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venerdì 18 marzo 2016

The look of silence

Regia: Joshua Oppenheimer
Origine: Danimarca, Indonesia, Finlandia, Norvegia, UK, Israele, Francia, USA, Germania, Olanda
Anno: 2014
Durata: 103'






La trama (con parole mie): nel millenovecentosessantacinque, a seguito del golpe militare, in Indonesia ebbe inizio una sistematica persecuzione ed eliminazione dei comunisti o presunti tali che provocò oltre un milione di vittime, principalmente tra la povera gente dei villaggi, che vide i propri cari scomparire o, peggio, finire torturati ed uccisi dalle squadre della morte assoldate dall'esercito, composte principalmente da criminali e civili reinventatisi aguzzini.
Adi non ha mai conosciuto suo fratello maggiore, Ramli, che fu ucciso due anni prima della sua nascita nel corso dei massacri dello Snake River, uno dei luoghi prediletti degli assassini per giustiziare i sospettati: accompagnato dal regista Josha Oppenheimer, Adi inizia una sorta di indagine giornalistica che lo porta a confrontarsi con alcuni dei responsabili degli eccidi e, dunque, della morte del fratello del suo "protagonista", alla ricerca, quantomeno - e considerato il potere e lo status di cui ancora godono - di un barlume di pentimento negli occhi dei persecutori.












"Nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l'amore", recita l'ultima strofa di uno dei pezzi più evocativi e struggenti - nonchè uno dei miei favoriti - di Fabrizio De Andrè, Il testamento di Tito.
In tutta onestà, ammetto che prima della visione del precedente lungometraggio di Oppenheimer dedicato all'Indonesia, The act of killing, non avevo assolutamente idea del genocidio che venne commesso a seguito del golpe militare del sessantacinque in questo paese così lontano e così diverso dal nostro: e sinceramente, a prescindere dalle questioni politiche, poco importa che la persecuzione fosse indirizzata ai comunisti.
La questione principale rispetto a quanto accadde - e accade, in una certa misura - in Indonesia è legata alla naturalezza con la quale un manipolo di uomini - gangsters, ma non solo - a tutt'oggi considerati eroi, arricchitisi a seguito di quegli eventi e rimasti al potere per tutta la vita, ripresi dal regista come un gruppo neppure troppo convincente di vecchietti deviati ed apparentemente innocui siano in realtà stati in grado di eseguire, commissionare e sovraintendere centinaia di omicidi a sangue freddo, e a distanza di decenni descrivere con il sorriso sulle labbra le tecniche utilizzate per togliere la vita, sventrare, tagliare la gola o i genitali delle loro vittime.
Ma se in The act of killing lo sgomento sopraggiungeva attraverso il confronto diretto con gli stessi, in The look of silence l'indagatore Josh compie un passo oltre: grazie al coraggio ed alla forza del protagonista Adi e della sua famiglia - incredibili le figure dei genitori, a loro dire quantomeno centenari, ancora segnati nel corpo e nella mente dal trauma che fu la perdita del primo figlio - l'occhio del regista ci conduce al confronto tra vittime e torturatori, grazie al viaggio di un uomo adulto in cerca, più che di vendetta, di risposte a domande naturali, giuste ed umane e dei responsabili della morte del fratello che non ha avuto occasione di conoscere, così come di tante altre.
Oltre allo sgomento rispetto alla naturalezza mostrata dai leader degli ex squadroni della morte nel raccontare, quasi fossero star del Cinema - come era capitato nel già citato The act of killing -, le loro imprese, nel corso della visione di The look of silence sono rimasto impressionato dalla forza d'animo con la quale Adi affronta una vera e propria epopea emotiva in grado di spezzare lo spirito della maggior parte degli uomini: il faccia a faccia con i responsabili della morte di un proprio familiare, pronti a giustificarsi e a negare sfruttando il vecchio adagio del "dovere" e delle "responsabilità", così come degli "ordini eseguiti" illustrato alla grande nel saggio Uomini comuni - che consiglio a tutti di recuperare - legato agli squadroni delle SS responsabili dei rastrellamenti nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Lo sguardo di Adi, il "look of silence" che da il titolo alla pellicola, è qualcosa che non potrei neppure descrivere, soprattutto a fronte della completa assenza di rimorso degli assassini di suo fratello e di centinaia, migliaia di altri uomini e donne - agghiaccianti i racconti legati ai seni tranciati con il machete, o al sangue umano bevuto per "scongiurare la follia" -: l'espressione del coraggio e della dignità, della forza che io stesso non credo riuscirei ad avere - sinceramente, il primo istinto sarebbe quello, quantomeno, di vendicare il lutto subito -, ma anche della comprensibile preghiera della madre dello stesso Adi, che augura tutto il male ed il dolore possibili non solo ai responsabili degli eccidi, ma anche ai loro figli e nipoti, sono immagini che, da spettatore e da persona, non dimenticherò facilmente.
E Joshua Oppenheimer fotografa, ancora una volta, il Male presente nell'Uomo con una forza devastante.
Senza fronzoli, artifici, giri di parole.
Mette tutto di fronte a noi.
Nei due assassini che mimano i colpi di machete.
Nello sguardo di Adi.
Che non cede al rancore, come cantava De Andrè, ma senza dubbio non trasmette Amore.




MrFord




"Hello darkness, my old friend,
I've come to talk with you again,
because a vision softly creeping,
left its seeds while I was sleeping,
and the vision that was planted in my brain
still remains
within the sound of silence."
Simon&Garfunkel - "The sound of silence" - 






lunedì 11 agosto 2014

Merantau

Regia: Gareth Evans
Origine: UK, Indonesia
Anno: 2009
Durata: 134'





La trama (con parole mie): Yuda, giovane indonesiano cresciuto in campagna e divenuto con gli anni un maestro di Silat, arte marziale locale, intraprende lasciando la famiglia e trasferendosi senza nulla a Jakarta il percorso del Merantau, che dovrebbe traghettarlo dalla giovinezza all'età adulta.
Spinto dal sogno di aprire una scuola proprio di Silat, Yuda vaga i primi giorni per le strade della città imbattendosi in Astri e nel suo fratellino Adit, che vivono di espedienti come meglio possono.
Quando alcuni misteriosi trafficanti di esseri umani europei stringono un accordo con il padrone del club dove Astri si esibisce che prevede il traffico di alcune ragazze - Astri compresa - Yuda si mette in gioco per difendere i suoi unici amici, quasi una famiglia per le strade di quel luogo violento e sconosciuto.
La lotta contro i trafficanti ed i loro uomini sancirà la crescita che Yuda cercava e la consacrazione del suo Merantau: ma a quale prezzo?







Chi bazzica il Saloon da un pò di tempo, sa bene del debole che il sottoscritto nutre per i film di botte in generale, complice una formazione infantile a suon di Stallone, Schwarzy, Van Damme e chi più ne ha, più ne metta - mi piacerebbe che qualcuno tra voi ricordasse anche Don "The Dragon" Wilson, in quest'ambito -: tolto l'esperimento più che riuscito degli Expendables, però, gli Anni Zero non hanno fornito particolari emozioni - purtroppo - in quest'ambito, se non grazie ad autentici lampi come il secondo e il terzo capitolo di Undisputed e The Raid - Redemption, probabilmente l'action movie definitivo parlando di sequenze al limite dell'impossibile e concentrazione di tematiche note a tutti i fan di questo tipo di Cinema dai tempi di Bruce Lee in poi.
Prima che potesse lasciare a bocca aperta il pubblico in tutto il mondo, però, Gareth Evans era "solo" un ragazzone gallese trapiantato in Oriente dalla grandissima tecnica ma ancora grezzo, di quelli che devono farsi le ossa prima del definitivo salto di qualità e della consacrazione - sacrosanta -: Merantau è l'espressione proprio di questo.
Iko Uwais, che sarà protagonista anche dei lavori successivi del regista, asso del Silat - arte marziale indonesiana - e viso che ricorda quello degli sfigati e degli outsiders della mitologia dei film di botte anni ottanta, presta benissimo fisicità a Yuda, candido eroe positivo che, nei meandri di una Jakarta fotografata alla grandissima - tanto da ricordare il successivo Solo dio perdona -, finisce per trasformare l'esperienza del suo passaggio all'età adulta in uno scontro all'ultimo sangue con una banda di trafficanti di donne pronta a concentrare le sue attenzioni sulla sorella di un bambino che vive di espedienti fin dal primo incontro e, di fatto, spalla dello stesso protagonista.
Senza dubbio siamo di fronte ad un prodotto nettamente inferiore a quello che diverrà lo standard di Evans, decisamente troppo lungo, doppiato malissimo nella versione italiana - agghiacciante soprattutto la resa di Astri, per non parlare dell'adattamento - e scritto neanche fosse una sorta di soap televisiva condita di botte da orbi: eppure la classe dell'uomo dietro la macchina da presa ed il suo talento, così come l'occhio per le coreografie pressochè perfette degli scontri - bellissimo quello sul cavalcavia - sono evidenti, e insieme alla già citata fotografia da urlo e al destino di Yuda - per una volta almeno in parte differente da quello dei classici eroi positivi - contribuiscono a rendere comunque e a suo modo interessante la visione, almeno per chi, con il tempo, ha imparato ad adorare il lavoro del buon Gareth, che sfoggia un piglio assolutamente da "Far East" neanche fosse più orientale degli orientali stessi.
I radical chic di ogni taglio e colore, comunque - tradotto in termini di uso comune, Cannibal Kid e soci -, farebbero meglio ad astenersi almeno quanto i non avvezzi al genere, che potrebbero trovare quella che, di fatto, è stata la palestra di Evans un vero e proprio polpettone di dubbio gusto all'interno del quale si alternano legnate da record ed atmosfere al limite della fiction televisiva sentimental-drammatica: Merantau è stato il Merantau del regista, e proprio per questo è un prodotto destinato principalmente ai suoi fan, magari in modo da sfruttarlo come antipasto per il recente e clamoroso The Raid 2, o come un contenuto extra da bluray o dvd.
E se anche doveste annoiarvi un pò, tra un pestaggio e l'altro, fatevi forza: bastano un paio di colpi ben assestati per far tornare pericolosamente alto il livello dell'attenzione.
E dell'esaltazione che il genere garantisce.



MrFord




"I told 'em all where to stick it
I left town with a dime to my name
I said, I'm done with all of my fake friends
self-righteous pawns in a losing game."
Paramore - "Grow up" - 



mercoledì 16 aprile 2014

The act of killing

Regia: Joshua Oppenheimer
Origine: Danimarca, Norvegia, UK, USA
Anno:
2012
Durata: 115'





La trama (con parole mie): in Indonesia, a cavallo tra il 1965 ed il 1966, un colpo di stato depose il governo per instaurare un regno di terrore che, avvalendosi di gruppi paramilitari e gangsters, perseguitò i comunisti o presunti tali e la popolazione cinese presente entro i confini, finendo per mietere più di un milione di vittime. Gli esecutori materiali dei delitti, ormai ben oltre l'età pensionabile, finiscono per ritrovarsi e ricostruire come se si trattasse di un gioco, o di fiction, gli atti da loro stessi perpetrati.
Attualmente considerati delle sorte di leggende ed appoggiati da governanti e figure di spicco del Paese, questi ex aguzzini consegnano al mondo un ritratto tanto agghiacciante quanto clamorosamente umano di uno dei genocidi più terribili del ventesimo secolo.








"Le regole che definiscono i crimini contro l'Umanità sono dettate dai vincitori, ed io ho vinto. Dunque non mi interessa di quello che pensa la Convenzione di Ginevra. Anzi, se dovessi essere chiamato, andrei. Non perchè mi senta in colpa, ma perchè in questo modo potrei finalmente diventare famoso".
In questo modo, parola più, parola meno, uno degli aguzzini delle squadre della morte del terribile biennio '65/'66 in Indonesia, ormai più simile ad un innocuo pensionato medio, sentenzia a proposito di quelle che sono state le sue azioni in quanto gangster assoldato dal governo salito al potere grazie ad un colpo di stato, filmato mentre guida, neanche fossimo persone cui ha dato un passaggio mentre andava a fare la spesa. E non è neppure il momento più agghiacciante, all'interno di The act of killing.
Non è la prima volta che mi capita di guardare documentari che tocchino argomenti terribili, o di leggere degli stessi, dagli episodi legati ai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale all'Unione Sovietica di Stalin, dai Khmer rossi all'Argentina dei desaparecidos, dal Chile di Allende piegato da Pinochet ad Haiti e alla lotta per la pace di Jean Dominique.
Proprio quest'ultimo, nel corso delle sue trasmissioni radiofoniche, cercava di sensibilizzare i contadini analfabeti rispetto al fatto che, in altre parti del mondo, ci fossero persone che subivano le stesse violenze, venivano schiacciate con lo stesso, terrificante metodo: Anwar Congo, uno dei protagonisti assoluti di questo straordinario lavoro di Oppenheimer, afferma più o meno la stessa cosa, accostando il gusto splatter di alcuni film e l'operato della Germania di Hitler all'idea del fascino che un certo tipo di Male finisce per esercitare sul pubblico, dichiarando, mentre sta seduto in poltrona, di aver fatto di peggio più e più volte, con le sue mani, dichiarando senza problemi a favore di macchina da presa di avere staccato la testa a degli uomini.
Non è la prima volta, scrivevo poco sopra, che mi confronto con una visione scomoda come questa, eppure raramente sono uscito così toccato da quello che il regista ha deciso di raccontare: non tanto per la violenza esplicita - in realtà, si parla di ricostruzioni da studio, e di qualità infima, di un gruppo di quasi vecchietti ed esaltati a metà tra il crimine e la politica -, quanto dall'idea che l'espressione di questi assassini sia quella del lato oscuro dell'Uomo, senza una virgola in più o in meno.
Lo stesso e già citato Congo, che probabilmente avrà sulla coscienza più omicidi di un qualsiasi serial killer statunitense, riesce a passare dalla freddezza dei resoconti delle metodologie di uccisione al pentimento mosso da un malessere quasi fisico, dalla dimostrazione di se stesso alle celebrazioni di uno dei gruppi paramilitari dal seguito più numeroso in Indonesia ai nipoti cui è mostrato quello che il nonno faceva ai comunisti sotto forma, per l'appunto, di film, senza apparire posticcio o costruito.
E non è che uno soltanto, dei responsabili mostrati dal regista texano in queste due ore che potrebbero tranquillamente essere definite horror.
La situazione dell'Indonesia attuale, inoltre, benchè lontana da quella dei massacri che fanno da sfondo alla narrazione, lascia che brividi corrano lungo la schiena dello spettatore perchè clamorosamente simile a quella dei Paesi per così dire "civilizzati" come il nostro, che non vivono appoggiandosi ad un equilibrio drammaticamente palese - i gangsters considerati ed ammirati come "uomini liberi", che in quanto al di fuori della Legge, sono giustificati per qualsiasi azione, dall'estorsione di rito ai commercianti cinesi locali ad eventuali servizi offerti ai governi in casi come quelli della persecuzione dei comunisti che ha ispirato questa pellicola - ma che, di fondo, sono regolati da taciti accordi molto simili.
Gli stessi che Jean Dominique cercava di raccontare alla sua gente, o che Anwar Congo ammette esistano in tutto il mondo. Gli accordi dei vincitori che dettano le regole che più convengono affinchè restino tali.
Quello che è mostrato - e che fa più paura - in The act of killing è la terribile sete dell'Uomo.
Di potere, di sangue, di violenza, di bisogno ancestrale di dimostrare di essere il re della foresta.
E che la stessa viva per le strade celata dietro l'aspetto assolutamente comune di un qualsiasi, apparentemente innocuo vecchietto.



MrFord



"Ain't got no place to lay your head 
somebody came and took your bed
don't worry, be happy.
the landlord say your rent is late
he may have to litigate
don't worry, be happy."
Bobby McFerrin - "Don't worry, be happy" - 




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