione di questo tipo avrà sempre il sapore dell'operazione nostalgia - anche se Fuqua aveva manifestato indirettamente il suo apprezzamento per la pellicola originale in King Arthur, che aveva una struttura in qualche modo simile -, ma sono peccati veniali a fronte di un prodotto che, a mio parere, funziona alla perfezione per quello che è il suo scopo, intrattenere ed esaltare il pubblico come se si fosse tornati ai tempi in cui entrare in una sala significava solleticare i sogni, quelli che da bambini, soprattutto se appena usciti da certe visioni, paiono anche realizzabili.
Quelli dei buoni contro i cattivi, in cui è davvero figo essere dalla parte dei buoni.
Anche quando si rischia grosso.
Anche quando si muore.
Perchè, in fondo, non capita tutti i giorni di poter essere magnifici.




MrFord




giovedì 17 dicembre 2015

The walk

Regia: Robert Zemeckis
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 123'







La trama (con parole mie): Philippe Petit, funambolo ed acrobata autodidatta, alle spalle un'infanzia ed un'adolescenza travagliate e ben poco legate alle regole, si innamora del progetto ancora in corso d'opera del WTC a New York, e decide che un giorno o l'altro organizzerà un piano che gli permetterà di tendere il suo cavo tra le Torri Gemelle.
Allenamento dopo allenamento, e dopo aver osato un'impresa preparatoria simile tra i campanili di Notre Dame a Parigi, Petit organizza una squadra di fidati compagni e vola nella Grande Mela, pronto a realizzare, nonostante le apparenti difficoltà, l'impresa.
Il mattino del sette agosto settantaquattro l'allora neppure trentenne funambolo vinse una sfida che, ad oggi, resta ancora unica ed ineguagliata.












A Robert Zemeckis sarò grato, in quanto cinefilo accanito, a vita: la trilogia di Ritorno al futuro, All'inseguimento della pietra verde, l'episodio più interessante di Storie incredibili, Chi ha incastrato Roger Rabbit?, La morte ti fa bella hanno segnato la mia infanzia ed adolescenza, così come, in tempi più recenti, ho amato nonostante retorica e furberia Forrest Gump e Cast Away, forse l'ultimo film davvero interessante firmato dal regista.
Sono grato anche che al mondo esistano folli totali come Philippe Petit, anarchici ed appassionati, amanti della vita nonostante, o forse proprio per questo, si ostinino a rischiarla come se fosse la cosa più normale del mondo: l'impresa del funambolo francese, datata sette agosto settantaquattro, è stata qualcosa di assolutamente epico, completamente fuori di testa eppure magica come poche altre.
Ricordo bene, infatti, l'effetto che mi fece stare di fronte a quelle due torri assolutamente enormi, quasi incredibili, quando nel lontano ottobre del novantaquattro - vent'anni dopo, giorno più, giorno meno, del momento di gloria di Petit - rimasi esterrefatto ai loro piedi: per chi non ha avuto la fortuna di provare quella sensazione, posso dirvi che erano davvero qualcosa di straordinario, e pensare che un ragazzo di neppure trent'anni, mosso solamente dalla passione ed aiutato da un manipolo di amici folli quanto lui, avesse passeggiato per oltre quaranta minuti su un cavo tirato tra i due colossi di acciaio e cemento sfiora davvero la fantascienza.
Eppure è successo. E' documentato. E raccontato splendidamente da Man on wire, che James Marsch diresse qualche anno fa raccontando i fatti, puri e semplici, che portarono a quell'evento.
E qui torniamo a Robert Zemeckis: perchè, da buon americano - e tutti voi che passate a farvi qualche drink da queste parti ben sapete quanto il sottoscritto li ami -, il vecchio Robert proprio non resiste a voler imbastire la storia nel peggiore dei modi a stelle e strisce per almeno tre quarti di pellicola.
Con lui Joseph Gordon-Levitt, attore da sempre benvoluto da queste parti che pare impegnarsi più nell'impresa di risultare irritante tanto da scatenare le più violente bottigliate che non nel risultare credibile nel ruolo di Petit.
Un vero peccato, dunque, perchè quella che è stata ed è, di fatto, un'impresa mitica diventa, per un'ora e mezza secca - ovvero, minuto più, minuto meno, fino al primo passo sul cavo tra le due Torri Gemelle di Levitt/Petit -, un vero e proprio supplizio per lo spettatore, un cocktail letale di noia, irritanti mossette da artista di strada hipster e situazioni che paiono Amelie rivisitata in peggio - e già si parte da un mood per nulla nelle mie corde, tanto per intenderci -.
A salvare dalla catastrofe Zemeckis e soci, una mezzora finale davvero da urlo, illuminata da una resa della camminata sul cavo in grado di mettere i brividi non solo a chi - come questo vecchio cowboy - patisce e non poco l'altezza, ma al pubblico tutto, di fatto trasformando la magia di ogni passo del suo protagonista in una sorta di thriller serratissimo: e proprio per questo, forse, il desiderio di punire con le bottigliate delle grandi occasioni The walk è ancora più sentito, considerata la potenza della parte finale giunta sullo schermo dopo tre quarti di pellicola da buttare dritta nel cesso prima di tirare lo sciacquone il più in fretta possibile, evitando di pensare ancora al doppio utilizzo dei termini in inglese e francese di Levitt o al maestro di circo interpretato da Ben Kingsley, che è sulla buona strada per diventare uno dei vecchi leoni più invisi in casa Ford.
Un'occasione clamorosamente sprecata, dunque, che non rende assolutamente giustizia agli eventi che l'hanno ispirata - fatta eccezione, per l'appunto, della chiusura - e che fa rimpiangere Man on wire, l'incoscienza magica di Philippe Petit e quelle due Torri così enormi che quasi non parevano vere.
Ma lo sono state, eccome.





MrFord





"Now I'm walking on sunshine, whoa
I'm walking on sunshine, whoa
I'm walking on sunshine, whoa
and don't it feel good
hey, all right now
and don't it feel good
hey, yeah."
Katrina and The Waves - "Walking on sunshine" - 






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