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martedì 2 dicembre 2014

Palo Alto

Regia: Gia Coppola
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 100'





La trama (con parole mie): la giovane April, introversa studentessa in bilico tra l'essere allieva modello e scoprire il suo lato più alternativo, è preda di sentimenti contrastanti rispetto allo scombinato coetaneo Teddy, incline a mettersi nei guai più spesso di quanto non possa lui stesso pensare ed al suo allenatore di calcio nonchè insegnante Mr. B.
Il rapporto con i due influenzerà il susseguirsi della stagione più importante della sua adolescenza, scandita dalla scuola, gli impegni al di fuori della stessa, i piccoli e grandi drammi che lei e tutti i suoi amici finiranno per provare sulla pelle in attesa di crescere e prendere una propria strada.
E Palo Alto, California, potrebbe di colpo diventare una sorta di piccolo centro dell'universo dei teenager occidentali.








Resto sempre stupito, quando un film che ha tutte le carte in regola per entrare nelle grazie del mio eterno rivale Cannibal Kid finisce in qualche modo per non deludermi, mostrando anzi spunti almeno in parte interessanti: Palo Alto, firmato dall'ultima degli esponenti della dinastia Coppola, appartiene senza dubbio alcuno alla categoria.
Firmato da una "figlia d'arte", interpretato da volti giovani e pseudo alternativi capitanati da James Franco, che riesce ad essere tanto pane e salame quanto indie-cool, ambientato nella provincia californiana bene, almeno sulla carta più simile al debole The bling ring che non a cult dell'adolescenza come The breakfast club, il qui presente titolo rischiava di fatto una tempesta di bottigliate già sulla carta.
Fortunatamente per il sottoscritto - considerata anche la stanchezza accumulata di questo periodo, che mi costringe a sforzi sovrumani per non addormentarmi sul divano nel corso delle visioni - e per la giovane donna dietro la macchina da presa, il risultato è stato, di fatto e pur non dando libero sfogo a pareri entusiastici, un discreto successo: il lavoro dell'interessante Gia, tratto da una serie di racconti firmati proprio da James Franco, è fresco quanto basta per evitare la trappola dell'indie-chic che tanto mi fa incazzare, fotografa con un piglio deciso il periodo burrascoso dell'adolescenza e mantiene alta l'attenzione dello spettatore senza eccedere nella misura, regalando perfino un finale che suona quasi perfetto.
Merito del risultato senza dubbio anche quello di un cast decisamente in parte, che rispolvera vecchie conoscenze come Val Kilmer - accompagnato per l'occasione da suo figlio, tanto per rimanere in tema di nepotismi hollywoodiani - e giovani volti come Emma Roberts, che ricordo più volentieri in Cinque giorni fuori che non nella poco interessante terza stagione di American Horror Story: a sostenerlo, uno script tutto sommato non banale che ha nei confronti tra Teddy e Fred i suoi momenti migliori, e che riesce a presentare tutte le immagini che pare essersi prefissato senza per questo imbrigliarle in uno schema definito, con un inizio ed una fine.
Palo Alto ricorda più un'istantanea, come una foto delle vacanze che si stringe tra le mani sospirando nel cuore dell'inverno o il ricordo di una cotta che non è durata, ma che ha finito per lasciare il segno: niente di davvero destinato ad essere un avvenimento fondamentale della nostra vita eppure qualcosa alal quale sarà difficile, in un modo o nell'altro, non rimanere legati.
In questo senso la capacità del film di mostrare senza pregiudizi il lato più sguaiato e cazzone dell'adolescenza - che, poi, se non si vive in prima persona, spesso è anche quello più fastidioso percepito dall'esterno - e quello più intimista è decisamente invidiabile, sia che si parli di storie d'amore - e, dunque, della protagonista April -, sia di amicizia - e torno a citare i dialoghi e le divergenze che si cominciano a creare tra Teddy e Fred -: in quegli anni tutti noi finiamo per vivere sulla pelle emozioni e situazioni che crediamo fortemente saranno le uniche e le più importanti della nostra esistenza.
Madornale errore, si direbbe se fossimo in un film action.
Perchè tutto passerà, e finiremo per vivere emozioni decisamente più forti.
Eppure quello che avremo accumulato in quegli anni definirà il bagaglio che porteremo sulle spalle una volta affacciati davvero sul mondo adulto: e dalla decisione di April rispetto al suo futuro sentimentale a quella di Teddy, pronto a scendere da una macchina forse troppo autodistruttiva perfino per lui, troviamo in Palo Alto tutta la poesia naif che difficilmente avrà spazio ancora una volta nelle nostre esistenze.
Ed è bello pensare che, in questo caso, non sia un male così grande.
Forse necessario. Senza dubbio.
Ma è confortante che vada in questo modo.
Confortante e caldo.
Come il sole di questa California dai sentimenti incerti.




MrFord




"Don't think that we were beautiful
don't think that I'm your friend
I'll be the first one to tell you a lie."

Devonte Hynes - "Palo Alto" -





giovedì 23 maggio 2013

Antiviral

 
Regia: Brandon Cronenberg
Origine: Canada
Anno: 2012
Durata: 108'





La trama (con parole mie): Syd March, impiegato presso una clinica che si occupa di iniettare nei fan più accaniti i germi delle malattie che colpiscono le loro star favorite, si ritrova a contatto con l'infezione che ha ucciso Hannah Geist, vera e propria ossessione penetrata fin nei sogni del giovane.
Prima di consegnarlo ai suoi datori di lavoro, March si inietta il virus diventando così un bersaglio, un reietto, un pezzo del puzzle che potrebbe portarlo a scoprire cosa c'è veramente dietro la misteriosa morte della ragazza, finendo per comprendere i lati più oscuri della sua natura ed avere la possibilità di accedere ad un altro livello di comprensione e percezione dell'esistenza.
Ma sarà sogno o realtà? Futuro o passato? Fumo o arrosto?




Come già appurato non troppo tempo fa grazie al post dedicato a Chained, la questione dei figli d'arte resta una delle più spinose del Cinema - e non solo -: Brandon Cronenberg, giovane di belle speranze - non ancora trentenne - ansioso di percorrere le orme paterne, si presenta al mondo della settima arte con un'opera prima ultimamente rimbalzata da una parte all'altra della blogosfera raccogliendo spesso e volentieri pareri più che lusinghieri, ispirandosi alla stessa ricerca fisica e mentale che animò il padre David nel corso della realizzazione di lavori come Videodrome, Crash o Exsistenz.
Purtroppo per il suddetto Brandon, prima o poi, nel corso del peregrinare lungo la Frontiera della rete, si finisce per incontrare un vecchio cowboy come il sottoscritto, che pur non essendo giovane quanto lui o ugualmente talentuoso, ha d'altro canto sviluppato una scorza dura da superare rispetto alle finte opere artistiche tutto fumo e niente arrosto come questa.
Perchè Antiviral, con tutte le potenzialità obiettivamente presenti nelle sue quasi due ore di viaggio verso la mutazione, l'evoluzione, la vita e la morte, lo stile impeccabile ed il citazionismo - da 2001 ai già citati lavori del genitore del fanciullo -, rientra a pieno titolo in quel novero di visioni radical chic fredde, calcolate, pulite pulite e confezionate nello stile che piace tanto alle giurie dei festival ma che, di fatto, non nasconde sostanza che vada oltre il mero esercizio di stile.
Senza, dunque, andare a stuzzicare le consuete discussioni a proposito delle possibilità che il rampollo di un cineasta noto in tutto il mondo potrà sempre e comunque avere rispetto ad un illustre sconosciuto a parità di potenziale - che vorrei vedere un qualsiasi portentoso esordiente sparato dritto dritto a Cannes sfoggiando Malcolm McDowell nel cast ed un risultato finale così patinato da fare invidia alle grandi produzioni hollywoodiane, altro che Canada terra promessa dell'alternativismo -, Antiviral rappresenta fondamentalmente tutto quello che normalmente detesto in un presuntuoso film d'autore, dalla voglia di stupire a tutti i costi mostrando le sorprendenti abilità che muovono la mente dietro l'opera ai dettagli insistiti - io posso capire la ricerca e l'esplorazione della mutazione fisica derivata dallo stile di casa Cronenberg, ma al quinto dettaglio dell'ago che entra sottopelle mi sono chiesto se non ci si trovasse nel pieno di un documentario sulla vita delle infermiere nei centri prelievi -, dalla recitazione volutamente sopra le righe - il tanto acclamato protagonista Caleb Landry Jones non mi pare fenomenale come è stato dipinto - ad una pretestuosità totalmente priva di anima che non aggiunge nulla alla storia della settima arte e, al contrario, finisce per annoiare - e non poco - e mostrare tanta anima e passione quanta è quella espressa dall'algida - ed anche qualcosa in più - fotografia.
Una pellicola pomposa, frigida, ricca di buone idee ma priva del cuore necessario a trasformare le stesse in una grande storia, una sorta di "sotto il vestito niente" che lascia in bocca l'insoddisfazione di un cocktail annacquato pagato fior di soldi nel locale all'ultima moda quando nel postaccio del fido Umbertone per un terzo del prezzo al secondo drink sei già pronto per entrare in orbita.
Brandon Cronenberg avrebbe bisogno di una freddissima doccia di umiltà, e anche se non servirà quella del sottoscritto, spero davvero che qualcuno - pur non facendo affidamento sul padre, considerata la crisi di creatività che sta attraversando lui stesso, vedasi il terribile Cosmopolis - possa allungargli un paio di bottigliate supplementari in modo che il suo talento - perchè senza dubbio il ragazzo ne ha - possa essere meglio gestito la prossima volta.
Del resto, nessuno nasce imparato.
Neanche il figlio di David Cronenberg.


MrFord


"You and me have a disease,
you affect me, you infect me,
I'm afflicted, you're addicted,
you and me, you and me."
Bad Religion - "Infected" -


domenica 3 febbraio 2013

Chained

Regia: Jennifer Chambers Lynch
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 94'




La trama (con parole mie): Bob è un serial killer che si diletta a cacciare le vittime alla guida di un taxi prima di condurle nella sua accogliente dimora e disporre di loro come crede.
La sua Natura è il frutto di un'infanzia segnata dagli abusi subiti dal padre cui assistettero la madre - che non mosse un dito per difenderlo - ed il fratello minore.
Un giorno Bob carica il piccolo Tim e sua madre, e dopo aver ucciso quest'ultima decide di tenere il ragazzo con lui ribattezzandolo Rabbit e facendone una sorta di schiavo personale: gli anni passano insieme alle vittime, e Bob ha ormai un rapporto con Rabbit simile a quello di un padre autoritario con il figlio che vorrebbe seguisse le sue orme.
Quando i due mettono le mani sulla giovane Angie - che Bob vorrebbe essere la prima vittima di Rabbit - tutto cambia.




Essere figli d’arte, soprattutto rispetto a Maestri assoluti, geni o superstar, dev’essere davvero duro.
Certo, non si avranno mai problemi economici o porte sbattute in faccia, ma l’ingombrante figura genitoriale incomberà sempre, soprattutto quando si deciderà di cimentarsi nello stesso campo in cui proprio la stessa si è così clamorosamente distinta.
Nel corso della mia vita di spettatore e non solo, ho spesso potuto notare quanto amaro sia il ruolo dei “figli di tanto padre” – o madre, che dir si voglia -, e davvero raramente mi è parso che gli eredi potessero superare le orme lasciate da mamma o papà: ricordo John Romita Jr nell’ambito del fumetto – figlio del leggendario John Romita – e Randy Orton nel wrestling – suo padre, Cowboy Bob Orton, non ebbe un briciolo della fortuna del rampollo sul quadrato -, e dunque nebbia fitta.
Da Ziggy Marley a Jacob Dylan, partendo da Sean Lennon per arrivare a Colin Hanks e Sage Stallone, le cadute – o le carriere proseguite soltanto grazie al proprio cognome – non si contano, e perfino chi è riuscito ad arrivare a successi e riconoscimenti – Sofia Coppola, ad esempio – non regala al pubblico l’impressione che i fasti del passato potranno essere in qualche modo rinverditi.
Ma perché mai questo pippone galattico sui figli d’arte?
Perché questo Chained è firmato nientemeno che da Jennifer Lynch, figlia del mitico David, probabilmente uno dei registi che amo di più nonché tra i pochissimi in grado di mettere d’accordo perfino i due acerrimi rivali della blogosfera, ovvero il sottoscritto e il sempre poco sopportabile Cannibal Kid: ovviamente il risultato e la resa della pellicola non sono neppure paragonabili ai lavori dell’autore di Twin Peaks, malgrado la regista tenti davvero con tutte le sue forze di consegnare all’audience una pellicola che possa essere ad un tempo disturbante ed inquietante, con più di un occhio strizzato in direzione di Henry pioggia di sangue, supercult assoluto firmato da John McNaughton.
Peccato che, nonostante non si possa parlare indubbiamente di un prodotto mal riuscito e la presenza come sempre importante – in tutti i sensi – di Vincent D’Onofrio – l’indimenticabile Palla di lardo kubrickiano – il risultato non sia altro che l’ennesimo film senza un vero carattere o un’identità che possano allontanarlo dai cliché del genere, incapace di catturare davvero nonostante alcuni spunti indubbiamente interessanti e la struttura molto teatrale dell’opera – che mi ha riportato alla mente l’approccio del Friedkin di Bug, per intenderci -, risultando a tratti quasi troppo lento nel suo incedere.
Ad essere onesti, comunque, non avrei scomodato le bottigliate relegando Chained al limbo di quei titoli che passano e vanno senza colpo ferire se non fosse stato per un finale che, di fatto, vorrebbe risultare ancora più disturbante e sconvolgente per lo spettatore rispetto al resto della pellicola ma che finisce per scivolare nel ridicolo quando il giovane Tim, ormai ribattezzato Rabbit, trova il tanto sospirato confronto con il padre perduto anni prima e dopo una prigionia più simile ad una distorta versione di rapporto, per l’appunto, genitore/figlio: non so se l’idea di questa coda nella parte conclusiva sia dell’autore dello script originale o frutto di un’intuizione molto poco geniale della nostra figlia d’arte Jennifer, ma di certo lo scivolone in questo senso appare talmente evidente da far crollare anche le già non altissime quotazioni di una visione che poteva risultare quantomeno onesta ma che finisce per scaldare i colpi più selvaggi che il Saloon può dispensare.
Peccato davvero, perché per un appassionato di serial killers e morti ammazzati come il sottoscritto – ma anche Julez non scherza, in questo senso -, ogni nuova occasione di cimentarsi con il genere alimenta praticamente in automatico la speranza che, a sorpresa, ci si possa trovare di fronte a qualche piccola perla in grado di fotografare al meglio l’oscurità che alberga nella mente umana e che, in casi come quelli dei tipici assassini seriali, non riesce ad essere celata e rimanere sotto silenzio: nel caso di Chained, quello che ci siamo ritrovati di fronte è stato più un apparentemente lungo deja-vù viziato da una chiusura che avrebbe voluto essere sconvolgente e che, al contrario, risulta molto più semplicemente scivolare nel ridicolo involontario.
Una di quelle cose che ad un vero serial killer amante del controllo non sarebbe proprio andata giù, e che senza dubbio ad uno spettatore non può che far notare quanto abissale sia il divario che separa Jennifer da David Lynch.


MrFord


"Through these fields of destruction
baptisms of fire
I've witnessed your suffering
as the battles raged higher
and though they hurt me so bad
in the fear and alarm
you did not desert me
my brothers in arms."
Dire Straits - "Brothers in arms" -


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