So che dici in giro che dopo i settanta non si festeggia più, ma non ce l'ho fatta.
Continua così, Cavaliere pallido.
Noi, da queste parti, ti vogliamo "spietato" ancora per un pò.
MrFord
lunedì 31 maggio 2010
Kick ass
Esistono dei fenomeni che si creano ancora prima di arrivare nelle sale: tam tam della rete, trailer accattivanti, recensioni entusiastiche, fan in visibilio.
Così, quando ce li si ritrova di fronte, inevitabilmente si finisce per fare i conti con le aspettative che il loro essere fenomeni ha generato.
A questo punto, come per i pilota di cui parla Jules in Pulp Fiction, "alcuni vengono scelti e diventano serie, e altri no, e diventano niente."
Sicuramente Kick ass, tratto dalla mini a fumetti firmata da Mark Millar e John Romita Jr. - mica gli ultimi arrivati, insomma - ha tutto il potenziale per non tradire le attese e confermarsi come uno dei prodotti migliori del panorama figlio dei comics uscito in sala negli ultimi anni.
Certo, i Batman di Nolan sono anni luce lontani, ma mi piace pensare che questa colorata eppure nerissima sarabanda firmata Matthew Vaughn possa essere paragonata ai primi due Spiderman e a Watchmen, con una buona dose di confidenza da effetti in meno e tanta ironica violenza in più.
Occorre anche riconoscere, però, per non rischiare di alimentare ulteriormente il fenomeno Kick ass, che rimaniamo nell'ambito delle pellicole "carine", di quelle che ti strappano qualche risata sincera, ti appassionano e colpiscono, ma giusto per il tempo della loro durata.
E senza la stupefacente, incredibile, fantastica Hit girl interpretata da un'altrettanto grande Chloe Moretz - una sorta di Olive di Little miss sunshine incrociata a Lady vendetta di Park Chan Wook -, bisogna ammettere che Kick ass avrebbe perso gran parte del suo fascino, forse a causa - o per merito - del protagonista, che pare sempre troppo rivolto a un pubblico "geek" o che fa della solo apparente nerditudine uno dei jolly cool della propria immagine.
Spezzando ugualmente una lancia in favore dell'eroe, bisogna allo stesso modo ammettere che lo stesso riesce a regalare momenti unici, soprattutto nella prima parte della pellicola, maggiormente legata alla sua "genesi", che forse sarebbe valsa qualche minuto in più: al contrario dei due eroi positivi, invece, Red Mist e padre - un ormai onnipresente Mark Strong - assumono fin troppo i connotati dei cattivi dei film di Guy Ritchie, dal cui bacino culturale - cinematograficamente parlando - Vaughn proviene.
Personalmente, nonostante da ciò che ho scritto possa sembrare il contrario, ammetto di essermi divertito e di aver trovato più di un tema interessante i cui semi sono stati piantati - più o meno visibilmente - nel pubblico, e di aver trovato un prodotto ottimamente confezionato, dalla colonna sonora travolgente, fotografia azzeccatissima e un montaggio serrato alla Hot fuzz, per citare un altro grande esempio dell'intrattenimento intelligente.
Eppure, mi sentirei di rimandare la definizione di "cult" per Kick ass fino all'uscita del secondo capitolo, previsto per il 2011 e già in corso di lavorazione con il cast pressochè invariato.
Vedremo se i sassi lanciati da Vaughn e soci provocheranno onde abbastanza grandi da valere la pena di essere cavalcate.
Nell'attesa di quelle stesse onde e di un'uscita italiana, confidiamo in un adattamento non pietoso di titolo e dialoghi - le volgarità di Hit girl sono un vero spasso - e godiamoci Kick ass per quello che è: un teen movie divertente, attualissimo - comincio a sentirmi vecchio rispetto alla generazione myspace e iphone - e profondo che a tratti - e solo a tratti - spacca davvero i culi.
"I don't give a damn 'bout my reputation
you're living the past, it's a new generation."
MrFord
Così, quando ce li si ritrova di fronte, inevitabilmente si finisce per fare i conti con le aspettative che il loro essere fenomeni ha generato.
A questo punto, come per i pilota di cui parla Jules in Pulp Fiction, "alcuni vengono scelti e diventano serie, e altri no, e diventano niente."
Sicuramente Kick ass, tratto dalla mini a fumetti firmata da Mark Millar e John Romita Jr. - mica gli ultimi arrivati, insomma - ha tutto il potenziale per non tradire le attese e confermarsi come uno dei prodotti migliori del panorama figlio dei comics uscito in sala negli ultimi anni.
Certo, i Batman di Nolan sono anni luce lontani, ma mi piace pensare che questa colorata eppure nerissima sarabanda firmata Matthew Vaughn possa essere paragonata ai primi due Spiderman e a Watchmen, con una buona dose di confidenza da effetti in meno e tanta ironica violenza in più.
Occorre anche riconoscere, però, per non rischiare di alimentare ulteriormente il fenomeno Kick ass, che rimaniamo nell'ambito delle pellicole "carine", di quelle che ti strappano qualche risata sincera, ti appassionano e colpiscono, ma giusto per il tempo della loro durata.
E senza la stupefacente, incredibile, fantastica Hit girl interpretata da un'altrettanto grande Chloe Moretz - una sorta di Olive di Little miss sunshine incrociata a Lady vendetta di Park Chan Wook -, bisogna ammettere che Kick ass avrebbe perso gran parte del suo fascino, forse a causa - o per merito - del protagonista, che pare sempre troppo rivolto a un pubblico "geek" o che fa della solo apparente nerditudine uno dei jolly cool della propria immagine.
Spezzando ugualmente una lancia in favore dell'eroe, bisogna allo stesso modo ammettere che lo stesso riesce a regalare momenti unici, soprattutto nella prima parte della pellicola, maggiormente legata alla sua "genesi", che forse sarebbe valsa qualche minuto in più: al contrario dei due eroi positivi, invece, Red Mist e padre - un ormai onnipresente Mark Strong - assumono fin troppo i connotati dei cattivi dei film di Guy Ritchie, dal cui bacino culturale - cinematograficamente parlando - Vaughn proviene.
Personalmente, nonostante da ciò che ho scritto possa sembrare il contrario, ammetto di essermi divertito e di aver trovato più di un tema interessante i cui semi sono stati piantati - più o meno visibilmente - nel pubblico, e di aver trovato un prodotto ottimamente confezionato, dalla colonna sonora travolgente, fotografia azzeccatissima e un montaggio serrato alla Hot fuzz, per citare un altro grande esempio dell'intrattenimento intelligente.
Eppure, mi sentirei di rimandare la definizione di "cult" per Kick ass fino all'uscita del secondo capitolo, previsto per il 2011 e già in corso di lavorazione con il cast pressochè invariato.
Vedremo se i sassi lanciati da Vaughn e soci provocheranno onde abbastanza grandi da valere la pena di essere cavalcate.
Nell'attesa di quelle stesse onde e di un'uscita italiana, confidiamo in un adattamento non pietoso di titolo e dialoghi - le volgarità di Hit girl sono un vero spasso - e godiamoci Kick ass per quello che è: un teen movie divertente, attualissimo - comincio a sentirmi vecchio rispetto alla generazione myspace e iphone - e profondo che a tratti - e solo a tratti - spacca davvero i culi.
"I don't give a damn 'bout my reputation
you're living the past, it's a new generation."
MrFord
sabato 29 maggio 2010
Rumble tumble
Un gran casino, ecco cos'è il rumble tumble.
Di quelli dai quali non è facile uscire, e che, inevitabilmente, porteranno con loro ferite e strascichi per molto tempo.
Lansdale continua a stupirmi: al quinto romanzo dedicato ai fantastici Hap e Leonard ancora le cartucce che l'autore ha da sparare paiono davvero molte, e sempre in grado di folgorare incondizionatamente il lettore.
Questa volta il vecchio Joe era partito con il freno a mano tirato, quasi riuscendo a trasformare il suo stile narrativo nella condizione esistenziale di Hap, ormai più vicino ai cinquanta che non ai quaranta, forse stanco, come sempre indeciso: ed era così tirato, quel freno, che quasi il dubbio che l'autore non avesse più voglia di continuare è riuscito ad insinuarsi nel sottoscritto, almeno fino al primo, vero confronto fra i due protagonisti.
Un confronto che definisce senza mezzi termini tutto il genio "pane e salame" di Lansdale.
Leonard che riprende Hap per le sue scarsissime doti di "uomo di casa" a proposito di pulizia è qualcosa che ogni scrittore sogna di buttare sulla pagina, un dialogo così fulminante da far venire un infarto a Tarantino, e in grado - ma questa non è certo la prima volta - di rendere il lettore ridicolo agli occhi di chi se lo ritrova in treno a ridere sguaiatamente pensando agli elfi che cambiano i rotoli di carta igienica.
E tutto questo non è che il principio di una vicenda che riporta alla mente il primo romanzo della serie, a metà fra il road movie e una surreale galleria di freaks di provincia rigorosamente made in Texas mossi dal bassoventre, più che dalla testa.
Come lo stesso Hap, ancora una volta al centro di un guaio nato da una donna e destinato, come l'appena citato Una stagione selvaggia, a non finire bene, per il nostro democratico alla ricerca di pony: a cui questa volta non resta davvero nulla di utile per una spiegazione, se non che, effettivamente, nella mente dell'uomo che ripugna le armi e la violenza è forse celato una sorta di controllo imposto di fronte ad una natura che è peggiore di quello che si vorrebbe pensare.
E per la prima volta dall'inizio della loro "saga", anche Hap e Leonard, pur mossi da un intento "nobile", appaiono più simili ai fuorilegge cui danno la caccia che non ai poliziotti che, in altre occasioni, sono stati loro accanto.
Tra una risata e l'altra, la riflessione sull'utilizzo e l'interpretazione della legge che cambia a seconda delle proprie necessità, o di quelle di chi si ama, diviene una riflessione profonda e mai scontata sulla natura totalmente animale di noi esseri umani, dai nani ai giganti mossi da interessi primari che sono sempre infinitamente più semplici di quanto si possa credere.
In qualche modo, questo grosso guaio, richiamando lo spirito del primo romanzo dedicato a questi due sempre sorprendenti protagonisti, riesce a fondere lo stesso con la violenza oscura de Il mambo degli orsi, vero e proprio cambio di marcia e approccio nella vita di Hap e Leonard: questa volta, però, l'oscurità di cui si parla - pur se velatamente, in maniera quasi sotterranea - è tutta loro.
Ed è davvero strano pensare, e non era mai capitato, che si potrebbe aver paura di questi due irresistibili anti eroi.
"There's mud in the water,
roach in the cellar,
bugs in the sugar."
MrFord
Di quelli dai quali non è facile uscire, e che, inevitabilmente, porteranno con loro ferite e strascichi per molto tempo.
Lansdale continua a stupirmi: al quinto romanzo dedicato ai fantastici Hap e Leonard ancora le cartucce che l'autore ha da sparare paiono davvero molte, e sempre in grado di folgorare incondizionatamente il lettore.
Questa volta il vecchio Joe era partito con il freno a mano tirato, quasi riuscendo a trasformare il suo stile narrativo nella condizione esistenziale di Hap, ormai più vicino ai cinquanta che non ai quaranta, forse stanco, come sempre indeciso: ed era così tirato, quel freno, che quasi il dubbio che l'autore non avesse più voglia di continuare è riuscito ad insinuarsi nel sottoscritto, almeno fino al primo, vero confronto fra i due protagonisti.
Un confronto che definisce senza mezzi termini tutto il genio "pane e salame" di Lansdale.
Leonard che riprende Hap per le sue scarsissime doti di "uomo di casa" a proposito di pulizia è qualcosa che ogni scrittore sogna di buttare sulla pagina, un dialogo così fulminante da far venire un infarto a Tarantino, e in grado - ma questa non è certo la prima volta - di rendere il lettore ridicolo agli occhi di chi se lo ritrova in treno a ridere sguaiatamente pensando agli elfi che cambiano i rotoli di carta igienica.
E tutto questo non è che il principio di una vicenda che riporta alla mente il primo romanzo della serie, a metà fra il road movie e una surreale galleria di freaks di provincia rigorosamente made in Texas mossi dal bassoventre, più che dalla testa.
Come lo stesso Hap, ancora una volta al centro di un guaio nato da una donna e destinato, come l'appena citato Una stagione selvaggia, a non finire bene, per il nostro democratico alla ricerca di pony: a cui questa volta non resta davvero nulla di utile per una spiegazione, se non che, effettivamente, nella mente dell'uomo che ripugna le armi e la violenza è forse celato una sorta di controllo imposto di fronte ad una natura che è peggiore di quello che si vorrebbe pensare.
E per la prima volta dall'inizio della loro "saga", anche Hap e Leonard, pur mossi da un intento "nobile", appaiono più simili ai fuorilegge cui danno la caccia che non ai poliziotti che, in altre occasioni, sono stati loro accanto.
Tra una risata e l'altra, la riflessione sull'utilizzo e l'interpretazione della legge che cambia a seconda delle proprie necessità, o di quelle di chi si ama, diviene una riflessione profonda e mai scontata sulla natura totalmente animale di noi esseri umani, dai nani ai giganti mossi da interessi primari che sono sempre infinitamente più semplici di quanto si possa credere.
In qualche modo, questo grosso guaio, richiamando lo spirito del primo romanzo dedicato a questi due sempre sorprendenti protagonisti, riesce a fondere lo stesso con la violenza oscura de Il mambo degli orsi, vero e proprio cambio di marcia e approccio nella vita di Hap e Leonard: questa volta, però, l'oscurità di cui si parla - pur se velatamente, in maniera quasi sotterranea - è tutta loro.
Ed è davvero strano pensare, e non era mai capitato, che si potrebbe aver paura di questi due irresistibili anti eroi.
"There's mud in the water,
roach in the cellar,
bugs in the sugar."
MrFord
venerdì 28 maggio 2010
Assassino senza colpa
Qualche tempo fa scrivevo della prova del tempo, spesso spietata con film, libri o dischi.
Assassino senza colpa - Rampage in originale -, pur se visivamente ancorato agli anni della sua realizzazione, porta un carico di riflessioni e un tema assolutamente attuali e dalla inusitata pesantezza e portata.
Strutturato principalmente come un legal thriller venato di tinte horror - paiono quasi sentirsi ancora i richiami de L'esorcista, firmato sempre Friedkin -, la trama di questo lavoro si sviluppa attorno alla figura del giovane Reece, serial killer dalla spiccata intelligenza e dalla violenza incontrollata, reo confesso di cinque delitti e oggetto del dibattito di psicologi, avvocati e gente comune - leggasi giuria -.
Pena di morte o ergastolo per infermità mentale?
Il dilemma appare estremamente profondo e terribile, sia esso preso dalla parte conservatrice o repubblicana: un giovane colpevole di omicidi agghiaccianti va studiato e tutelato o ucciso per risparmiare il pericolo che può costituire rispetto al mondo?
Ricordo quando, anni fa, lessi "Mind hunter" di John Douglas, uno dei primi profiler dell'Fbi, pioniere dello studio della psiche dei serial killer: rimasi molto colpito quando lo stesso autore dichiarò che, negli anni, e dopo aver conosciuto, intervistato e anche, in alcuni casi, addirittura stimato l'intelligenza dei soggetti che andava ad analizzare, era divenuto favorevole alla pena di morte, non fosse altro perchè molti degli stessi dichiaravano senza troppi patemi che, nel caso fossero riusciti a tornare in libertà, avrebbero ripreso la loro attività.
Da democratico, è difficile poter pensare di approcciare un tema come questo con facilità: eppure, ragionando criticamente, è altrettanto difficile pensare che il senso tutto animale - e quindi umano - legato all'istinto e alla vendetta, non preveda, anche in caso di "vita", una rivalsa contro l'autore di un omicidio, sia la stessa legalizzata o anche soltanto pensata, o provata.
Un soggetto scomodo e a tratti assolutamente rivoluzionario per l'epoca, da qualsiasi angolazione politica - statunitense e non - lo si voglia osservare: l'avvocato dell'accusa, dichiaratamente contrario alla pena di morte, trova nella crudeltà e lucidità dell'assassino e nel ricordo della morte di sua figlia la spinta ad arringare in favore della stessa in aula, nella scena più agghiacciante - anche più di quelle degli stessi omicidi - dei tre minuti cronometrati ed associati alle vite spente da Reece.
Perchè di fronte agli attoniti giurati il sostituto procuratore, cronometro alla mano, trasforma centottanta secondi in un'eternità, e sentenzia che chi è in grado di far passare ad una persona un'agonia così lunga per porre fine alla sua esistenza merita senza dubbio alcuno di morire.
E purtroppo, nel vedere Reece gettare nel fiume il cadavere di un bambino in un sacco dell'immondizia, il dubbio viene. Se non peggio.
Ovvero trasformare in una tortura il resto della vita di un assassino come questo.
Ma di contro, c'è sempre l'immagine che Fritz Lang diede in M - Il mostro di Dusseldorf, con il disperato Peter Lorre che invocava la pietà data dalla sua stessa natura, o quella di Alba fatale di Wellman, in cui Henry Fonda difendeva tre colpevoli dal linciaggio pubblico.
Un confronto durissimo, che colpisce e dilania, perchè non ha ragione o torto, ed è fortemente influenzato dal coinvolgimento che si ha nella situazione.
Sarebbe ipocrita negare, del resto, in questo senso, che se il Destino ci volesse nella situazione del padre di quel bambino, non ci schiereremmo anche contro ai nostri più democratici e saldi valori.
In fondo, siamo animali, e l'istinto ha il sopravvento su tutto il resto.
Bisogna solo sperare di essere da quella parte del regno di madre natura che prevede il rispetto per le vite degli altri. O almeno, che non ne provochi la fine.
"I feel the power of death over life,
I orphaned his children, I widowed his wife,
I begged their forgiveness, I wish I was dead,
I hung my head."
MrFord
Assassino senza colpa - Rampage in originale -, pur se visivamente ancorato agli anni della sua realizzazione, porta un carico di riflessioni e un tema assolutamente attuali e dalla inusitata pesantezza e portata.
Strutturato principalmente come un legal thriller venato di tinte horror - paiono quasi sentirsi ancora i richiami de L'esorcista, firmato sempre Friedkin -, la trama di questo lavoro si sviluppa attorno alla figura del giovane Reece, serial killer dalla spiccata intelligenza e dalla violenza incontrollata, reo confesso di cinque delitti e oggetto del dibattito di psicologi, avvocati e gente comune - leggasi giuria -.
Pena di morte o ergastolo per infermità mentale?
Il dilemma appare estremamente profondo e terribile, sia esso preso dalla parte conservatrice o repubblicana: un giovane colpevole di omicidi agghiaccianti va studiato e tutelato o ucciso per risparmiare il pericolo che può costituire rispetto al mondo?
Ricordo quando, anni fa, lessi "Mind hunter" di John Douglas, uno dei primi profiler dell'Fbi, pioniere dello studio della psiche dei serial killer: rimasi molto colpito quando lo stesso autore dichiarò che, negli anni, e dopo aver conosciuto, intervistato e anche, in alcuni casi, addirittura stimato l'intelligenza dei soggetti che andava ad analizzare, era divenuto favorevole alla pena di morte, non fosse altro perchè molti degli stessi dichiaravano senza troppi patemi che, nel caso fossero riusciti a tornare in libertà, avrebbero ripreso la loro attività.
Da democratico, è difficile poter pensare di approcciare un tema come questo con facilità: eppure, ragionando criticamente, è altrettanto difficile pensare che il senso tutto animale - e quindi umano - legato all'istinto e alla vendetta, non preveda, anche in caso di "vita", una rivalsa contro l'autore di un omicidio, sia la stessa legalizzata o anche soltanto pensata, o provata.
Un soggetto scomodo e a tratti assolutamente rivoluzionario per l'epoca, da qualsiasi angolazione politica - statunitense e non - lo si voglia osservare: l'avvocato dell'accusa, dichiaratamente contrario alla pena di morte, trova nella crudeltà e lucidità dell'assassino e nel ricordo della morte di sua figlia la spinta ad arringare in favore della stessa in aula, nella scena più agghiacciante - anche più di quelle degli stessi omicidi - dei tre minuti cronometrati ed associati alle vite spente da Reece.
Perchè di fronte agli attoniti giurati il sostituto procuratore, cronometro alla mano, trasforma centottanta secondi in un'eternità, e sentenzia che chi è in grado di far passare ad una persona un'agonia così lunga per porre fine alla sua esistenza merita senza dubbio alcuno di morire.
E purtroppo, nel vedere Reece gettare nel fiume il cadavere di un bambino in un sacco dell'immondizia, il dubbio viene. Se non peggio.
Ovvero trasformare in una tortura il resto della vita di un assassino come questo.
Ma di contro, c'è sempre l'immagine che Fritz Lang diede in M - Il mostro di Dusseldorf, con il disperato Peter Lorre che invocava la pietà data dalla sua stessa natura, o quella di Alba fatale di Wellman, in cui Henry Fonda difendeva tre colpevoli dal linciaggio pubblico.
Un confronto durissimo, che colpisce e dilania, perchè non ha ragione o torto, ed è fortemente influenzato dal coinvolgimento che si ha nella situazione.
Sarebbe ipocrita negare, del resto, in questo senso, che se il Destino ci volesse nella situazione del padre di quel bambino, non ci schiereremmo anche contro ai nostri più democratici e saldi valori.
In fondo, siamo animali, e l'istinto ha il sopravvento su tutto il resto.
Bisogna solo sperare di essere da quella parte del regno di madre natura che prevede il rispetto per le vite degli altri. O almeno, che non ne provochi la fine.
"I feel the power of death over life,
I orphaned his children, I widowed his wife,
I begged their forgiveness, I wish I was dead,
I hung my head."
MrFord
giovedì 27 maggio 2010
Alice in wonderland
Ammetto che Tim Burton ha su di me lo stesso effetto di Spike Lee.
Ovvero: meno un suo film somiglia a un suo film e più mi piace.
Purtroppo, non è il caso di questa tanto attesa Alice, che oltre ad avere tutte le caratteristiche di un classico film burtoniano - dagli attori allo stile visivo - da la sgradevole sensazione che tutta l'operazione altro non sia che un gigantesco marchettone a mamma Disney, che finanziava il progetto in attesa di lanciarlo sul mercato home video accompagnandolo con la ristampa dell'invece interessantissima versione a cartoni animati.
Burton, da par suo, pur non figurando tra i miei registi preferiti, aveva invece sempre realizzato ottimi prodotti, in alcuni casi addirittura magnifici - Nightmare before Christmas, pur se supportato dalla regia di Selick, e Big Fish -, e anche nei suoi lavori meno riusciti - La fabbrica di cioccolato e Il mistero di Sleepy Hollow - aveva comunque fatto sfoggio di un grandissimo talento visivo e di un'inventiva sempre pronta a servire la sorpresa allo spettatore.
Nel caso di Alice in wonderland, invece, questa sorpresa non arriva mai, e si ha l'impressione di assistere ad uno spettacolo confezionato strizzando l'occhio ai vari Harry Potter e Cronache di Narnia stiracchiato e neanche lontanamente divertente, nonostante i prodigiosi effetti e lo splendido Stregatto.
Certo, non siamo di fronte ad una cosa terribile come Scontro di titani, ma il tasso di noia gli è pericolosamente vicino, e non bastano i siparietti del fante e della regina di cuori per togliermi dalla mente che anche un film per ragazzi come Hook - giocato anch'esso sul pensiero di dare una sorta di seguito ad un classico per i piccoli (e i grandi) di ogni generazione -, certo non il capolavoro di Spielberg, riesce ad appassionare e divertire più della smorta Alice burtoniana.
Il tutto per non rischiare di indugiare troppo - o addirittura tentare di sorvolare - sulla ridicola interpretazione di Ann Hathaway nel ruolo della regina bianca, con tutto un piroettare di mani che provoca pericolose digressioni nell'immaginario della violenza tarantiniana.
Se non altro, Alice in wonderland ha il primato assicurato come peggior film di Tim Burton, che dovrebbe lasciarsi alle spalle mondi incantati ed eroine darkeggianti per tornare a mettere al servizio della vita la sua incredibile immaginazione: altrimenti rischia di fare la stessa fine del buon vecchio Jack quella volta in cui cercò di prendere il posto di Babbo Nachele perchè annoiato del suo mondo.
La lezione di Big Fish era un'altra: prendere quello stesso mondo e renderlo unico grazie alla capacità di raccontare.
E' ora che tu ritrovi quell'entusiasmo, Tim.
Perchè davvero, quella volta ti ci sei avvicinato, al capolavoro.
E non c'è stato bisogno di cerone o lacrime da emo-chic.
Solo del cuore.
Per una volta, chissà, magari senza i dollaroni paperoniani della grande D.
"And I, Jack, the pumpkin king,
have grown so tired of the same old thing."
MrFord
Ovvero: meno un suo film somiglia a un suo film e più mi piace.
Purtroppo, non è il caso di questa tanto attesa Alice, che oltre ad avere tutte le caratteristiche di un classico film burtoniano - dagli attori allo stile visivo - da la sgradevole sensazione che tutta l'operazione altro non sia che un gigantesco marchettone a mamma Disney, che finanziava il progetto in attesa di lanciarlo sul mercato home video accompagnandolo con la ristampa dell'invece interessantissima versione a cartoni animati.
Burton, da par suo, pur non figurando tra i miei registi preferiti, aveva invece sempre realizzato ottimi prodotti, in alcuni casi addirittura magnifici - Nightmare before Christmas, pur se supportato dalla regia di Selick, e Big Fish -, e anche nei suoi lavori meno riusciti - La fabbrica di cioccolato e Il mistero di Sleepy Hollow - aveva comunque fatto sfoggio di un grandissimo talento visivo e di un'inventiva sempre pronta a servire la sorpresa allo spettatore.
Nel caso di Alice in wonderland, invece, questa sorpresa non arriva mai, e si ha l'impressione di assistere ad uno spettacolo confezionato strizzando l'occhio ai vari Harry Potter e Cronache di Narnia stiracchiato e neanche lontanamente divertente, nonostante i prodigiosi effetti e lo splendido Stregatto.
Certo, non siamo di fronte ad una cosa terribile come Scontro di titani, ma il tasso di noia gli è pericolosamente vicino, e non bastano i siparietti del fante e della regina di cuori per togliermi dalla mente che anche un film per ragazzi come Hook - giocato anch'esso sul pensiero di dare una sorta di seguito ad un classico per i piccoli (e i grandi) di ogni generazione -, certo non il capolavoro di Spielberg, riesce ad appassionare e divertire più della smorta Alice burtoniana.
Il tutto per non rischiare di indugiare troppo - o addirittura tentare di sorvolare - sulla ridicola interpretazione di Ann Hathaway nel ruolo della regina bianca, con tutto un piroettare di mani che provoca pericolose digressioni nell'immaginario della violenza tarantiniana.
Se non altro, Alice in wonderland ha il primato assicurato come peggior film di Tim Burton, che dovrebbe lasciarsi alle spalle mondi incantati ed eroine darkeggianti per tornare a mettere al servizio della vita la sua incredibile immaginazione: altrimenti rischia di fare la stessa fine del buon vecchio Jack quella volta in cui cercò di prendere il posto di Babbo Nachele perchè annoiato del suo mondo.
La lezione di Big Fish era un'altra: prendere quello stesso mondo e renderlo unico grazie alla capacità di raccontare.
E' ora che tu ritrovi quell'entusiasmo, Tim.
Perchè davvero, quella volta ti ci sei avvicinato, al capolavoro.
E non c'è stato bisogno di cerone o lacrime da emo-chic.
Solo del cuore.
Per una volta, chissà, magari senza i dollaroni paperoniani della grande D.
"And I, Jack, the pumpkin king,
have grown so tired of the same old thing."
MrFord
martedì 25 maggio 2010
Lost
Così, ci siamo arrivati.
Lost, dopo sei anni di cavalcata, saluta il suo pubblico e si congeda dal mondo dell'entertainment e dai cuori di milioni di fan che non avrebbero mai voluto vivere questo momento.
Ricordo quando ebbi il mio primo contatto con la serie che ha rivoluzionato il mondo del piccolo schermo: correva la primavera del 2006, e il mio vecchio amico Gigi - che, più tardi, assunse agli occhi di tutti noi il ruolo di Jack - mi lasciò tra le mani i dischi della prima stagione completa.
Onestamente reagii con scetticismo, e nonostante l'indubbia qualità dell'episodio pilota, dall'occhio spalancato di colpo dello stesso Jack a Locke con il suo sorriso all'arancia, continuai a rimanere perplesso: il primo colpo lo subii con "Walkabout", il primo episodio dedicato a John Locke, che rivelava, nel finale, che nella sua vita prima della caduta dell'Oceanic 815 il misterioso personaggio era paralitico.
Ma fu con l'episodio otto, "Confidence man", che il mio rapporto con Lost cambiò definitivamente: James "Sawyer" Ford, che di certo non aveva avuto un impatto positivo su di me nelle sue prime apparizioni, ribaltò completamente la percezione che avevo del suo personaggio e dell'intera serie.
E nella tumultuosa estate degli ultimi mondiali, mi ritrovai a divorare prima e seconda stagione senza neppure rendermi conto di quanto stava, in parallelo, cambiando anche la mia vita.
Ma le cose non si fermarono a quel periodo, e il cambiamento continuò a lavorarmi ai fianchi, mentre la terza stagione definiva il mio status di "Sawyer" e il bisogno di distruggere quello che avevo per ripartire da capo.
E con la quarta giunse il momento della costanza - o della "costante", parlando in gergo lostiano -, proprio nell'anno dello sciopero degli sceneggiatori e dell'unica stagione davvero sotto tono di questa incredibile serie, mentre il mio equilibrio si ristabiliva e iniziavo quel viaggio che sarebbe divenuto il più importante.
Con la quinta stagione Lost tornò ad essere Lost a tutti gli effetti, e fece da cornice al lavoro per consolidare quello che stavo costruendo, in attesa di quella che sarebbe stata la sua conclusione, momento magico quanto temuto per ogni opera che - sia essa letteraria, cinematografica, o quant'altro - si è amato profondamente.
Così arriviamo ad oggi.
La sesta stagione è stata una scossa, e seppure ci saranno molti delusi dalla mancata risposta a molti degli interrogativi buttati nel calderone dagli autori nel corso degli anni, a mio parere non poteva esserci una scelta migliore, una vera fine.
Perchè, come il confronto che nelle prime serie vedeva contrapporsi Locke e Jack, in fondo Lost, più che una realtà "fantasy", si è concentrato a descrivere la vita dei suoi personaggi: da un lato la fede, dall'altro la razionalità.
I numeri che Locke pigiava ossessivamente sulla tastiera del computer celato nel sotterraneo della botola ogni cento e otto minuti divengono ancora più importanti agli occhi del finale, che, come fu per Six feet under, mostra quanto il legame con le persone più importanti della propria vita sia il vero motore di ogni nostra scelta, giusta o sbagliata che sia.
Così, mentre sull'isola si combatte per la sopravvivenza, definendo gli ultimi ruoli per i protagonisti rimasti in vita, nella realtà parallela il cerchio si stringe rispetto alla progressiva consapevolezza che torna a galla nelle menti e nei cuori dei "lostiani" rispetto al tempo passato insieme dopo l'incidente aereo, il momento che cambiò le esistenze di tutti loro.
E se la riuscita tecnica non è perfetta - defezioni di attori "tagliati" nel corso degli anni, sbavature inevitabili rispetto ad un lavoro che ha coinvolto un team così imponente - la resa emotiva, soprattutto dopo aver seguito per anni personaggi, trame, storie, gli attori stessi, è assolutamente enorme.
Ed è interessante vedere come il raggiungimento della pace avvenga grazie ad un confronto con chi - creduto "perso", per l'appunto - funge da legame con quello che ci attende oltre.
Un occhio si apre, e un occhio si chiude.
Nel mezzo Jack, Sawyer, Juliet, Kate, Locke, Ana Lucia, Desmond, Charlie, Sayid, Jin, Sun, Hugo, Rose, Bernard, Ben, Richard, Miles, Boone, Shannon, Michael e tutti gli altri indimenticabili protagonisti di questo incredibile viaggio.
Riesce davvero difficile credere che sia finita.
Ma è giusto così.
Tornando a citare Six feet under: "Tutto. Tutti. Ovunque. Finisce."
Nei quattro anni di Lost la mia vita è cambiata completamente.
E così come sono deciso a rivederlo dal principio, sono più che pronto ad affrontare tutto quello che ancora mi aspetta.
Perchè se il viaggio di Lost è giunto alla sua conclusione, il mio ne è ancora ben lontano.
Ed è bello pensare che Lost ne abbia fatto parte.
Creando, in qualche modo, l'alchimia che ha portato questo "Con man" a condividere la sua tenda con una Penny da cui tornerò sempre.
Prima che sia troppo difficile continuare, è il caso che finisca.
In fondo, è giusto così.
Sono pronto per tutto quello che verrà.
Nel frattempo, però...
... "See you in another life, brotha!"
MrFord
Lost, dopo sei anni di cavalcata, saluta il suo pubblico e si congeda dal mondo dell'entertainment e dai cuori di milioni di fan che non avrebbero mai voluto vivere questo momento.
Ricordo quando ebbi il mio primo contatto con la serie che ha rivoluzionato il mondo del piccolo schermo: correva la primavera del 2006, e il mio vecchio amico Gigi - che, più tardi, assunse agli occhi di tutti noi il ruolo di Jack - mi lasciò tra le mani i dischi della prima stagione completa.
Onestamente reagii con scetticismo, e nonostante l'indubbia qualità dell'episodio pilota, dall'occhio spalancato di colpo dello stesso Jack a Locke con il suo sorriso all'arancia, continuai a rimanere perplesso: il primo colpo lo subii con "Walkabout", il primo episodio dedicato a John Locke, che rivelava, nel finale, che nella sua vita prima della caduta dell'Oceanic 815 il misterioso personaggio era paralitico.
Ma fu con l'episodio otto, "Confidence man", che il mio rapporto con Lost cambiò definitivamente: James "Sawyer" Ford, che di certo non aveva avuto un impatto positivo su di me nelle sue prime apparizioni, ribaltò completamente la percezione che avevo del suo personaggio e dell'intera serie.
E nella tumultuosa estate degli ultimi mondiali, mi ritrovai a divorare prima e seconda stagione senza neppure rendermi conto di quanto stava, in parallelo, cambiando anche la mia vita.
Ma le cose non si fermarono a quel periodo, e il cambiamento continuò a lavorarmi ai fianchi, mentre la terza stagione definiva il mio status di "Sawyer" e il bisogno di distruggere quello che avevo per ripartire da capo.
E con la quarta giunse il momento della costanza - o della "costante", parlando in gergo lostiano -, proprio nell'anno dello sciopero degli sceneggiatori e dell'unica stagione davvero sotto tono di questa incredibile serie, mentre il mio equilibrio si ristabiliva e iniziavo quel viaggio che sarebbe divenuto il più importante.
Con la quinta stagione Lost tornò ad essere Lost a tutti gli effetti, e fece da cornice al lavoro per consolidare quello che stavo costruendo, in attesa di quella che sarebbe stata la sua conclusione, momento magico quanto temuto per ogni opera che - sia essa letteraria, cinematografica, o quant'altro - si è amato profondamente.
Così arriviamo ad oggi.
La sesta stagione è stata una scossa, e seppure ci saranno molti delusi dalla mancata risposta a molti degli interrogativi buttati nel calderone dagli autori nel corso degli anni, a mio parere non poteva esserci una scelta migliore, una vera fine.
Perchè, come il confronto che nelle prime serie vedeva contrapporsi Locke e Jack, in fondo Lost, più che una realtà "fantasy", si è concentrato a descrivere la vita dei suoi personaggi: da un lato la fede, dall'altro la razionalità.
I numeri che Locke pigiava ossessivamente sulla tastiera del computer celato nel sotterraneo della botola ogni cento e otto minuti divengono ancora più importanti agli occhi del finale, che, come fu per Six feet under, mostra quanto il legame con le persone più importanti della propria vita sia il vero motore di ogni nostra scelta, giusta o sbagliata che sia.
Così, mentre sull'isola si combatte per la sopravvivenza, definendo gli ultimi ruoli per i protagonisti rimasti in vita, nella realtà parallela il cerchio si stringe rispetto alla progressiva consapevolezza che torna a galla nelle menti e nei cuori dei "lostiani" rispetto al tempo passato insieme dopo l'incidente aereo, il momento che cambiò le esistenze di tutti loro.
E se la riuscita tecnica non è perfetta - defezioni di attori "tagliati" nel corso degli anni, sbavature inevitabili rispetto ad un lavoro che ha coinvolto un team così imponente - la resa emotiva, soprattutto dopo aver seguito per anni personaggi, trame, storie, gli attori stessi, è assolutamente enorme.
Ed è interessante vedere come il raggiungimento della pace avvenga grazie ad un confronto con chi - creduto "perso", per l'appunto - funge da legame con quello che ci attende oltre.
Un occhio si apre, e un occhio si chiude.
Nel mezzo Jack, Sawyer, Juliet, Kate, Locke, Ana Lucia, Desmond, Charlie, Sayid, Jin, Sun, Hugo, Rose, Bernard, Ben, Richard, Miles, Boone, Shannon, Michael e tutti gli altri indimenticabili protagonisti di questo incredibile viaggio.
Riesce davvero difficile credere che sia finita.
Ma è giusto così.
Tornando a citare Six feet under: "Tutto. Tutti. Ovunque. Finisce."
Nei quattro anni di Lost la mia vita è cambiata completamente.
E così come sono deciso a rivederlo dal principio, sono più che pronto ad affrontare tutto quello che ancora mi aspetta.
Perchè se il viaggio di Lost è giunto alla sua conclusione, il mio ne è ancora ben lontano.
Ed è bello pensare che Lost ne abbia fatto parte.
Creando, in qualche modo, l'alchimia che ha portato questo "Con man" a condividere la sua tenda con una Penny da cui tornerò sempre.
Prima che sia troppo difficile continuare, è il caso che finisca.
In fondo, è giusto così.
Sono pronto per tutto quello che verrà.
Nel frattempo, però...
... "See you in another life, brotha!"
MrFord
lunedì 24 maggio 2010
Il mio amico Eric
"Prima di sorprendere gli altri, devi essere in grado di sorprendere te stesso."
Con questo consiglio Eric Cantona - per chi non lo conoscesse, uno dei calciatori simbolo degli anni novanta, nonchè ritratto pressochè perfetto dell'accezione di genio e sregolatezza - esorta Eric Bishop il postino, uomo di mezza età alla deriva, due figliastri sulle spalle, un grande amore perso per paura, a riprendere in mano la vita.
Come i componenti della squadra di Riff Raff, Ken Loach tiene subito a far notare al suo pubblico che questi uomini così comuni sono nelle loro esistenze eccezionali, e mai e poi mai saranno quella "spazzatura" cui faceva riferimento il gioco di parole di quel suo vecchio lavoro.
E fa bene a farlo. Perchè è proprio così che stanno le cose.
E tutti noi che amiamo il Ken Loach "pane e salame" e non quello della retorica a grana grossa - ma come hanno fatto a premiare con la Palma d'oro quella boiata di Il vento che accarezza l'erba!?!? - non possiamo che associarci appieno e festeggiare come per un goal appena messo dentro.
Certo, Il mio amico Eric non è un film perfetto: l'eccezionale performance di Cantona è fin troppo funzionale alla trama, e nonostante regali le scene migliori della pellicola - la marsigliese con la tromba e il ballo - ne sottolinea anche i limiti.
Eppure, nell'invasione della villa del malvivente che perseguita il figliastro di Eric, con una folla di postini tifosi armati di ogni sorta di mazze e tutti mascherati - alla "ex presidenti" - da Cantona c'è il colpo di genio di un Maestro, e tutto l'amore che il buon vecchio Ken prova e trasmette per la gente comune.
Non sono cose che si trovano tutti i giorni come le pellicole come questa, che anche di fronte alla tristezza e ai lati spiacevoli della vita di chi può solo sognare quella ribalta di gloria - che sia calcistica o di qualsiasi altro genere - che non avrà mai, sa gioire di quello che rende davvero speciale un'esistenza: quelle cose che passano davanti agli occhi, ma che, a volte, hanno bisogno di sbatterci dritte in faccia per poter essere davvero notate.
E nelle immagini delle azioni sul campo dell'Eric calciatore, e nella sua scelta del momento più bello della carriera, c'è una poesia che fa amare il calcio e la vita.
Perchè non è un goal, la cima più alta. Ma un passaggio.
Quello che stupisce gli altri, e soprattutto te stesso.
Che mette sui piedi di un compagno che conosci a fondo la palla che tu avresti sognato una vita di buttare dentro.
Sensazioni uniche.
E a proposito: da avversario "sul campo", ma da amante del pallone, non posso che complimentarmi con i miei "cugini" nerazzurri.
Questa volta niente scuse.
Ve la siete proprio meritata.
"Marchons! Marchons!
Qu'un sang impur
abreuve nos sillons!"
MrFord
Con questo consiglio Eric Cantona - per chi non lo conoscesse, uno dei calciatori simbolo degli anni novanta, nonchè ritratto pressochè perfetto dell'accezione di genio e sregolatezza - esorta Eric Bishop il postino, uomo di mezza età alla deriva, due figliastri sulle spalle, un grande amore perso per paura, a riprendere in mano la vita.
Come i componenti della squadra di Riff Raff, Ken Loach tiene subito a far notare al suo pubblico che questi uomini così comuni sono nelle loro esistenze eccezionali, e mai e poi mai saranno quella "spazzatura" cui faceva riferimento il gioco di parole di quel suo vecchio lavoro.
E fa bene a farlo. Perchè è proprio così che stanno le cose.
E tutti noi che amiamo il Ken Loach "pane e salame" e non quello della retorica a grana grossa - ma come hanno fatto a premiare con la Palma d'oro quella boiata di Il vento che accarezza l'erba!?!? - non possiamo che associarci appieno e festeggiare come per un goal appena messo dentro.
Certo, Il mio amico Eric non è un film perfetto: l'eccezionale performance di Cantona è fin troppo funzionale alla trama, e nonostante regali le scene migliori della pellicola - la marsigliese con la tromba e il ballo - ne sottolinea anche i limiti.
Eppure, nell'invasione della villa del malvivente che perseguita il figliastro di Eric, con una folla di postini tifosi armati di ogni sorta di mazze e tutti mascherati - alla "ex presidenti" - da Cantona c'è il colpo di genio di un Maestro, e tutto l'amore che il buon vecchio Ken prova e trasmette per la gente comune.
Non sono cose che si trovano tutti i giorni come le pellicole come questa, che anche di fronte alla tristezza e ai lati spiacevoli della vita di chi può solo sognare quella ribalta di gloria - che sia calcistica o di qualsiasi altro genere - che non avrà mai, sa gioire di quello che rende davvero speciale un'esistenza: quelle cose che passano davanti agli occhi, ma che, a volte, hanno bisogno di sbatterci dritte in faccia per poter essere davvero notate.
E nelle immagini delle azioni sul campo dell'Eric calciatore, e nella sua scelta del momento più bello della carriera, c'è una poesia che fa amare il calcio e la vita.
Perchè non è un goal, la cima più alta. Ma un passaggio.
Quello che stupisce gli altri, e soprattutto te stesso.
Che mette sui piedi di un compagno che conosci a fondo la palla che tu avresti sognato una vita di buttare dentro.
Sensazioni uniche.
E a proposito: da avversario "sul campo", ma da amante del pallone, non posso che complimentarmi con i miei "cugini" nerazzurri.
Questa volta niente scuse.
Ve la siete proprio meritata.
"Marchons! Marchons!
Qu'un sang impur
abreuve nos sillons!"
MrFord
sabato 22 maggio 2010
La pattuglia dell'alba
Il surf, come molti film di culto totale insegnano - Un mercoledì da leoni e Point break su tutti, ma avremo tempo per approfondire entrambi -, più che una disciplina è uno stato mentale, una filosofia "lebowskiana" che prevede un confronto con il mondo tanto rilassato ed easy quanto concentrato sul ritrovare se stessi all'interno del confronto - sempre impari - con l'onda.
Una sorta di versione "da tavola" dell'esistenza.
E tutta la Pattuglia dell'alba, con le sue ragioni per cui vale la pena vivere, è rappresentante a tutto diritto della categoria di questi filosofi delle onde.
Boone Daniels, Johnny Banzai, High Tide, Dave the love god, Sunny e Hang Twelve, ognuno con le proprie caratteristiche e storia personale, sono figli di una mitologia che affonda le radici nella storia stessa di San Diego, città dell'autore e melting pot di culture che toccano praticamente ogni continente, e filtrano attraverso le loro ascese e cadute oltre un secolo di accadimenti segnati a fondo dai due conflitti mondiali.
Don Winslow mette da parte la tecnica e il tono quasi documentaristico di alcuni passaggi de Il potere del cane - che resta il suo capolavoro - per concentrarsi sui personaggi, continuando a riuscire benissimo a infondere loro vita e sincerità: come spesso ricorda anche Lansdale, altro narratore fondamentale per la letteratura contemporanea statunitense, per riuscire al meglio uno scrittore deve parlare di quello che conosce bene, perchè solo così le sue pagine risulteranno abbastanza sincere da diventare più di un racconto per il lettore, a volte uno specchio, altre addirittura un ricordo.
Winslow, che nella vita ha svolto gli impieghi più disparati, divide esperienze ed amore nei vari membri della Pattuglia, riservandosi un posto d'onore nel ruolo marginale del vecchio Cheerful, padrone di casa di Boone Daniels nonchè padre putativo dell'apparentemente squinternato detective/surfista.
E la trama, nel pieno rispetto delle regole della crime story, serrata e tesa al punto giusto, assume un'importanza quasi marginale rispetto alle scelte e alle direzioni prese dai suoi "attori protagonisti", il cui passato si intreccia al futuro a seguito di una mareggiata di proporzioni titaniche pronta ad abbattersi sulla costa e che, volente o nolente, è destinata a cambiare - o almeno mettere in discussione - lo status quo della Pattuglia.
Che, in fondo, è come una famiglia.
E in famiglia capita di scontrarsi, cercarsi, perdersi.
Ma come recitava Patrick Swayze nel suo ruolo migliore, il Body del succitato Point break, "il surf è uno stato mentale, dove prima ti perdi, e poi ti ritrovi".
Ed è questo il bello dei legami forti.
Non c'è mareggiata che tenga.
Così che posso dire!?
Mettete Dick Dale o i Red Hot nello stereo, alzate il volume, preparatevi un taco - non importa con cosa, "perchè il taco va bene con tutto", parola di Boone Daniels - e tuffatevi anche voi fra le pagine di questo break letterario.
Non ve ne pentirete.
E in alcuni momenti, vi sembrerà addirittura di sentire la risacca.
Cowabunga!
"And tidal waves
couldn't save the world
from Californication."
MrFord
Una sorta di versione "da tavola" dell'esistenza.
E tutta la Pattuglia dell'alba, con le sue ragioni per cui vale la pena vivere, è rappresentante a tutto diritto della categoria di questi filosofi delle onde.
Boone Daniels, Johnny Banzai, High Tide, Dave the love god, Sunny e Hang Twelve, ognuno con le proprie caratteristiche e storia personale, sono figli di una mitologia che affonda le radici nella storia stessa di San Diego, città dell'autore e melting pot di culture che toccano praticamente ogni continente, e filtrano attraverso le loro ascese e cadute oltre un secolo di accadimenti segnati a fondo dai due conflitti mondiali.
Don Winslow mette da parte la tecnica e il tono quasi documentaristico di alcuni passaggi de Il potere del cane - che resta il suo capolavoro - per concentrarsi sui personaggi, continuando a riuscire benissimo a infondere loro vita e sincerità: come spesso ricorda anche Lansdale, altro narratore fondamentale per la letteratura contemporanea statunitense, per riuscire al meglio uno scrittore deve parlare di quello che conosce bene, perchè solo così le sue pagine risulteranno abbastanza sincere da diventare più di un racconto per il lettore, a volte uno specchio, altre addirittura un ricordo.
Winslow, che nella vita ha svolto gli impieghi più disparati, divide esperienze ed amore nei vari membri della Pattuglia, riservandosi un posto d'onore nel ruolo marginale del vecchio Cheerful, padrone di casa di Boone Daniels nonchè padre putativo dell'apparentemente squinternato detective/surfista.
E la trama, nel pieno rispetto delle regole della crime story, serrata e tesa al punto giusto, assume un'importanza quasi marginale rispetto alle scelte e alle direzioni prese dai suoi "attori protagonisti", il cui passato si intreccia al futuro a seguito di una mareggiata di proporzioni titaniche pronta ad abbattersi sulla costa e che, volente o nolente, è destinata a cambiare - o almeno mettere in discussione - lo status quo della Pattuglia.
Che, in fondo, è come una famiglia.
E in famiglia capita di scontrarsi, cercarsi, perdersi.
Ma come recitava Patrick Swayze nel suo ruolo migliore, il Body del succitato Point break, "il surf è uno stato mentale, dove prima ti perdi, e poi ti ritrovi".
Ed è questo il bello dei legami forti.
Non c'è mareggiata che tenga.
Così che posso dire!?
Mettete Dick Dale o i Red Hot nello stereo, alzate il volume, preparatevi un taco - non importa con cosa, "perchè il taco va bene con tutto", parola di Boone Daniels - e tuffatevi anche voi fra le pagine di questo break letterario.
Non ve ne pentirete.
E in alcuni momenti, vi sembrerà addirittura di sentire la risacca.
Cowabunga!
"And tidal waves
couldn't save the world
from Californication."
MrFord
venerdì 21 maggio 2010
Scontro tra titani
E' quasi "lostiano" che il post su questo film sia capitato a seguito di quello su Antichrist perchè, in qualche modo, sono due facce della stessa moneta.
Da un lato abbiamo un film "d'autore" che è una vera merda, propinato come oro colato dalla critica intellettualoide e dalla mente malata del suo regista.
Dall'altro una robetta imbottita di effetti speciali, scritta malissimo e recitata quasi peggio, demolita anche dalla critica normalmente buona con i blockbuster e punita addirittura dal botteghino, in genere molto generoso con prodotti di questo genere.
Eppure, dichiaro ufficialmente che sono pronto a rivedere anche dieci volte Scontro tra titani, piuttosto che anche solo pensare di affrontare di nuovo Antichrist per dieci minuti.
Parliamoci chiaro, Scontro è una vera boiata, dalla sceneggiatura imbarazzante almeno quanto i costumi propinati agli attori, e che riesce a far ben figurare anche una schifezza ambulante come Troy, figuriamoci la pellicola originale - già di suo non brillantissima, se non per gli effetti di quel geniaccio di Harryhausen -, vero mito per almeno due generazioni di adolescenti nel corso degli anni '80.
Eppure, sorbendosi tutti i suoi novanta e rotti minuti - che paiono almeno il doppio -, non si ha mai la sensazione di avere di fronte qualcosa da rigettare con forza tenendo a freno idee di ultraviolenza all'indirizzo del regista, bensì di un giocattolone noiosetto e assolutamente inutile per la storia del Cinema, nonchè totalmente innocuo.
Una specie di Transformers.
Certo, Liam Neeson/Zeus in versione cavaliere scintillante e Ralph Fiennes/Ade che pare Voldemort in casa di riposo strappano qualche involontaria risata, così come la scena - proprio appizzata ammminchia, come direbbe il Poeta - che cita il gufo meccanico della pellicola originale, ma siamo ben lontani dal titolone d'intrattenimento che fa piacere vedere anche agli appassionati - una cosa alla Gladiatore, per rimanere nell'ambito -.
Ad ogni modo, doveste trovarvi un giorno - anche se onestamente non so quali convergenze astrali potrebbero porvi in una situazione simile - a dover scegliere se vedere Antichrist o Scontro tra titani, optate senza dubitare per il secondo: durante tutta la visione probabilmente mi maledirete, spinti dai dialoghi al limite del ridicolo, e vorrete rifilarmi un bidone all'altezza per pareggiare i conti.
Ma fidatevi, vi avrò salvato dal vero peggio.
E poi, non dovreste avere di che lamentarvi: tra un effettone videoludico e l'altro, potrete sempre gustarvi Sam Worthington o Gemma Arterton, a seconda dei gusti.
Almeno così i minuti passeranno più veloci.
"Nella tua trappola ci son caduto anch'io
avanti il prossimo, gli lascio il posto mio."
MrFord
Da un lato abbiamo un film "d'autore" che è una vera merda, propinato come oro colato dalla critica intellettualoide e dalla mente malata del suo regista.
Dall'altro una robetta imbottita di effetti speciali, scritta malissimo e recitata quasi peggio, demolita anche dalla critica normalmente buona con i blockbuster e punita addirittura dal botteghino, in genere molto generoso con prodotti di questo genere.
Eppure, dichiaro ufficialmente che sono pronto a rivedere anche dieci volte Scontro tra titani, piuttosto che anche solo pensare di affrontare di nuovo Antichrist per dieci minuti.
Parliamoci chiaro, Scontro è una vera boiata, dalla sceneggiatura imbarazzante almeno quanto i costumi propinati agli attori, e che riesce a far ben figurare anche una schifezza ambulante come Troy, figuriamoci la pellicola originale - già di suo non brillantissima, se non per gli effetti di quel geniaccio di Harryhausen -, vero mito per almeno due generazioni di adolescenti nel corso degli anni '80.
Eppure, sorbendosi tutti i suoi novanta e rotti minuti - che paiono almeno il doppio -, non si ha mai la sensazione di avere di fronte qualcosa da rigettare con forza tenendo a freno idee di ultraviolenza all'indirizzo del regista, bensì di un giocattolone noiosetto e assolutamente inutile per la storia del Cinema, nonchè totalmente innocuo.
Una specie di Transformers.
Certo, Liam Neeson/Zeus in versione cavaliere scintillante e Ralph Fiennes/Ade che pare Voldemort in casa di riposo strappano qualche involontaria risata, così come la scena - proprio appizzata ammminchia, come direbbe il Poeta - che cita il gufo meccanico della pellicola originale, ma siamo ben lontani dal titolone d'intrattenimento che fa piacere vedere anche agli appassionati - una cosa alla Gladiatore, per rimanere nell'ambito -.
Ad ogni modo, doveste trovarvi un giorno - anche se onestamente non so quali convergenze astrali potrebbero porvi in una situazione simile - a dover scegliere se vedere Antichrist o Scontro tra titani, optate senza dubitare per il secondo: durante tutta la visione probabilmente mi maledirete, spinti dai dialoghi al limite del ridicolo, e vorrete rifilarmi un bidone all'altezza per pareggiare i conti.
Ma fidatevi, vi avrò salvato dal vero peggio.
E poi, non dovreste avere di che lamentarvi: tra un effettone videoludico e l'altro, potrete sempre gustarvi Sam Worthington o Gemma Arterton, a seconda dei gusti.
Almeno così i minuti passeranno più veloci.
"Nella tua trappola ci son caduto anch'io
avanti il prossimo, gli lascio il posto mio."
MrFord
giovedì 20 maggio 2010
Antichrist
Una coppia di radical chic - lui psicologo, lei credo nullafacente - nel bel mezzo di una scopata mondiale non si avvede che il figlio appena nato decide di farsi un bel giro sul davanzale della finestra andando a spiaccicarsi sul marciapiedi.
Il trauma generato da questo avvenimento mette - ovviamente - in crisi il rapporto e distrugge emotivamente la madre, così il nostro bravo terapista, contraddicendo ogni regola sulla deontologia professionale, decide di occuparsi personalmente della compagna, scegliendo come "palestra" per la cura la casa in campagna teatro dei loro giorni felici.
A questo punto, tra nebbia e animaletti inventati da lei nello scrivere un racconto per la nascita del bimbo - che nel frattempo si scopre possessore di due piedi sinistri - il menage matrimoniale diventa un vero e proprio teatro degli orrori, con gambe bucate e fissate a ruote di pietra, colpi proibiti in ogni parte del corpo, menomazioni ai genitali, gran segoni con eiaculazioni di sangue - avete proprio letto bene -.
Il tutto per giungere ad un inseguimento nel bosco - con annessi animaletti, ovviamente - terminato di fronte a frotte di fantasmi che giungono nell'Eden dei due ex innamorati.
Questa, a grandi linee, è la trama del secondo peggior film della mia personale storia cinematografica.
Lars Von Trier, che ha avuto il coraggio - questo è innegabile - di presentare questa porcata di proporzioni bibliche al Festival di Cannes, si è difeso dichiarando di essere il più grande regista vivente, e che l'unico ad essergli superiore è Tarkovskij, cui il film è dedicato.
Ora, tralasciando il fatto che i responsabili di aver ammesso questa pellicola alla selezione del festival più importante del mondo della settima arte dovevano, quel giorno, aver pasteggiato a suon di assenzio a novanta gradi, e che il povero Tarkovskij - lui, davvero, uno dei più grandi registi della storia del Cinema - avrà rivoltato il legno della bara, trovo che un film come questo altro non possa che essere definito un vero e proprio crimine contro gli spettatori.
E lo dico da discreto ammiratore del lavoro passato di Von Trier, di cui ho molto apprezzato Dogville e Le onde del destino, ritenendo il cineasta danese un autore cervellotico ed ostico, ma ugualmente acuto e spietato quanto basta.
Roba come Antichrist, invece, in tutta onestà dovrebbe avere difficoltà anche a trovare un distributore che lo porti nelle sale, altro che Festival di Cannes.
E se esiste una giustizia, un grande tribunale ultraterreno del Cinema presieduto proprio da Tarkovskij, quando verrà il suo momento, a Lars Von Trier dovrebbe essere applicato l'insostenibile contrappasso di vedere e rivedere per l'eternità questo suo abominio.
Del resto, non dovrebbe risultargli troppo difficile: in fondo, è il più grande regista vivente.
Sul suo pianeta.
Abitanti: uno.
Indovinate chi è?
"Io qui ti inchiodo a quei tuoi pensieri,
quei quattro stracci in cui hai buttato l'ieri."
MrFord
Il trauma generato da questo avvenimento mette - ovviamente - in crisi il rapporto e distrugge emotivamente la madre, così il nostro bravo terapista, contraddicendo ogni regola sulla deontologia professionale, decide di occuparsi personalmente della compagna, scegliendo come "palestra" per la cura la casa in campagna teatro dei loro giorni felici.
A questo punto, tra nebbia e animaletti inventati da lei nello scrivere un racconto per la nascita del bimbo - che nel frattempo si scopre possessore di due piedi sinistri - il menage matrimoniale diventa un vero e proprio teatro degli orrori, con gambe bucate e fissate a ruote di pietra, colpi proibiti in ogni parte del corpo, menomazioni ai genitali, gran segoni con eiaculazioni di sangue - avete proprio letto bene -.
Il tutto per giungere ad un inseguimento nel bosco - con annessi animaletti, ovviamente - terminato di fronte a frotte di fantasmi che giungono nell'Eden dei due ex innamorati.
Questa, a grandi linee, è la trama del secondo peggior film della mia personale storia cinematografica.
Lars Von Trier, che ha avuto il coraggio - questo è innegabile - di presentare questa porcata di proporzioni bibliche al Festival di Cannes, si è difeso dichiarando di essere il più grande regista vivente, e che l'unico ad essergli superiore è Tarkovskij, cui il film è dedicato.
Ora, tralasciando il fatto che i responsabili di aver ammesso questa pellicola alla selezione del festival più importante del mondo della settima arte dovevano, quel giorno, aver pasteggiato a suon di assenzio a novanta gradi, e che il povero Tarkovskij - lui, davvero, uno dei più grandi registi della storia del Cinema - avrà rivoltato il legno della bara, trovo che un film come questo altro non possa che essere definito un vero e proprio crimine contro gli spettatori.
E lo dico da discreto ammiratore del lavoro passato di Von Trier, di cui ho molto apprezzato Dogville e Le onde del destino, ritenendo il cineasta danese un autore cervellotico ed ostico, ma ugualmente acuto e spietato quanto basta.
Roba come Antichrist, invece, in tutta onestà dovrebbe avere difficoltà anche a trovare un distributore che lo porti nelle sale, altro che Festival di Cannes.
E se esiste una giustizia, un grande tribunale ultraterreno del Cinema presieduto proprio da Tarkovskij, quando verrà il suo momento, a Lars Von Trier dovrebbe essere applicato l'insostenibile contrappasso di vedere e rivedere per l'eternità questo suo abominio.
Del resto, non dovrebbe risultargli troppo difficile: in fondo, è il più grande regista vivente.
Sul suo pianeta.
Abitanti: uno.
Indovinate chi è?
"Io qui ti inchiodo a quei tuoi pensieri,
quei quattro stracci in cui hai buttato l'ieri."
MrFord
mercoledì 19 maggio 2010
Shutter island
Alla fine, anche io ho dovuto capitolare.
Dopo anni passati a difendere Scorsese con i suoi fan della prima ora, affermando con forza che Gangs of New York era un ottimo prodotto, che The departed non era il capolavoro che avrebbe dovuto dare al buon Martin l'Oscar tanto agognato ma era solido e durissimo, che The aviator, il più bistrattato, era un affresco ribollente di passione per il Cinema, nonchè un grandissimo film, anche io devo chinare il capo.
Perchè Shutter island, che pure è un ottimo thriller dall'impeccabile - o quasi - confezione e dalla trama avvincente, rispetto a Scorsese - quello di Taxi driver, Fuori orario, Toro scatenato e L'età dell'innocenza, per intenderci - non riesce ad essere niente più di una confezione ben laccata.
Certo, non annoia e avvince, e ha il merito di portare ad un finale assolutamente ottimo, arricchito da una di quelle battute che rendono concreto il piacere del Cinema: "E' preferibile morire da uomo per bene o vivere da mostro?"
Un dilemma morale che induce a riflettere non solo il protagonista della pellicola - un ottimo Di Caprio, anche se, forse, un pò troppo simile al suo stile tormentato -, ma anche lo spettatore: per non svelare troppo della trama e del suo svolgimento - per quanto farraginoso a tratti, e messo alla prova a mio parere da una sceneggiatura per nulla all'altezza del buon vecchio Marty - dirò soltanto che la questione riguarda la capacità di sopportare una colpa ed un tormento giustificati, eppure assolutamente enormi per un "solo" essere umano.
Di nuovo il Male, dunque, a farla da padrone, richiamo quasi univoco per le pellicole che vi ho propinato in questi ultimi post.
Da un certo punto di vista, per poter godere appieno di Shutter island, questo dovrebbe essere il punto focale della vostra attenzione: il Male.
Perchè se dalla fiction vera e propria l'attenzione si sposta sul regista, allora tutto va a sfracellarsi quasi finiste giù dritti da una delle scogliere dell'isola/manicomio.
Insomma, Martin, quando torniamo tutti insieme "Al di là della vita"?
Una domanda, poi, mi turba più di ogni altra: Thelma Shoonmaker, montatrice fedelissima di Scorsese, la migliore al mondo nella sua professione, comincia a patire l'età?
Perchè, in tutta onestà, non ho proprio capito se il suo approccio a questa pellicola è stato disattento o volutamente imperfetto.
Chissà: forse si è persa anche lei nei labirinti che passano tra la mente e la confezione.
Io resto fiducioso.
Tornate presto, Marty e Thelma.
Noi vi aspettiamo a braccia aperte.
"I search an answer,
so free, free to be,
I'm not another liar,
I just want to be myself... Myself."
MrFord
Dopo anni passati a difendere Scorsese con i suoi fan della prima ora, affermando con forza che Gangs of New York era un ottimo prodotto, che The departed non era il capolavoro che avrebbe dovuto dare al buon Martin l'Oscar tanto agognato ma era solido e durissimo, che The aviator, il più bistrattato, era un affresco ribollente di passione per il Cinema, nonchè un grandissimo film, anche io devo chinare il capo.
Perchè Shutter island, che pure è un ottimo thriller dall'impeccabile - o quasi - confezione e dalla trama avvincente, rispetto a Scorsese - quello di Taxi driver, Fuori orario, Toro scatenato e L'età dell'innocenza, per intenderci - non riesce ad essere niente più di una confezione ben laccata.
Certo, non annoia e avvince, e ha il merito di portare ad un finale assolutamente ottimo, arricchito da una di quelle battute che rendono concreto il piacere del Cinema: "E' preferibile morire da uomo per bene o vivere da mostro?"
Un dilemma morale che induce a riflettere non solo il protagonista della pellicola - un ottimo Di Caprio, anche se, forse, un pò troppo simile al suo stile tormentato -, ma anche lo spettatore: per non svelare troppo della trama e del suo svolgimento - per quanto farraginoso a tratti, e messo alla prova a mio parere da una sceneggiatura per nulla all'altezza del buon vecchio Marty - dirò soltanto che la questione riguarda la capacità di sopportare una colpa ed un tormento giustificati, eppure assolutamente enormi per un "solo" essere umano.
Di nuovo il Male, dunque, a farla da padrone, richiamo quasi univoco per le pellicole che vi ho propinato in questi ultimi post.
Da un certo punto di vista, per poter godere appieno di Shutter island, questo dovrebbe essere il punto focale della vostra attenzione: il Male.
Perchè se dalla fiction vera e propria l'attenzione si sposta sul regista, allora tutto va a sfracellarsi quasi finiste giù dritti da una delle scogliere dell'isola/manicomio.
Insomma, Martin, quando torniamo tutti insieme "Al di là della vita"?
Una domanda, poi, mi turba più di ogni altra: Thelma Shoonmaker, montatrice fedelissima di Scorsese, la migliore al mondo nella sua professione, comincia a patire l'età?
Perchè, in tutta onestà, non ho proprio capito se il suo approccio a questa pellicola è stato disattento o volutamente imperfetto.
Chissà: forse si è persa anche lei nei labirinti che passano tra la mente e la confezione.
Io resto fiducioso.
Tornate presto, Marty e Thelma.
Noi vi aspettiamo a braccia aperte.
"I search an answer,
so free, free to be,
I'm not another liar,
I just want to be myself... Myself."
MrFord
Il nastro bianco
"Ma allora tutti dobbiamo morire?"
"Sì, tutti quanti."
"Anche papà?"
"Anche papà."
"E anche tu?"
"Sì."
"E anche io?"
"Anche tu. Ma tra tanti, tanti anni."
Con lo stesso glaciale equilibrio della sorella quattordicenne al fratello minore, figli del medico di un villaggio nel Nord della Germania a un anno dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Haneke sviluppa una storia che è crocevia di noir, ghost story, dramma sociale e, a tratti, quasi un horror.
Giocando sulla narrazione del maestro del paese in tarda età, viene introdotto quello che, secondo la maggior parte della critica internazionale, è una sorta di studio di quei semi divenuti i germogli del nazismo, poco più di vent'anni dopo.
Eppure, nell'algido, terribile affresco de Il nastro bianco, è nascosto qualcosa di ancor più ancestrale e oscuro, perchè presente nella nostra natura di esseri umani a prescindere da Storia e politica, che anche l'immenso Kubrick nell'altrettanto immenso 2001: Odissea nello spazio aveva analizzato grazie alla sequenza delle scimmie, per inciso una delle più importanti e dirompenti della storia del Cinema.
Il Male, nel senso più grande e profondo del termine, diviene la scintilla all'origine di episodi che paiono seminare, serpeggiando, una maledizione per le strade del villaggio, colpendo indiscriminatamente i ceti più alti e più bassi della sua popolazione, e il fuoco che divampa nei cuori dei veri colpevoli, implacabili e freddissimi esecutori dei crimini più violenti mostrati nel corso dello svolgimento della trama.
Una trama che avvince e avanza facendosi strada tagliente come un rasoio, riflessione sul quell'abisso succitato in grado di far impallidire tutti i detenuti in coro di Cella 211, angioletti ai margini della società rispetto ai responsabili degli accadimenti di questo sperduto villaggio, stretti uno all'altro, a camminare tranquilli invece che passare il tempo come la loro età suggerirebbe.
Un film incredibile, crudele ed esteticamente splendido, capace di aprire ferite e gettarci sopra grandi manciate di sale.
Peccato solo che la regia di Haneke, formalmente ineccepibile, appaia anche più fredda del solito, il che, considerati i suoi standard, vale a dire che, fondamentalmente, il messaggio che passa da dietro la macchina da presa è che se il cineasta austriaco avesse deciso di girare "Pippo, Pluto e Paperino insieme allo zoo" il suo approccio sarebbe stato assolutamente identico - tranne, forse, qualche improvvisa uccisione qui e là-.
E questo, onestamente, è proprio un peccato.
Niente contro quei tre mattacchioni della Disney, ma è abbastanza inquietante pensare che l'emozione suscitata da un gruppo di bambini dediti alla violenza e in grado di esercitarla per poi celarla con la totale freddezza della negazione - e addirittura con un morboso interesse di stampo caritatevole/religioso - possa essere la stessa di un cane che parla e uno no accompagnati da un papero sfortunato.
Caro Michael, voglio credere - e sperare - che uscito dal ruolo di regista possa rimanere agghiacciato, sconvolto o turbato anche tu.
Perchè altrimenti sei quasi più pericoloso dei tuoi bambini di neve.
"Crazy babies never say die
born to live on a permanent high."
MrFord
"Sì, tutti quanti."
"Anche papà?"
"Anche papà."
"E anche tu?"
"Sì."
"E anche io?"
"Anche tu. Ma tra tanti, tanti anni."
Con lo stesso glaciale equilibrio della sorella quattordicenne al fratello minore, figli del medico di un villaggio nel Nord della Germania a un anno dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Haneke sviluppa una storia che è crocevia di noir, ghost story, dramma sociale e, a tratti, quasi un horror.
Giocando sulla narrazione del maestro del paese in tarda età, viene introdotto quello che, secondo la maggior parte della critica internazionale, è una sorta di studio di quei semi divenuti i germogli del nazismo, poco più di vent'anni dopo.
Eppure, nell'algido, terribile affresco de Il nastro bianco, è nascosto qualcosa di ancor più ancestrale e oscuro, perchè presente nella nostra natura di esseri umani a prescindere da Storia e politica, che anche l'immenso Kubrick nell'altrettanto immenso 2001: Odissea nello spazio aveva analizzato grazie alla sequenza delle scimmie, per inciso una delle più importanti e dirompenti della storia del Cinema.
Il Male, nel senso più grande e profondo del termine, diviene la scintilla all'origine di episodi che paiono seminare, serpeggiando, una maledizione per le strade del villaggio, colpendo indiscriminatamente i ceti più alti e più bassi della sua popolazione, e il fuoco che divampa nei cuori dei veri colpevoli, implacabili e freddissimi esecutori dei crimini più violenti mostrati nel corso dello svolgimento della trama.
Una trama che avvince e avanza facendosi strada tagliente come un rasoio, riflessione sul quell'abisso succitato in grado di far impallidire tutti i detenuti in coro di Cella 211, angioletti ai margini della società rispetto ai responsabili degli accadimenti di questo sperduto villaggio, stretti uno all'altro, a camminare tranquilli invece che passare il tempo come la loro età suggerirebbe.
Un film incredibile, crudele ed esteticamente splendido, capace di aprire ferite e gettarci sopra grandi manciate di sale.
Peccato solo che la regia di Haneke, formalmente ineccepibile, appaia anche più fredda del solito, il che, considerati i suoi standard, vale a dire che, fondamentalmente, il messaggio che passa da dietro la macchina da presa è che se il cineasta austriaco avesse deciso di girare "Pippo, Pluto e Paperino insieme allo zoo" il suo approccio sarebbe stato assolutamente identico - tranne, forse, qualche improvvisa uccisione qui e là-.
E questo, onestamente, è proprio un peccato.
Niente contro quei tre mattacchioni della Disney, ma è abbastanza inquietante pensare che l'emozione suscitata da un gruppo di bambini dediti alla violenza e in grado di esercitarla per poi celarla con la totale freddezza della negazione - e addirittura con un morboso interesse di stampo caritatevole/religioso - possa essere la stessa di un cane che parla e uno no accompagnati da un papero sfortunato.
Caro Michael, voglio credere - e sperare - che uscito dal ruolo di regista possa rimanere agghiacciato, sconvolto o turbato anche tu.
Perchè altrimenti sei quasi più pericoloso dei tuoi bambini di neve.
"Crazy babies never say die
born to live on a permanent high."
MrFord
martedì 18 maggio 2010
Volti
E' ora di sfatare il dominio recente della lettera "C", tornando alla fine dell'alfabetico per un titolo che, considerati i miei non sempre lusinghieri riferimenti, vi aspetterete che demolisca in barba a tutto il cinema d'autore.
E invece no, cari ragazzi.
Volti di John Cassavetes - ebbene sì, proprio lui, secondo solo a Godard in bocca a chi se la mena tanto di Cinema - è un ottimo film.
Non all'altezza di Ombre - se vogliamo parlare d'immediatezza -, di Assassinio di un allibratore cinese - sviluppo della trama e dei personaggi - o de La sera della prima - come opera in toto -, ma ad ogni modo, e senza dubbio, gran cinema che ha dato origine a una vera e propria mitologia dell'autorialità e "indipendenza" statunitense - Solontz e Paul Thomas Anderson ringraziano -.
Certo, ora mi direte: bella roba, praticamente ha detto che questo è inferiore a tutti i suoi film più importanti, che lo guardiamo a fare!?
E incalzerete: dice dice contro i radical chic del cinema, e poi parte con una sviolinata sull'autorialità ed i suoi alfieri, bel modo di contraddirsi!
Ma il fatto è che da queste parti si ama il buon Cinema, sia esso figlio di grandi produzioni o di autori sconosciuti, vincitore di tutti i premi Oscar o del Gran Prix di Cannes.
E Volti appartiene senza dubbio alla categoria: anche perchè, in due ore piene, riuscire a catturare - e conservare - l'attenzione dello spettatore - specie se prevenuto come il sottoscritto in materia di presunto cinema d'autore - è un'impresa non da poco, in particolare se si ha tra le mani una sorta di "non trama" giocata principalmente su dialoghi tendenzialmente irritanti alla base di un rapporto di coppia allo sbando.
Cassavetes, sfruttando la sua capacità d'improvvisazione quasi jazzistica dietro la macchina da presa e una raffica di parole - ammetto che tutte le parti dedicate agli scioglilingua sono davvero da antologia - ipnotizza lo spettatore riuscendo a trasmettere tutta la passione - seppur traboccante di quello snobismo intellettuale che non sopporto - che il regista ed attore doveva provare per il Cinema.
Certo, Volti - come tutta l'opera del buon John - non è roba da approcciare a cuor leggero, e va raggiunta e gustata dopo essersi abituati un pò, come di solito accade con tutte le cose che prevedono, appunto, il gusto e la sua progressiva esperienza: quante persone che conoscete hanno iniziato a bere rum facendosi uno Zacapa, del resto!?
Quando si inizia, si parte dal Pampero, se va bene.
Tutto il resto è la strada che distingue la passione di una vita da una sbandata del momento.
E anche il giorno dopo, l'effetto dell'hangover è molto diverso.
Provate Volti - e Cassavetes - con cautela, vi dico.
Ma una volta fatto, non potrete non accorgervi di quanto il "day after" sarà diverso, rispetto a un sacco di schifezze da straccio in bocca.
"I'm gettin' drunk all night,
oh, I'm gettin' drunk all day."
MrFord
E invece no, cari ragazzi.
Volti di John Cassavetes - ebbene sì, proprio lui, secondo solo a Godard in bocca a chi se la mena tanto di Cinema - è un ottimo film.
Non all'altezza di Ombre - se vogliamo parlare d'immediatezza -, di Assassinio di un allibratore cinese - sviluppo della trama e dei personaggi - o de La sera della prima - come opera in toto -, ma ad ogni modo, e senza dubbio, gran cinema che ha dato origine a una vera e propria mitologia dell'autorialità e "indipendenza" statunitense - Solontz e Paul Thomas Anderson ringraziano -.
Certo, ora mi direte: bella roba, praticamente ha detto che questo è inferiore a tutti i suoi film più importanti, che lo guardiamo a fare!?
E incalzerete: dice dice contro i radical chic del cinema, e poi parte con una sviolinata sull'autorialità ed i suoi alfieri, bel modo di contraddirsi!
Ma il fatto è che da queste parti si ama il buon Cinema, sia esso figlio di grandi produzioni o di autori sconosciuti, vincitore di tutti i premi Oscar o del Gran Prix di Cannes.
E Volti appartiene senza dubbio alla categoria: anche perchè, in due ore piene, riuscire a catturare - e conservare - l'attenzione dello spettatore - specie se prevenuto come il sottoscritto in materia di presunto cinema d'autore - è un'impresa non da poco, in particolare se si ha tra le mani una sorta di "non trama" giocata principalmente su dialoghi tendenzialmente irritanti alla base di un rapporto di coppia allo sbando.
Cassavetes, sfruttando la sua capacità d'improvvisazione quasi jazzistica dietro la macchina da presa e una raffica di parole - ammetto che tutte le parti dedicate agli scioglilingua sono davvero da antologia - ipnotizza lo spettatore riuscendo a trasmettere tutta la passione - seppur traboccante di quello snobismo intellettuale che non sopporto - che il regista ed attore doveva provare per il Cinema.
Certo, Volti - come tutta l'opera del buon John - non è roba da approcciare a cuor leggero, e va raggiunta e gustata dopo essersi abituati un pò, come di solito accade con tutte le cose che prevedono, appunto, il gusto e la sua progressiva esperienza: quante persone che conoscete hanno iniziato a bere rum facendosi uno Zacapa, del resto!?
Quando si inizia, si parte dal Pampero, se va bene.
Tutto il resto è la strada che distingue la passione di una vita da una sbandata del momento.
E anche il giorno dopo, l'effetto dell'hangover è molto diverso.
Provate Volti - e Cassavetes - con cautela, vi dico.
Ma una volta fatto, non potrete non accorgervi di quanto il "day after" sarà diverso, rispetto a un sacco di schifezze da straccio in bocca.
"I'm gettin' drunk all night,
oh, I'm gettin' drunk all day."
MrFord
Cella 211
Homo homini lupus, si diceva in giro parecchio tempo fa.
Le regole sono cambiate, le società pure, le leggi con loro.
Eppure, quando tutto diventa una questione di vita o di morte, non c'è niente più che l'antica regola dell'istinto a fornire il grano alla grande falce.
E purtroppo, considerato il tipo di mondo, è difficile che le cose vadano come si possa pensare che andranno.
Cella 211 è un solido cartone rifilato da chi sa come fare a pugni.
So che, purtroppo, una pellicola come questa potrebbe essere travisata da diverse angolazioni, sia dai sapientoni che la giudicheranno troppo didascalica in alcuni punti - soprattutto rispetto alla storia d'amore del protagonista Juan -, sia dai fan di Scarface che vedranno nel personaggio di Malamadre un nuovo idolo da inserire nelle top ten dei criminali da prendere come esempio.
Inutile stare a descrivere la tristezza che entrambi i punti di vista suddetti mi ispirano.
Perchè non si può pensare di prendere qualcuno come esempio, una volta buttati nel cuore della rivolta nel carcere di Zamora, se non chi cerca disperatamente di sopravvivere: perchè la propria sopravvivenza - unica, vera legge di fronte ad una situazione che vota all'essere selvaggi - diviene l'istinto più importante che possa muovere una coscienza, sia esso motivato dall'amore o dalla semplice espressione della natura che incombe dentro di noi.
E tutti i protagonisti, da Juan, allo stesso Malamadre, ad ognuno dei guardiani, dei negoziatori o dei detenuti, si muove fra le mura del penitenziario, e nel mezzo di ognuno dei tumulti, con il chiaro intento di arrivare alla fine ancora attaccato alla pelle.
E con la certezza che le probabilità saranno comunque e sempre a sfavore.
E' lo stesso Malamadre a dichiarare a Juan "noi ora usciamo da quella porta insieme, e andiamo fino in fondo; ma devi pregare che io ci lasci le penne per primo, perchè se non sarà così, ti ammazzo. Tu non arrivi vivo fuori da qui."
Come un promemoria della Natura: gioca finchè vuoi, ma non sei tu che comandi.
Arrangiati, provaci, mostra quello che sai fare.
Se ti andrà bene, forse ci sarà un momento in cui potrai sfiorare quello che vuoi, che cerchi, che pensi ti possa dare la chance di farcela.
Da spettatore, l'identificazione con Juan è difficile da evitare.
In fondo, è l'unico appartenente a quell'inferno che possa essere associabile ad una persona "normale".
Ma chi è normale, in fondo!? Davvero Juan è "migliore" degli altri?
La legge della Natura è così terribile da rendere reale quel vecchio assunto?
Difficile saperlo.
Ma di sicuro è triste - ed è questo, a mio parere, il grande merito di quest'ottimo, tesissimo film - arrivare a pensare che sia più sicuro, in qualche modo, stare nel cuore di una rivolta organizzata da gente capace di ogni crimine piuttosto che fuori, in mezzo a chi dovrebbe tutelare la sicurezza.
Alzi la mano chi non sta con "Mutande", cuore ferito e coltello alla mano.
"They try to built a prison
(for you and me to live in)."
MrFord
Le regole sono cambiate, le società pure, le leggi con loro.
Eppure, quando tutto diventa una questione di vita o di morte, non c'è niente più che l'antica regola dell'istinto a fornire il grano alla grande falce.
E purtroppo, considerato il tipo di mondo, è difficile che le cose vadano come si possa pensare che andranno.
Cella 211 è un solido cartone rifilato da chi sa come fare a pugni.
So che, purtroppo, una pellicola come questa potrebbe essere travisata da diverse angolazioni, sia dai sapientoni che la giudicheranno troppo didascalica in alcuni punti - soprattutto rispetto alla storia d'amore del protagonista Juan -, sia dai fan di Scarface che vedranno nel personaggio di Malamadre un nuovo idolo da inserire nelle top ten dei criminali da prendere come esempio.
Inutile stare a descrivere la tristezza che entrambi i punti di vista suddetti mi ispirano.
Perchè non si può pensare di prendere qualcuno come esempio, una volta buttati nel cuore della rivolta nel carcere di Zamora, se non chi cerca disperatamente di sopravvivere: perchè la propria sopravvivenza - unica, vera legge di fronte ad una situazione che vota all'essere selvaggi - diviene l'istinto più importante che possa muovere una coscienza, sia esso motivato dall'amore o dalla semplice espressione della natura che incombe dentro di noi.
E tutti i protagonisti, da Juan, allo stesso Malamadre, ad ognuno dei guardiani, dei negoziatori o dei detenuti, si muove fra le mura del penitenziario, e nel mezzo di ognuno dei tumulti, con il chiaro intento di arrivare alla fine ancora attaccato alla pelle.
E con la certezza che le probabilità saranno comunque e sempre a sfavore.
E' lo stesso Malamadre a dichiarare a Juan "noi ora usciamo da quella porta insieme, e andiamo fino in fondo; ma devi pregare che io ci lasci le penne per primo, perchè se non sarà così, ti ammazzo. Tu non arrivi vivo fuori da qui."
Come un promemoria della Natura: gioca finchè vuoi, ma non sei tu che comandi.
Arrangiati, provaci, mostra quello che sai fare.
Se ti andrà bene, forse ci sarà un momento in cui potrai sfiorare quello che vuoi, che cerchi, che pensi ti possa dare la chance di farcela.
Da spettatore, l'identificazione con Juan è difficile da evitare.
In fondo, è l'unico appartenente a quell'inferno che possa essere associabile ad una persona "normale".
Ma chi è normale, in fondo!? Davvero Juan è "migliore" degli altri?
La legge della Natura è così terribile da rendere reale quel vecchio assunto?
Difficile saperlo.
Ma di sicuro è triste - ed è questo, a mio parere, il grande merito di quest'ottimo, tesissimo film - arrivare a pensare che sia più sicuro, in qualche modo, stare nel cuore di una rivolta organizzata da gente capace di ogni crimine piuttosto che fuori, in mezzo a chi dovrebbe tutelare la sicurezza.
Alzi la mano chi non sta con "Mutande", cuore ferito e coltello alla mano.
"They try to built a prison
(for you and me to live in)."
MrFord
mercoledì 12 maggio 2010
Clerks II
Vi do, fra i tanti, dieci buoni motivi per non perdervi per nessun motivo Clerks II.
1) Non è vero che i sequel non sono mai al livello dei primi capitoli.
2) Dante, Randall e il loro "fantastico" New Jersey.
3) Elias.
4) La disputa Star Wars/Signore degli anelli.
5) Anna Frank.
6) Il culo in bocca.
7) Una colonna sonora da urlo.
8) Il balletto su Abc dei Jackson 5.
9) Rosario Dawson.
10) Pio Bernardo.
Ora, se siete di quelli che ritengono il dittico di Kevin Smith sboccato, volgare e "cazzeggiante", avete ragione.
Ma è assolutamente, dannatamente giusto così.
Se non sapete apprezzarlo, ci sono solo due possibilità: o siete Cetriolo, o uno dei suoi amici più stretti. E non starò certo qui a spiegarvi di chi si tratta, perchè dovrete scoprirlo da voi, bricconcelli, e in questo modo non potrete chiudere gli occhi di fronte a Kelly e il suo amico stallone, a Jay e Silent Bob e alla loro personale versione de "Il silenzio degli innocenti", ad una delle più genuine, divertenti, spontanee e irresistibili commedie del panorama indipendente che il cinema statunitense abbia prodotto negli ultimi cinque anni.
Inoltre, se siete stati adolescenti in quei terribili anni novanta come il sottoscritto, e siete - o siete stati - commessi (e non importa in che tipo di negozio), non potrete non solidarizzare con Dante e Randall, e ritrovarvi in perfetto agio in questa loro nuova versione "dei trenta passati", così come vi eravate specchiati nella loro magica indolenza di poco più che ventenni, all'epoca del primo capitolo.
Inoltre, non nascondo di provare una grandissima simpatia per Kevin Smith, un nerd che non ha mai mancato di professarsi tale, che non se l'è mai menata per "elfi, folletti e cazzi vari", e ha sempre fatto dell'ironia la sua arma migliore.
Oltre ad aver ammesso di aver perso la verginità a trent'anni belli che superati con la sua attuale moglie.
Ci vuole coraggio, a ridere delle proprie sciagure.
Che poi, forse, tanto sciagure non sono.
Perchè il bello è che Kevin Smith ha proprio l'aria di essere una persona felice.
E, soprattutto, che si gode la sua felicità, senza troppa paura.
Se poi per farlo deve farmi piegare in due sproloquiando sui pompini, che lo faccia.
Sfonda una porta aperta.
"A, B, C, easy as one, two, three."
MrFord
1) Non è vero che i sequel non sono mai al livello dei primi capitoli.
2) Dante, Randall e il loro "fantastico" New Jersey.
3) Elias.
4) La disputa Star Wars/Signore degli anelli.
5) Anna Frank.
6) Il culo in bocca.
7) Una colonna sonora da urlo.
8) Il balletto su Abc dei Jackson 5.
9) Rosario Dawson.
10) Pio Bernardo.
Ora, se siete di quelli che ritengono il dittico di Kevin Smith sboccato, volgare e "cazzeggiante", avete ragione.
Ma è assolutamente, dannatamente giusto così.
Se non sapete apprezzarlo, ci sono solo due possibilità: o siete Cetriolo, o uno dei suoi amici più stretti. E non starò certo qui a spiegarvi di chi si tratta, perchè dovrete scoprirlo da voi, bricconcelli, e in questo modo non potrete chiudere gli occhi di fronte a Kelly e il suo amico stallone, a Jay e Silent Bob e alla loro personale versione de "Il silenzio degli innocenti", ad una delle più genuine, divertenti, spontanee e irresistibili commedie del panorama indipendente che il cinema statunitense abbia prodotto negli ultimi cinque anni.
Inoltre, se siete stati adolescenti in quei terribili anni novanta come il sottoscritto, e siete - o siete stati - commessi (e non importa in che tipo di negozio), non potrete non solidarizzare con Dante e Randall, e ritrovarvi in perfetto agio in questa loro nuova versione "dei trenta passati", così come vi eravate specchiati nella loro magica indolenza di poco più che ventenni, all'epoca del primo capitolo.
Inoltre, non nascondo di provare una grandissima simpatia per Kevin Smith, un nerd che non ha mai mancato di professarsi tale, che non se l'è mai menata per "elfi, folletti e cazzi vari", e ha sempre fatto dell'ironia la sua arma migliore.
Oltre ad aver ammesso di aver perso la verginità a trent'anni belli che superati con la sua attuale moglie.
Ci vuole coraggio, a ridere delle proprie sciagure.
Che poi, forse, tanto sciagure non sono.
Perchè il bello è che Kevin Smith ha proprio l'aria di essere una persona felice.
E, soprattutto, che si gode la sua felicità, senza troppa paura.
Se poi per farlo deve farmi piegare in due sproloquiando sui pompini, che lo faccia.
Sfonda una porta aperta.
"A, B, C, easy as one, two, three."
MrFord
domenica 9 maggio 2010
Crazy heart
A volte ci sono film che fanno proprio bene.
Cullano come una vecchia poltrona, scaldano come la pelle di una donna, accarezzano come una canzone, incendiano lentamente, come il buon whisky.
Crazy heart fa parte di questa particolare, confortante categoria.
Se non è una storia vera, potrebbe esserlo, per quanta passione trabocchi da ogni secondo di visione, e da ogni battuta di un'interpretazione - quella del nostro sempre caro Jeff "Drugo" Bridges, premiata con l'Oscar - che, più che grande, appare semplicemente umana.
Lo si attende al varco fin dall'inizio, il vecchio Bad, con il suo drink costantemente alla mano, il mozzicone di una sigaretta ad accendere la successiva, tra il palco di una squallida pista da bowling e il pensiero di dover fare da spalla all'ex pupillo divenuto superstar: lo si attende perchè è questo, e solo questo, che ci si può aspettare, da uno come lui.
Un altro Randy the ram.
E per quelli di questa risma, c'è una grande strada sempre pronta ad essere battuta.
Così lo si attende, mentre vomita tra una canzone e l'altra, mentre scopa groupies attempate e non nasconde, crogiolandosi nell'autocommiserazione, che anche lui non è proprio più di primo pelo.
Lo si attende mentre incontra una donna che non vorrebbe più fare errori, e lo confessa a lui, che pare aver fatto dell'errore una filosofia di vita.
Lo si attende mentre ingoia il rospo e suona per il sempre grato Colin Farrell/Tommy Sweet, mentre torna nella sua Houston cercando le risposte a domande cui è fuggito troppo tempo fa.
Lo si attende mentre cade, sbanda, risorge, sorretto dall'inossidabile amico Robert Duvall, che a quasi ottant'anni dimostra di essere della stessa pasta di Clint.
Eppure, Bad Blake continua a disattendere le aspettative. E a farsi aspettare.
Fino a quando, sconfitto dalla vita, sorpresa sorpresa, trova addirittura la forza di ricominciare.
E alla grande.
Roba americana, penserete.
Invece no: perchè la sua rinascita passa solo attraverso piccole vittorie di fronte a grandi sconfitte.
Ma nell'essere davvero uomini sta anche il poter riconoscere i propri limiti, il proprio passato, l'eredità che ci si lascia ad ogni decisione presa nel corso della vita.
Bad Blake, tornato Otis senza vergogna, riparte dove pareva impossibile.
Nessuno saprà per dove, o per quanto. Del resto, ha cinquantasette anni suonati.
Ma un passo alla volta, torna a stare bene.
Quel che si dice un'ellissi perfetta.
Anche io sto bene.
Perchè è bello pensare che non tutti i Randy the ram debbano per forza finire male.
Col botto, certo. Ma male.
A volte, sedersi comodi e gustarsi la tranquillità può essere un premio ben più grande della gloria.
"When the thrashers come I'll be stuck in the sun
like the dinosaurs in shrines
but I'll know the time has come
to give what's mine."
MrFord
Cullano come una vecchia poltrona, scaldano come la pelle di una donna, accarezzano come una canzone, incendiano lentamente, come il buon whisky.
Crazy heart fa parte di questa particolare, confortante categoria.
Se non è una storia vera, potrebbe esserlo, per quanta passione trabocchi da ogni secondo di visione, e da ogni battuta di un'interpretazione - quella del nostro sempre caro Jeff "Drugo" Bridges, premiata con l'Oscar - che, più che grande, appare semplicemente umana.
Lo si attende al varco fin dall'inizio, il vecchio Bad, con il suo drink costantemente alla mano, il mozzicone di una sigaretta ad accendere la successiva, tra il palco di una squallida pista da bowling e il pensiero di dover fare da spalla all'ex pupillo divenuto superstar: lo si attende perchè è questo, e solo questo, che ci si può aspettare, da uno come lui.
Un altro Randy the ram.
E per quelli di questa risma, c'è una grande strada sempre pronta ad essere battuta.
Così lo si attende, mentre vomita tra una canzone e l'altra, mentre scopa groupies attempate e non nasconde, crogiolandosi nell'autocommiserazione, che anche lui non è proprio più di primo pelo.
Lo si attende mentre incontra una donna che non vorrebbe più fare errori, e lo confessa a lui, che pare aver fatto dell'errore una filosofia di vita.
Lo si attende mentre ingoia il rospo e suona per il sempre grato Colin Farrell/Tommy Sweet, mentre torna nella sua Houston cercando le risposte a domande cui è fuggito troppo tempo fa.
Lo si attende mentre cade, sbanda, risorge, sorretto dall'inossidabile amico Robert Duvall, che a quasi ottant'anni dimostra di essere della stessa pasta di Clint.
Eppure, Bad Blake continua a disattendere le aspettative. E a farsi aspettare.
Fino a quando, sconfitto dalla vita, sorpresa sorpresa, trova addirittura la forza di ricominciare.
E alla grande.
Roba americana, penserete.
Invece no: perchè la sua rinascita passa solo attraverso piccole vittorie di fronte a grandi sconfitte.
Ma nell'essere davvero uomini sta anche il poter riconoscere i propri limiti, il proprio passato, l'eredità che ci si lascia ad ogni decisione presa nel corso della vita.
Bad Blake, tornato Otis senza vergogna, riparte dove pareva impossibile.
Nessuno saprà per dove, o per quanto. Del resto, ha cinquantasette anni suonati.
Ma un passo alla volta, torna a stare bene.
Quel che si dice un'ellissi perfetta.
Anche io sto bene.
Perchè è bello pensare che non tutti i Randy the ram debbano per forza finire male.
Col botto, certo. Ma male.
A volte, sedersi comodi e gustarsi la tranquillità può essere un premio ben più grande della gloria.
"When the thrashers come I'll be stuck in the sun
like the dinosaurs in shrines
but I'll know the time has come
to give what's mine."
MrFord
Willow
Un passo alla volta ve li dovrete sorbire tutti, i classici della mia giovinezza.
E non potevo, in questo senso, non soffermarmi almeno un pò su Willow, che vidi per la prima volta credo addirittura nella stagione della sua uscita, ormai ventidue (!!!) anni fa.
Inutile dire che, ai tempi, rimasi estasiato: effetti che mi ricordavano Labyrinth, mostri e creature di ogni genere, un protagonista outsider spalleggiato da un comprimario assolutamente irresistibile, quel Madmartigan che già allora assurse a modello di "falsa cattiveria" per il sottoscritto, nonostante sarebbero passati altri - e numerosi - anni prima che riuscissi anch'io ad "entrare nel personaggio" come si deve.
Dietro una storia principalmente indirizzata ad un pubblico giovane giocata tutta sugli effetti speciali e firmata da George Lucas, venne scelto per dirigere l'orchestra l'allora ancora non affermato Ron Howard, che fece il suo onesto lavoro confezionando un film che ancora oggi, nonostante l'ovvietà di alcune situazioni e il palese invecchiamento degli stessi effetti, diverte e ricorda quanto ci si era affezionati ai suoi protagonisti.
Siano essi "buoni" o "cattivi".
Perchè se Willow è il perfetto loser capace di prendersi una rivincita sul mondo e il succitato Madmartigan il belloccio "maledetto", Lucas&Co. azzeccano due malvagi d'eccezione, che potrebbero essere presi come modello anche ora: la perfida regina Bavmorda, che ricorda le più crudeli delle matrigne delle fiabe, ed elargisce perle a man bassa - lo scontro con Resiel, tra magia e cazzotti, è ancora un piccolo cult - e il generale Kael, mastodontico colosso dall'elmo ornato da un teschio che allora pareva l'incarnazione stessa della crudeltà della guerra, e a ben guardare anche un pò ora.
Con La storia fantastica e La storia infinita, direi che Willow è stato l'anticamera per l'epica nel mio viaggio nel mondo del Cinema, e se ci penso bene, oltre a gustarmi l'innocenza di quei tempi, credo che i successivi signori degli anelli e avatar luminescenti riescano ad emozionarmi ora perchè un tempo ci sono state fiabe come questa.
Un modo come un altro per non perdere la capacità di meravigliarsi.
"The innocence is brilliant, I hope that it will stay
this moment is perfect, please don't go away."
MrFord
E non potevo, in questo senso, non soffermarmi almeno un pò su Willow, che vidi per la prima volta credo addirittura nella stagione della sua uscita, ormai ventidue (!!!) anni fa.
Inutile dire che, ai tempi, rimasi estasiato: effetti che mi ricordavano Labyrinth, mostri e creature di ogni genere, un protagonista outsider spalleggiato da un comprimario assolutamente irresistibile, quel Madmartigan che già allora assurse a modello di "falsa cattiveria" per il sottoscritto, nonostante sarebbero passati altri - e numerosi - anni prima che riuscissi anch'io ad "entrare nel personaggio" come si deve.
Dietro una storia principalmente indirizzata ad un pubblico giovane giocata tutta sugli effetti speciali e firmata da George Lucas, venne scelto per dirigere l'orchestra l'allora ancora non affermato Ron Howard, che fece il suo onesto lavoro confezionando un film che ancora oggi, nonostante l'ovvietà di alcune situazioni e il palese invecchiamento degli stessi effetti, diverte e ricorda quanto ci si era affezionati ai suoi protagonisti.
Siano essi "buoni" o "cattivi".
Perchè se Willow è il perfetto loser capace di prendersi una rivincita sul mondo e il succitato Madmartigan il belloccio "maledetto", Lucas&Co. azzeccano due malvagi d'eccezione, che potrebbero essere presi come modello anche ora: la perfida regina Bavmorda, che ricorda le più crudeli delle matrigne delle fiabe, ed elargisce perle a man bassa - lo scontro con Resiel, tra magia e cazzotti, è ancora un piccolo cult - e il generale Kael, mastodontico colosso dall'elmo ornato da un teschio che allora pareva l'incarnazione stessa della crudeltà della guerra, e a ben guardare anche un pò ora.
Con La storia fantastica e La storia infinita, direi che Willow è stato l'anticamera per l'epica nel mio viaggio nel mondo del Cinema, e se ci penso bene, oltre a gustarmi l'innocenza di quei tempi, credo che i successivi signori degli anelli e avatar luminescenti riescano ad emozionarmi ora perchè un tempo ci sono state fiabe come questa.
Un modo come un altro per non perdere la capacità di meravigliarsi.
"The innocence is brilliant, I hope that it will stay
this moment is perfect, please don't go away."
MrFord
Iron man 2
E' difficile scrivere di un film che non è orribilmente brutto - come molte recensioni, a torto, l'hanno dipinto - ma neppure anche solo vagamente interessante.
E ancora di più se il suddetto non ha particolarmente emozionato, colpito, o anche solo divertito.
Semplicemente, è passato.
Iron man 2, purtroppo non all'altezza del primo capitolo, esprime una sorta di esagerazione creativa implosa in un "troppo stroppia" che, con una sceneggiatura più solida, avrebbe senz'altro avuto le carte in regola per superare il precedente capitolo.
Invece Justin Theroux, dopo la sbornia di elogi per Tropic Thunder, decide di mettere al fuoco la carne di decenni di grandissime storie a fumetti - l'alcolismo di Tony Stark, la storia con Pepper Potts, la Vedova nera, Whiplash, il complesso rapporto con il padre, la storica "guerra delle armature", la rivalità industriale e non solo con Justin Hammer - condensandole in due ore di film che risultano così essere "un pò tutto, e un pò niente", per dirla come Cirano.
A questo secondo Iron man, infatti, manca completamente la profondità: gli effetti ci sono, la colonna sonora pure - vuoi mettere gli Ac/Dc? -, il cast riprende le linee guida del primo film arricchendole con una dose maggiore di autoironia, eppure tutti i temi trattati paiono solamente toccati in superficie.
Le stesse scene d'azione, ed i combattimenti - che in questi casi dovrebbero far sbavare centinaia e centinaia di spettatori nerd, ma non solo - sono risolti in men che non si dica, magari dopo aver creato un'aspettativa certamente più alta - esemplare, in questo senso, il duello finale fra Iron man, War machine e Whiplash: tanto rumore per nulla, si potrebbe dire -.
Un vero peccato, sia per chi aveva molto apprezzato il lavoro precedente - tra i migliori mai prodotti dai Marvel Studios -, sia per chi, anche sull'onda del rinnovato successo di Downey Jr., si avvicinava per la prima volta ad uno degli eroi meno noti della "Big M", ma non per questo meno interessante dei più famosi "colleghi" Spiderman e X-Men.
E proprio rispetto agli appena citati, fa ancora più incazzare pensare all'occasione sprecata che è stata Iron man 2, perchè resta di gran lunga superiore ai due imbarazzanti ultimi (?) capitoli delle due trilogie dedicate a testa di tela e ai mutanti più famosi del panorama fumettistico mondiale.
Per non parlare di vere e proprie schifezze mortali come Daredevil o The punisher, giusto per rimanere in tema.
Quello che si spera, è che Favreau si rimbocchi le maniche, cambi sceneggiatore e si butti a capofitto nel terzo capitolo e sul progetto Vendicatori, che ormai pare prendere definitivamente forma, anche grazie alle scene inserite - molto intelligentemente, e non sono ironico - al termine dei titoli di coda dei due Iron man e de L'incredibile Hulk.
La prossima volta - mi pare ormai ovvio - toccherà a Thor.
Ma anche il seme per Capitan America pare essere sul punto di sbocciare.
Speriamo solo che, come troppo spesso è stato in passato, la Marvel non affidi proprio tutti questi lavori in cantiere a gente che, invece di occuparsi di cinema, dovrebbe al massimo vendere i popcorn in sala.
"I am Iron man!"
MrFord
E ancora di più se il suddetto non ha particolarmente emozionato, colpito, o anche solo divertito.
Semplicemente, è passato.
Iron man 2, purtroppo non all'altezza del primo capitolo, esprime una sorta di esagerazione creativa implosa in un "troppo stroppia" che, con una sceneggiatura più solida, avrebbe senz'altro avuto le carte in regola per superare il precedente capitolo.
Invece Justin Theroux, dopo la sbornia di elogi per Tropic Thunder, decide di mettere al fuoco la carne di decenni di grandissime storie a fumetti - l'alcolismo di Tony Stark, la storia con Pepper Potts, la Vedova nera, Whiplash, il complesso rapporto con il padre, la storica "guerra delle armature", la rivalità industriale e non solo con Justin Hammer - condensandole in due ore di film che risultano così essere "un pò tutto, e un pò niente", per dirla come Cirano.
A questo secondo Iron man, infatti, manca completamente la profondità: gli effetti ci sono, la colonna sonora pure - vuoi mettere gli Ac/Dc? -, il cast riprende le linee guida del primo film arricchendole con una dose maggiore di autoironia, eppure tutti i temi trattati paiono solamente toccati in superficie.
Le stesse scene d'azione, ed i combattimenti - che in questi casi dovrebbero far sbavare centinaia e centinaia di spettatori nerd, ma non solo - sono risolti in men che non si dica, magari dopo aver creato un'aspettativa certamente più alta - esemplare, in questo senso, il duello finale fra Iron man, War machine e Whiplash: tanto rumore per nulla, si potrebbe dire -.
Un vero peccato, sia per chi aveva molto apprezzato il lavoro precedente - tra i migliori mai prodotti dai Marvel Studios -, sia per chi, anche sull'onda del rinnovato successo di Downey Jr., si avvicinava per la prima volta ad uno degli eroi meno noti della "Big M", ma non per questo meno interessante dei più famosi "colleghi" Spiderman e X-Men.
E proprio rispetto agli appena citati, fa ancora più incazzare pensare all'occasione sprecata che è stata Iron man 2, perchè resta di gran lunga superiore ai due imbarazzanti ultimi (?) capitoli delle due trilogie dedicate a testa di tela e ai mutanti più famosi del panorama fumettistico mondiale.
Per non parlare di vere e proprie schifezze mortali come Daredevil o The punisher, giusto per rimanere in tema.
Quello che si spera, è che Favreau si rimbocchi le maniche, cambi sceneggiatore e si butti a capofitto nel terzo capitolo e sul progetto Vendicatori, che ormai pare prendere definitivamente forma, anche grazie alle scene inserite - molto intelligentemente, e non sono ironico - al termine dei titoli di coda dei due Iron man e de L'incredibile Hulk.
La prossima volta - mi pare ormai ovvio - toccherà a Thor.
Ma anche il seme per Capitan America pare essere sul punto di sbocciare.
Speriamo solo che, come troppo spesso è stato in passato, la Marvel non affidi proprio tutti questi lavori in cantiere a gente che, invece di occuparsi di cinema, dovrebbe al massimo vendere i popcorn in sala.
"I am Iron man!"
MrFord
venerdì 7 maggio 2010
Bad chili
Lansdale ha colpito ancora.
Giunto alla quarta avventura dei grantorinesi Hap&Leonard, premiata ditta di linguaggio di strada e spiccato senso di giustizia, il nostro Joe decide di smorzare i toni rispetto al precedente (e scurissimo) Il mambo degli orsi concentrandosi - pur lasciando il consueto spazio a noir, crime story e morti ammazzati - sull'aspetto di commedia nera che da sempre caratterizza i suoi due personaggi più riusciti.
Per quanto non abbia la freschezza dei precedenti capitoli, Bad chili mi ha conquistato per l'ennesima dimostrazione della grande umanità di questi due charachters, resi ancora più umani dallo scorrere del tempo e dalle cicatrici che la vita ha lasciato su entrambi: Hap, che ricordo come uno spericolato romantico, con il sopraggiungere della mezza età comincia a nutrire dubbi sul suo aspetto e la sua fisicità, che solo la rabbia e il neonato amore per la grintosissima Brett paiono poter smuovere, mentre Leonard appare sempre più "incattivito", quasi il suo senso di giustizia e la sua spigolosità tutta repubblicana fossero acuite dall'avvicinarsi dei cinquanta.
Se a questo si aggiunge la morte del suo fidanzato Raul, le cose non possono che peggiorare.
Detto così non sembra tanto piacevole, la situazione, e ancor meno tendente alla commedia.
Ma credetemi, fra scoiattoli con la rabbia, Jim Bob il detective, autostrade di cioccolato - vi giuro che non avevo mai sentito questa definizione del buco del culo! - e lottatori di wrestling con la passione per la tortura, non si conteranno le occasioni in cui, da soli, leggendo, vi troverete a ridere sguaiatamente per conto vostro.
Non preoccupatevi, non siete rincoglioniti. Solo vivi.
L'effetto Lansdale è proprio questo.
Sboccato ma mai volgare, violento ma mai compiaciuto, forte ma mai presuntuoso.
Proprio come i suoi "eroi".
Gente di tutti i giorni, pronta a vivere e a farsi il culo per questo.
Anche quando ci si deve ancorare ad una vasca da bagno mentre un tornado rischia di portarti via il culo.
L'importante è che ne valga la pena.
E chiedete a Hap se Brett non la vale tutta.
"Southern man, better keep you head,
don't forget what your good book said."
MrFord
Giunto alla quarta avventura dei grantorinesi Hap&Leonard, premiata ditta di linguaggio di strada e spiccato senso di giustizia, il nostro Joe decide di smorzare i toni rispetto al precedente (e scurissimo) Il mambo degli orsi concentrandosi - pur lasciando il consueto spazio a noir, crime story e morti ammazzati - sull'aspetto di commedia nera che da sempre caratterizza i suoi due personaggi più riusciti.
Per quanto non abbia la freschezza dei precedenti capitoli, Bad chili mi ha conquistato per l'ennesima dimostrazione della grande umanità di questi due charachters, resi ancora più umani dallo scorrere del tempo e dalle cicatrici che la vita ha lasciato su entrambi: Hap, che ricordo come uno spericolato romantico, con il sopraggiungere della mezza età comincia a nutrire dubbi sul suo aspetto e la sua fisicità, che solo la rabbia e il neonato amore per la grintosissima Brett paiono poter smuovere, mentre Leonard appare sempre più "incattivito", quasi il suo senso di giustizia e la sua spigolosità tutta repubblicana fossero acuite dall'avvicinarsi dei cinquanta.
Se a questo si aggiunge la morte del suo fidanzato Raul, le cose non possono che peggiorare.
Detto così non sembra tanto piacevole, la situazione, e ancor meno tendente alla commedia.
Ma credetemi, fra scoiattoli con la rabbia, Jim Bob il detective, autostrade di cioccolato - vi giuro che non avevo mai sentito questa definizione del buco del culo! - e lottatori di wrestling con la passione per la tortura, non si conteranno le occasioni in cui, da soli, leggendo, vi troverete a ridere sguaiatamente per conto vostro.
Non preoccupatevi, non siete rincoglioniti. Solo vivi.
L'effetto Lansdale è proprio questo.
Sboccato ma mai volgare, violento ma mai compiaciuto, forte ma mai presuntuoso.
Proprio come i suoi "eroi".
Gente di tutti i giorni, pronta a vivere e a farsi il culo per questo.
Anche quando ci si deve ancorare ad una vasca da bagno mentre un tornado rischia di portarti via il culo.
L'importante è che ne valga la pena.
E chiedete a Hap se Brett non la vale tutta.
"Southern man, better keep you head,
don't forget what your good book said."
MrFord
La città verrà distrutta all'alba
Meno male che c'è stato Johnny Cash sui titoli di testa - anche se era già stato usato, e con risultati certamente migliori, da Zack Snyder nel suo L'alba dei morti viventi, restando in tema di remake di pellicole di Romero -.
E anche che ad accompagnare la visione avevo il buon, vecchio Southern Comfort.
Perchè La città verrà distrutta all'alba è una vera schifezza.
E non lo dico con quel fare da snob o di chi se la mena perchè si trastulla con Dreyer e soci, perchè mi ero approcciato a quest'obbrobrio con le migliori intenzioni di intrattenimento: eppure regista, attori e sceneggiatori ce l'hanno messa davvero tutta a spingermi a pregare che durasse il meno possibile, rendendo l'ultima parte del film una lenta agonia in attesa dei titoli di coda.
Dell'ora e ventotto da asilo degli sceneggiatori si salva soltanto il momento - effettivamente ironico, nella sua sconsolata e terribile realtà all'interno della pellicola - dell'esplosione della macchina dei protagonisti in fuga bombardata da un elicottero militare.
Purtroppo i suddetti protagonisti, in quel momento, non stavano trovando riparo all'interno del veicolo.
Questo avrebbe risparmiato i tre quarti d'ora successivi ad ogni spettatore sano di mente, conscio e memore di quello che fece l'ispiratore Romero.
Ma ne ho anche per lui.
Presentato come produttore esecutivo, restano due possibilità ai miei occhi: che la produzione effettiva l'abbia inserito a sua insaputa giusto per sperare di vendere qualche copia in sala in più di questa roba, oppure che l'età stia cominciando inesorabilmente a pesare sul buon senso del "credevo inossidabile" George. Mi fa troppo male pensare che abbia potuto anche solo essere sfiorato dall'idea di scucire mezzo dollaro a questo gruppo di dilettanti.
Se pur non ci troviamo nel campo minato dell'autorialità "alla Martinelli", un brutto film è un brutto film anche quando si tratta di semplice intrattenimento.
Soprattutto perchè questi sono i casi in cui patisco inesorabilmente il minutaggio e la "pesantezza", quasi più di quanto si potrebbe pensare anche del "peggior" Tarkovski.
E in quel caso si parla di uno dei più grandi registi mai vissuti, percui un sacrificio - neanche troppo gravoso - di pazienza si può sempre fare.
Nel caso del signor Breck Eisner - incredibile unione fra "siamo americani, i nostri nomi non significano un cazzo" e il cognome di uno dei più grandi autori di fumetti della storia - io suggerisco di risparmiare i soldi del biglietto - e soprattutto, tempo della vostra giornata - reinvestendoli in un secondo giro di Southern Comfort.
Accompagnati da Johnny Cash, magari.
Così avrete ricreato il meglio di quello che poteva offrirvi questo "film".
"Mental wounds not healing,
life's a bitter shame,
I'm going off the rails on a crazy train!"
MrFord
E anche che ad accompagnare la visione avevo il buon, vecchio Southern Comfort.
Perchè La città verrà distrutta all'alba è una vera schifezza.
E non lo dico con quel fare da snob o di chi se la mena perchè si trastulla con Dreyer e soci, perchè mi ero approcciato a quest'obbrobrio con le migliori intenzioni di intrattenimento: eppure regista, attori e sceneggiatori ce l'hanno messa davvero tutta a spingermi a pregare che durasse il meno possibile, rendendo l'ultima parte del film una lenta agonia in attesa dei titoli di coda.
Dell'ora e ventotto da asilo degli sceneggiatori si salva soltanto il momento - effettivamente ironico, nella sua sconsolata e terribile realtà all'interno della pellicola - dell'esplosione della macchina dei protagonisti in fuga bombardata da un elicottero militare.
Purtroppo i suddetti protagonisti, in quel momento, non stavano trovando riparo all'interno del veicolo.
Questo avrebbe risparmiato i tre quarti d'ora successivi ad ogni spettatore sano di mente, conscio e memore di quello che fece l'ispiratore Romero.
Ma ne ho anche per lui.
Presentato come produttore esecutivo, restano due possibilità ai miei occhi: che la produzione effettiva l'abbia inserito a sua insaputa giusto per sperare di vendere qualche copia in sala in più di questa roba, oppure che l'età stia cominciando inesorabilmente a pesare sul buon senso del "credevo inossidabile" George. Mi fa troppo male pensare che abbia potuto anche solo essere sfiorato dall'idea di scucire mezzo dollaro a questo gruppo di dilettanti.
Se pur non ci troviamo nel campo minato dell'autorialità "alla Martinelli", un brutto film è un brutto film anche quando si tratta di semplice intrattenimento.
Soprattutto perchè questi sono i casi in cui patisco inesorabilmente il minutaggio e la "pesantezza", quasi più di quanto si potrebbe pensare anche del "peggior" Tarkovski.
E in quel caso si parla di uno dei più grandi registi mai vissuti, percui un sacrificio - neanche troppo gravoso - di pazienza si può sempre fare.
Nel caso del signor Breck Eisner - incredibile unione fra "siamo americani, i nostri nomi non significano un cazzo" e il cognome di uno dei più grandi autori di fumetti della storia - io suggerisco di risparmiare i soldi del biglietto - e soprattutto, tempo della vostra giornata - reinvestendoli in un secondo giro di Southern Comfort.
Accompagnati da Johnny Cash, magari.
Così avrete ricreato il meglio di quello che poteva offrirvi questo "film".
"Mental wounds not healing,
life's a bitter shame,
I'm going off the rails on a crazy train!"
MrFord
giovedì 6 maggio 2010
Avatar
"Ho cominciato a sognare, ero libero. Ma prima o poi, ti devi svegliare."
Così ha inizio l'epopea di Avatar, figlio di tutta la passione per il Cinema di James Cameron e dell'incredibile statura tecnica di tutto il suo team, meritevole di aver fornito un nuovo standard per quanto riguarda il kolossal e gli effetti speciali, superando quello che, solo pochi anni fa, era stato per le platee estasiate di tutto il mondo Il signore degli anelli.
Storcete già il naso, lo so.
Avatar è uno di quegli strani casi che uniscono critica e pubblico o, più semplicemente, ributtano entrambi.
Troppo semplicistico e "americano" per la prima, troppo autoriale per il secondo.
Fortunatamente non faccio parte della schiera di sfortunati che, per un motivo o per un altro, non se lo sono goduto.
Perchè è questo che occorre fare, con Avatar. Godere.
Come Jake Sully, marine paralitico, alla prima esperienza all'interno del "suo" corpo di alieno.
Sei stato inchiodato ad una sedia a rotelle, ti spari sei anni sei di ibernazione per arrivare in un favoloso mondo lontanissimo, ti schiaffano sdraiato all'interno di una macchina che trasferisce il tuo cervello, la tua coscienza, le tue sensazioni all'interno di un corpo nuovo, perfettamente funzionante, in armonia con la natura.
E qui parte il dilemma: voi che fareste!? Rimarreste sdraiati su un lettino a farvi analizzare o correreste all'impazzata per sentire la terra che s'infila fra le dita dei piedi!?
Godere è la parola d'ordine.
Senza ritegno, aggiungo io.
E Avatar, fortunatamente, lo permette, proprio perchè è in grado di mescolare autorialità ed epica popolare, Balla coi lupi e Aliens scontro finale, Star wars e Il signore degli anelli: temi adulti come la trovata geniale di un pianeta intero percorso da una "rete" che collega tutti i suoi esseri viventi, e che permette addirittura di "incontrare" le anime dei morti e fare sesso, e due popoli che non vedono altro che lo scontro come soluzione alle loro divergenze culturali mescolati con tutta la meraviglia che, da bambini, ci faceva sognare di cavalcare draghi e trovarci ad esplorare un mondo fantastico.
Le meraviglie tecnologiche che ci permettono di vivere Pandora non invadono quella che i detrattori hanno giudicato una trama troppo scontata, tipica del panorama americano, in cui l'eroe, dapprima nell'errore, grazie all'amore e all'interazione culturale prende le difese e diviene il simbolo del riscatto della cultura di minoranza: ora io mi chiedo cosa potrebbe esserci di male, a tuffarsi in uno script di questo tipo, specie se giocato con perizia tecnica e grande abilità di narratore.
In fondo, nessuno oserebbe contraddire il Maestro Miyazaki e la sua "Principessa Mononoke", che senza dubbio appartiene, emotivamente e razionalmente, all'esperienza dell'epica intelligente, non è vero?
Ma Cameron è americano, e si sa quanto siano brutti e cattivi, a volte, questi cugini d'oltreoceano: e anche dichiaratamente patriottici, e spudoratamente sentimentali.
Non come noi, europei dall'avanzato intelletto e cultura.
Viene da chiedersi, riflettendo sulla pellicola, a chi potremmo assomigliare più noi del vecchio continente e a chi i nostri tanto criticati statunitensi: se si eccettuano i vezzi militari della passata presidenza a stelle e strisce - fortunatamente archiviata - potrebbe quasi essere che siano loro i Na'Vi, e noi gli umani invasori, che ne dite?
Del resto, il colonialismo è tutta farina del nostro sacco.
In fondo il popolo di Pandora è votato alla battaglia e all'epica, respira grandi spazi e ha un gusto sviluppato per il melodrammatico.
Mentre dall'altra parte, gli umani pensano a come organizzare scientificamente il profitto, e risultano pratici e diretti, senza troppi fronzoli.
Ma non voglio cadere nella trappola della discussione critica, o tanto peggio, politica.
Avatar è semplicemente un gran film: e in qualche modo, assume già il simbolo del Cinema del terzo millennio, e non solo.
Intrattiene ed emoziona, stupisce e coinvolge, diverte e colpisce al cuore: tutte pulsioni che sono all'origine stessa del Cinema, magia per eccellenza e "lanterna magica" - per citare addirittura Bergman - capace di incantare il bambino dentro di noi, a prescindere dall'età.
E proprio perchè siamo vivi, a prescindere dalle differenze geografiche, culturali o planetarie.
E sfido davvero chiunque a non correre con Jake Sully, o a non restare impietrito di fronte alla bellezza del paesaggio di Pandora, a non sognare di poter stare sotto l'albero delle anime, o di fronte al popolo dei Na'Vi prima della battaglia contro gli invasori umani, o a cavalcare strani esseri volanti sfrecciando fra canyon sospesi a mezz'aria.
Vi sfido tutti.
Perchè tanto lo so che anche chi non lo ammetterà mai avrà sentito un brivido, dentro, almeno in una delle tante scene in cui se ne provano, perdendosi nella visione di quest'ultima opera di Cameron: e se anche non riuscirò a cavare a nessuno di voi "nascosti" una sola parola in favore di Avatar, so già che nel profondo, quando andrete a casa, e vi addormenterete, sognerete di essere lì, su Pandora.
Prima o poi - lo dice chiaramente, e giustamente, lo stesso Jake - occorre svegliarsi, è vero.
Ma sognare è una goduria. Non è mai proibito, non costa nulla e, più spesso di quanto non si creda, lascia molto più di quello che si possa pensare.
Una cosa, però, resta fondamentale.
Godersi il momento. Cogliere l'attimo. Giratelo un pò come vi pare.
Ma tuffatevi in Avatar come a cavallo di uno di quegli strani pterodattili a capofitto fra nuvole e roccia.
Togliete i preservativi al cuore e lasciatelo venire in santa pace.
Non ci sarà niente di meglio.
E tanto per dire: io potrò voler bene alla Bigelow - Point break è una meraviglia, e The hurt locker è cazzutissimo -, ma mai come quest'anno la famigerata statuetta dell'Academy per il miglior film avrebbe avuto posto migliore di Pandora.
Avatar doveva vincere.
Evidentemente i giurati non sono andati fino in fondo.
"E non svegliateci, no!
Per favore no!"
MrFord
Così ha inizio l'epopea di Avatar, figlio di tutta la passione per il Cinema di James Cameron e dell'incredibile statura tecnica di tutto il suo team, meritevole di aver fornito un nuovo standard per quanto riguarda il kolossal e gli effetti speciali, superando quello che, solo pochi anni fa, era stato per le platee estasiate di tutto il mondo Il signore degli anelli.
Storcete già il naso, lo so.
Avatar è uno di quegli strani casi che uniscono critica e pubblico o, più semplicemente, ributtano entrambi.
Troppo semplicistico e "americano" per la prima, troppo autoriale per il secondo.
Fortunatamente non faccio parte della schiera di sfortunati che, per un motivo o per un altro, non se lo sono goduto.
Perchè è questo che occorre fare, con Avatar. Godere.
Come Jake Sully, marine paralitico, alla prima esperienza all'interno del "suo" corpo di alieno.
Sei stato inchiodato ad una sedia a rotelle, ti spari sei anni sei di ibernazione per arrivare in un favoloso mondo lontanissimo, ti schiaffano sdraiato all'interno di una macchina che trasferisce il tuo cervello, la tua coscienza, le tue sensazioni all'interno di un corpo nuovo, perfettamente funzionante, in armonia con la natura.
E qui parte il dilemma: voi che fareste!? Rimarreste sdraiati su un lettino a farvi analizzare o correreste all'impazzata per sentire la terra che s'infila fra le dita dei piedi!?
Godere è la parola d'ordine.
Senza ritegno, aggiungo io.
E Avatar, fortunatamente, lo permette, proprio perchè è in grado di mescolare autorialità ed epica popolare, Balla coi lupi e Aliens scontro finale, Star wars e Il signore degli anelli: temi adulti come la trovata geniale di un pianeta intero percorso da una "rete" che collega tutti i suoi esseri viventi, e che permette addirittura di "incontrare" le anime dei morti e fare sesso, e due popoli che non vedono altro che lo scontro come soluzione alle loro divergenze culturali mescolati con tutta la meraviglia che, da bambini, ci faceva sognare di cavalcare draghi e trovarci ad esplorare un mondo fantastico.
Le meraviglie tecnologiche che ci permettono di vivere Pandora non invadono quella che i detrattori hanno giudicato una trama troppo scontata, tipica del panorama americano, in cui l'eroe, dapprima nell'errore, grazie all'amore e all'interazione culturale prende le difese e diviene il simbolo del riscatto della cultura di minoranza: ora io mi chiedo cosa potrebbe esserci di male, a tuffarsi in uno script di questo tipo, specie se giocato con perizia tecnica e grande abilità di narratore.
In fondo, nessuno oserebbe contraddire il Maestro Miyazaki e la sua "Principessa Mononoke", che senza dubbio appartiene, emotivamente e razionalmente, all'esperienza dell'epica intelligente, non è vero?
Ma Cameron è americano, e si sa quanto siano brutti e cattivi, a volte, questi cugini d'oltreoceano: e anche dichiaratamente patriottici, e spudoratamente sentimentali.
Non come noi, europei dall'avanzato intelletto e cultura.
Viene da chiedersi, riflettendo sulla pellicola, a chi potremmo assomigliare più noi del vecchio continente e a chi i nostri tanto criticati statunitensi: se si eccettuano i vezzi militari della passata presidenza a stelle e strisce - fortunatamente archiviata - potrebbe quasi essere che siano loro i Na'Vi, e noi gli umani invasori, che ne dite?
Del resto, il colonialismo è tutta farina del nostro sacco.
In fondo il popolo di Pandora è votato alla battaglia e all'epica, respira grandi spazi e ha un gusto sviluppato per il melodrammatico.
Mentre dall'altra parte, gli umani pensano a come organizzare scientificamente il profitto, e risultano pratici e diretti, senza troppi fronzoli.
Ma non voglio cadere nella trappola della discussione critica, o tanto peggio, politica.
Avatar è semplicemente un gran film: e in qualche modo, assume già il simbolo del Cinema del terzo millennio, e non solo.
Intrattiene ed emoziona, stupisce e coinvolge, diverte e colpisce al cuore: tutte pulsioni che sono all'origine stessa del Cinema, magia per eccellenza e "lanterna magica" - per citare addirittura Bergman - capace di incantare il bambino dentro di noi, a prescindere dall'età.
E proprio perchè siamo vivi, a prescindere dalle differenze geografiche, culturali o planetarie.
E sfido davvero chiunque a non correre con Jake Sully, o a non restare impietrito di fronte alla bellezza del paesaggio di Pandora, a non sognare di poter stare sotto l'albero delle anime, o di fronte al popolo dei Na'Vi prima della battaglia contro gli invasori umani, o a cavalcare strani esseri volanti sfrecciando fra canyon sospesi a mezz'aria.
Vi sfido tutti.
Perchè tanto lo so che anche chi non lo ammetterà mai avrà sentito un brivido, dentro, almeno in una delle tante scene in cui se ne provano, perdendosi nella visione di quest'ultima opera di Cameron: e se anche non riuscirò a cavare a nessuno di voi "nascosti" una sola parola in favore di Avatar, so già che nel profondo, quando andrete a casa, e vi addormenterete, sognerete di essere lì, su Pandora.
Prima o poi - lo dice chiaramente, e giustamente, lo stesso Jake - occorre svegliarsi, è vero.
Ma sognare è una goduria. Non è mai proibito, non costa nulla e, più spesso di quanto non si creda, lascia molto più di quello che si possa pensare.
Una cosa, però, resta fondamentale.
Godersi il momento. Cogliere l'attimo. Giratelo un pò come vi pare.
Ma tuffatevi in Avatar come a cavallo di uno di quegli strani pterodattili a capofitto fra nuvole e roccia.
Togliete i preservativi al cuore e lasciatelo venire in santa pace.
Non ci sarà niente di meglio.
E tanto per dire: io potrò voler bene alla Bigelow - Point break è una meraviglia, e The hurt locker è cazzutissimo -, ma mai come quest'anno la famigerata statuetta dell'Academy per il miglior film avrebbe avuto posto migliore di Pandora.
Avatar doveva vincere.
Evidentemente i giurati non sono andati fino in fondo.
"E non svegliateci, no!
Per favore no!"
MrFord
Gertrud
E' curioso passare da Van Damme a Dreyer.
Ma il bello di amare il Cinema è proprio questo.
Vengo proprio ora dalla visione dell'ultimo dei capolavori di C. T. Dreyer, che se non ha un posto fra i dieci migliori registi di tutti i tempi, poco ci manca.
All'epoca della sua uscita, raccolse critiche enormi venute tutte dall'avanguardia della scuola "radical chic" di allora, che vide nella teatralità della messa in scena e nell'apparente sentimentalismo un segno di debolezza e anzianità del Maestro.
Ma che si può dire!? Quando si è troppo impegnati a farsi gran pippe mentali tendenzialmente non si riesce a vedere - e a sentire - la passione vera e propria, che in quest'opera è talmente dirompente da lasciare a bocca aperta per i tempi, la collocazione geografica - il nordeuropa non è propriamente simbolo di una ribollente sensualità - e l'età che lo stesso Dreyer aveva quando decise di girarlo.
Inoltre, in tutta onestà, raramente mi è capitato di vedere un film firmato da un uomo che proprio dell'uomo fotografi ampiamente e in maniera così dettagliata ed approfondita i limiti sentimentali, quasi per un momento il vecchio C. T. fosse diventato Jane Campion di Lezioni di piano o Holy smoke: l'empatia fra il regista e la sua protagonista è totale, e se al principio pare più intellettuale che non "di cuore", con il passare dei minuti - e del tempo, almeno nella fiction - diviene esclusivamente materia della nostro simpatico motore dei sentimenti, giungendo, sul finale, ad una comunione così completa da scuotere le coscienze degli spettatori senza possibilità di fuga, o di coprirsi gli occhi di fronte alla meraviglia che è, a tutti gli effetti, il testamento che Gertrud/Dreyer lascia al suo pubblico prima di scomparire dietro a quell'ultima porta, con un saluto quasi timido.
"L'amore è tutto", dichiara Gertrud, anche quando dell'amore stesso non è rimasto che il ricordo di una giovinezza che non c'è più e di uomini che, per un motivo o per un altro, sono passati come l'acqua di un fiume.
L'amore salva la vita, e nonostante le soddisfazioni della libertà, del lavoro, del proprio ego resta l'unico baluardo delle nostre difese tutte umane prima della fine inevitabile.
E proprio alla fine neanche il nome importerà più.
O almeno, non importerà quanto i sentimenti che avremo provato.
Ora sembrerò un vecchio intenerito dal romanticismo, proprio come accolsero allora quest'opera testamentaria, ma non è affatto così.
Del resto, alla prima scena, ho pensato si trattasse di uno di quei film che o davvero ami il Cinema o non lo guardi, per snobberia o, semplicemente, perchè ti spacchi le palle per impegno e "pesantezza".
All'ultima, invece, ero dell'idea che Gertrud lo dovessero vedere tutti, a prescindere dai gusti cinematografici, dall'approccio completamente teatrale del regista, dai lunghi dialoghi e piani sequenza, dagli interni "statici" in supporto del confronto fra i protagonisti.
In fondo, quello che davvero conta è l'amore.
Lo diceva Dreyer, e lo cantavano i Fantastici Quattro.
No, non quelli dei fumetti. Anche se potrebbero tranquillamente essere d'accordo.
"All you need is love!"
MrFord
Ma il bello di amare il Cinema è proprio questo.
Vengo proprio ora dalla visione dell'ultimo dei capolavori di C. T. Dreyer, che se non ha un posto fra i dieci migliori registi di tutti i tempi, poco ci manca.
All'epoca della sua uscita, raccolse critiche enormi venute tutte dall'avanguardia della scuola "radical chic" di allora, che vide nella teatralità della messa in scena e nell'apparente sentimentalismo un segno di debolezza e anzianità del Maestro.
Ma che si può dire!? Quando si è troppo impegnati a farsi gran pippe mentali tendenzialmente non si riesce a vedere - e a sentire - la passione vera e propria, che in quest'opera è talmente dirompente da lasciare a bocca aperta per i tempi, la collocazione geografica - il nordeuropa non è propriamente simbolo di una ribollente sensualità - e l'età che lo stesso Dreyer aveva quando decise di girarlo.
Inoltre, in tutta onestà, raramente mi è capitato di vedere un film firmato da un uomo che proprio dell'uomo fotografi ampiamente e in maniera così dettagliata ed approfondita i limiti sentimentali, quasi per un momento il vecchio C. T. fosse diventato Jane Campion di Lezioni di piano o Holy smoke: l'empatia fra il regista e la sua protagonista è totale, e se al principio pare più intellettuale che non "di cuore", con il passare dei minuti - e del tempo, almeno nella fiction - diviene esclusivamente materia della nostro simpatico motore dei sentimenti, giungendo, sul finale, ad una comunione così completa da scuotere le coscienze degli spettatori senza possibilità di fuga, o di coprirsi gli occhi di fronte alla meraviglia che è, a tutti gli effetti, il testamento che Gertrud/Dreyer lascia al suo pubblico prima di scomparire dietro a quell'ultima porta, con un saluto quasi timido.
"L'amore è tutto", dichiara Gertrud, anche quando dell'amore stesso non è rimasto che il ricordo di una giovinezza che non c'è più e di uomini che, per un motivo o per un altro, sono passati come l'acqua di un fiume.
L'amore salva la vita, e nonostante le soddisfazioni della libertà, del lavoro, del proprio ego resta l'unico baluardo delle nostre difese tutte umane prima della fine inevitabile.
E proprio alla fine neanche il nome importerà più.
O almeno, non importerà quanto i sentimenti che avremo provato.
Ora sembrerò un vecchio intenerito dal romanticismo, proprio come accolsero allora quest'opera testamentaria, ma non è affatto così.
Del resto, alla prima scena, ho pensato si trattasse di uno di quei film che o davvero ami il Cinema o non lo guardi, per snobberia o, semplicemente, perchè ti spacchi le palle per impegno e "pesantezza".
All'ultima, invece, ero dell'idea che Gertrud lo dovessero vedere tutti, a prescindere dai gusti cinematografici, dall'approccio completamente teatrale del regista, dai lunghi dialoghi e piani sequenza, dagli interni "statici" in supporto del confronto fra i protagonisti.
In fondo, quello che davvero conta è l'amore.
Lo diceva Dreyer, e lo cantavano i Fantastici Quattro.
No, non quelli dei fumetti. Anche se potrebbero tranquillamente essere d'accordo.
"All you need is love!"
MrFord
martedì 4 maggio 2010
Kickboxer - Il nuovo guerriero
Diamo a Cesare quel che è di Cesare.
Dato che, nell'ultimo post, mi sono concentrato sul vertice artistico della carriera di Van Damme, ora vorrei concentrarmi su uno dei titoli più trash della sua filmografia, pur se non per questo dalle mie parti meno cult di JCVD.
Ricordo quando lo registrai per la prima volta dalla tv, e con mio fratello ridevamo già allora - ed è difficile prendere per il culo un film di questo genere, quando si fanno le medie - di momenti magici come quelli regalati da Tong Po che a ginocchiate fa cadere l'intonaco dai muri o il "servizio" fornito dai soccorritori del fratello di Kurt/Van Damme che, una volta trasportato il ferito fuori dal palazzetto, lo abbandonano sul ciglio della strada.
Anche allora, quando la Thailandia era ai miei occhi un'entità lontana e misteriosa, dubitavo che in un paese anche solo vagamente civilizzato potessero concepire una cosa di quel genere nel corso di un evento sportivo: elucubrazioni da cineforum, senza dubbio.
Ricordo anche la parodia che se ne fece in Hot Shots 2 - senza peraltro riuscire ad arrivare ai livelli di ridicolo involontario di questa perla cinematografica - e le leggende che giravano ai giardinetti secondo le quali Tong Po era un campione realmente esistente che, sul set, aveva facilmente battuto "l'invincibile" Van Damme.
In realtà Tong Po non è mai esistito, e l'attore che lo interpretò altro non era che Michel Qissi, pugile ed esperto di arti marziali che da sempre si allenava con Van Damme, di chiare origini franco/magrebine: anche in questo senso è interessante la risata che è in grado di strappare all'improvviso questo imperdibile classico degli anni '80.
Se, poi, a tutte queste premesse si aggiungono scene come quella ambientata nel locale di campagna, con Kurt/Van Damme ubriaco che balla mettendo fuori gioco gli scagnozzi del nemico sfoggiando un look improponibile anche al più impasticcato dei matti, il gioco è fatto.
Giorni fa discorrevo proprio sulla qualità fondamentale di questo tipo di pellicole prodotte in tutto il decennio "magico" degli eighties: l'autoironia.
Se ora provassero anche solo a tentare un remake di Kickboxer, sicuramente penserebbero di stare girando Arancia meccanica. E prenderebbero Will Smith come protagonista.
Forse, con Muccino libero dall'ennesimo sequel de L'ultimo bacio - ma non doveva essere effettivamente l'ultimo? -, potrebbero tentare anche la via dell'autorialità totale.
E considerato come vanno le cose con il campanilismo, riusciremmo anche a fagli avere buone recensioni.
Ma ora basta. Non voglio scrivere una recensione horror.
Kickboxer è uno spasso senza limiti. E sarebbe un peccato rovinarlo in questo modo.
So che riderete anche di questo - e a ragione, questa volta - senza dubbio.
Ma provate a non godervelo come si deve, e i calci volanti vi arrivano lo stesso.
"Yeah, yeah, tear it up, rip it up, kick it up,
yeah, yeah, kick it, kick it, kick it."
MrFord
Dato che, nell'ultimo post, mi sono concentrato sul vertice artistico della carriera di Van Damme, ora vorrei concentrarmi su uno dei titoli più trash della sua filmografia, pur se non per questo dalle mie parti meno cult di JCVD.
Ricordo quando lo registrai per la prima volta dalla tv, e con mio fratello ridevamo già allora - ed è difficile prendere per il culo un film di questo genere, quando si fanno le medie - di momenti magici come quelli regalati da Tong Po che a ginocchiate fa cadere l'intonaco dai muri o il "servizio" fornito dai soccorritori del fratello di Kurt/Van Damme che, una volta trasportato il ferito fuori dal palazzetto, lo abbandonano sul ciglio della strada.
Anche allora, quando la Thailandia era ai miei occhi un'entità lontana e misteriosa, dubitavo che in un paese anche solo vagamente civilizzato potessero concepire una cosa di quel genere nel corso di un evento sportivo: elucubrazioni da cineforum, senza dubbio.
Ricordo anche la parodia che se ne fece in Hot Shots 2 - senza peraltro riuscire ad arrivare ai livelli di ridicolo involontario di questa perla cinematografica - e le leggende che giravano ai giardinetti secondo le quali Tong Po era un campione realmente esistente che, sul set, aveva facilmente battuto "l'invincibile" Van Damme.
In realtà Tong Po non è mai esistito, e l'attore che lo interpretò altro non era che Michel Qissi, pugile ed esperto di arti marziali che da sempre si allenava con Van Damme, di chiare origini franco/magrebine: anche in questo senso è interessante la risata che è in grado di strappare all'improvviso questo imperdibile classico degli anni '80.
Se, poi, a tutte queste premesse si aggiungono scene come quella ambientata nel locale di campagna, con Kurt/Van Damme ubriaco che balla mettendo fuori gioco gli scagnozzi del nemico sfoggiando un look improponibile anche al più impasticcato dei matti, il gioco è fatto.
Giorni fa discorrevo proprio sulla qualità fondamentale di questo tipo di pellicole prodotte in tutto il decennio "magico" degli eighties: l'autoironia.
Se ora provassero anche solo a tentare un remake di Kickboxer, sicuramente penserebbero di stare girando Arancia meccanica. E prenderebbero Will Smith come protagonista.
Forse, con Muccino libero dall'ennesimo sequel de L'ultimo bacio - ma non doveva essere effettivamente l'ultimo? -, potrebbero tentare anche la via dell'autorialità totale.
E considerato come vanno le cose con il campanilismo, riusciremmo anche a fagli avere buone recensioni.
Ma ora basta. Non voglio scrivere una recensione horror.
Kickboxer è uno spasso senza limiti. E sarebbe un peccato rovinarlo in questo modo.
So che riderete anche di questo - e a ragione, questa volta - senza dubbio.
Ma provate a non godervelo come si deve, e i calci volanti vi arrivano lo stesso.
"Yeah, yeah, tear it up, rip it up, kick it up,
yeah, yeah, kick it, kick it, kick it."
MrFord
lunedì 3 maggio 2010
JCVD
Quando lo racconterete la prima volta nessuno ci crederà.
Ma è tutto vero: Van Damme è protagonista di un film d'autore.
E non una robetta, ma una di quelle pellicole con i controcazzi, che mescola tecnica, divertimento, azione - ovviamente, c'è Van Damme! - e metacinema.
Mabrouk El Mechri, praticamente un esordiente, scalda subito le polveri con un piano sequenza da urlo all'interno di uno studio cinematografico dove si gira l'ultima fatica del buon Jean-Claude, solito prodotto di serie C diretto da un regista svogliato che non ha alcuna voglia di ascoltare le rimostranze del suo protagonista, che ci tiene a far notare che un ciak così impegnativo può essere troppo per qualcuno che ha quasi cinquant'anni.
Pare incredibile sentirlo dire, dopo i decenni di film da invincibile dell'attore belga, eppure è così: ed è su questo che il regista ed il film si concentrano.
Il nostro protagonista, eroe di un cinema tutto giocato sul corpo, sulla fisicità e sulla vittoria inevitabile si fa portavoce di un messaggio che ricorda il dramma di Mickey Rourke in The wrestler: la voce di un uomo solo apparentemente vincente ed idolatrato dai fan, in realtà sconfitto, solo, alle prese con una battaglia che non può e non potrà mai vincere.
Quella con il tempo.
E Van Damme si cala perfettamente nella parte, mettendo la sua vita di fronte alla macchina da presa e portando gli spettatori in Belgio, nella sua cittadina natale, alla ricerca di un nuovo stimolo artistico e alle prese con problemi al bancomat proprio nel momento di un delicato passaggio di contante al suo avvocato per la battaglia legata alla custodia dei figli, che versa in cattive acque proprio per l'esempio negativo dato da tutti i film "violenti" di cui è stato volto e simbolo.
Ma non è finita: perchè Jean Claude si troverà intrappolato - un vero "pomeriggio di un giorno da cani" - in un ufficio postale rapinato, e finirà per essere tramite fra i malviventi e la polizia, stretto in una morsa tutta reale che non è possibile pensare di spezzare come se si fosse in uno qualsiasi dei suoi film.
Così, risate, calci volanti e lacrime, arriva il momento, per il nostro JCVD, di mettersi a nudo di fronte a "Dio", al regista, al pubblico e a se stesso, dando vita ad uno dei momenti più originali, intelligenti e sentiti che mi sia capitato di vedere di recente su grande schermo: e al momento più alto - attorialmente parlando - della carriera di Van Damme si aggiunge l'elemento di metacinema inserito da El Mechri, che lascia la scena al solo racconto senza fare affidamento alcuno alle immagini, agli effetti, alle mosse spettacolari e ai movimenti di macchina.
Parole, lacrime e sangue.
E per un istante, quando l'attore, visibilmente commosso, è solo l'uomo, torna alla mente Randy the ram a nudo con la figlia, e non si può che essere toccati scoprendo tutto quello che, di vero, c'è dietro ogni personaggio costruito sulla finzione.
Ed ecco la riflessione più importante ed azzeccata del regista: il cinema può essere grande, ma l'ultima parola ce l'ha sempre la vita.
Il tutto - si veda il finale - senza un briciolo di autocompiacimento e giocato con enorme, ma proprio enorme, autoironia.
E a proposito: so che state ridendo, razza di bastardi, solo perchè sto parlando bene di questo film.
Ma vi ricrederete, fidatevi.
Altrimenti, visto che oggi sono in vena, vi farò fidare a suon di calci volanti.
"They made the world so hard
if I had somewhere else to go
I could be a star like you."
MrFord
Ma è tutto vero: Van Damme è protagonista di un film d'autore.
E non una robetta, ma una di quelle pellicole con i controcazzi, che mescola tecnica, divertimento, azione - ovviamente, c'è Van Damme! - e metacinema.
Mabrouk El Mechri, praticamente un esordiente, scalda subito le polveri con un piano sequenza da urlo all'interno di uno studio cinematografico dove si gira l'ultima fatica del buon Jean-Claude, solito prodotto di serie C diretto da un regista svogliato che non ha alcuna voglia di ascoltare le rimostranze del suo protagonista, che ci tiene a far notare che un ciak così impegnativo può essere troppo per qualcuno che ha quasi cinquant'anni.
Pare incredibile sentirlo dire, dopo i decenni di film da invincibile dell'attore belga, eppure è così: ed è su questo che il regista ed il film si concentrano.
Il nostro protagonista, eroe di un cinema tutto giocato sul corpo, sulla fisicità e sulla vittoria inevitabile si fa portavoce di un messaggio che ricorda il dramma di Mickey Rourke in The wrestler: la voce di un uomo solo apparentemente vincente ed idolatrato dai fan, in realtà sconfitto, solo, alle prese con una battaglia che non può e non potrà mai vincere.
Quella con il tempo.
E Van Damme si cala perfettamente nella parte, mettendo la sua vita di fronte alla macchina da presa e portando gli spettatori in Belgio, nella sua cittadina natale, alla ricerca di un nuovo stimolo artistico e alle prese con problemi al bancomat proprio nel momento di un delicato passaggio di contante al suo avvocato per la battaglia legata alla custodia dei figli, che versa in cattive acque proprio per l'esempio negativo dato da tutti i film "violenti" di cui è stato volto e simbolo.
Ma non è finita: perchè Jean Claude si troverà intrappolato - un vero "pomeriggio di un giorno da cani" - in un ufficio postale rapinato, e finirà per essere tramite fra i malviventi e la polizia, stretto in una morsa tutta reale che non è possibile pensare di spezzare come se si fosse in uno qualsiasi dei suoi film.
Così, risate, calci volanti e lacrime, arriva il momento, per il nostro JCVD, di mettersi a nudo di fronte a "Dio", al regista, al pubblico e a se stesso, dando vita ad uno dei momenti più originali, intelligenti e sentiti che mi sia capitato di vedere di recente su grande schermo: e al momento più alto - attorialmente parlando - della carriera di Van Damme si aggiunge l'elemento di metacinema inserito da El Mechri, che lascia la scena al solo racconto senza fare affidamento alcuno alle immagini, agli effetti, alle mosse spettacolari e ai movimenti di macchina.
Parole, lacrime e sangue.
E per un istante, quando l'attore, visibilmente commosso, è solo l'uomo, torna alla mente Randy the ram a nudo con la figlia, e non si può che essere toccati scoprendo tutto quello che, di vero, c'è dietro ogni personaggio costruito sulla finzione.
Ed ecco la riflessione più importante ed azzeccata del regista: il cinema può essere grande, ma l'ultima parola ce l'ha sempre la vita.
Il tutto - si veda il finale - senza un briciolo di autocompiacimento e giocato con enorme, ma proprio enorme, autoironia.
E a proposito: so che state ridendo, razza di bastardi, solo perchè sto parlando bene di questo film.
Ma vi ricrederete, fidatevi.
Altrimenti, visto che oggi sono in vena, vi farò fidare a suon di calci volanti.
"They made the world so hard
if I had somewhere else to go
I could be a star like you."
MrFord
Vendicami
E' quasi incredibile quanto poco sia ancora conosciuto in Italia Johnnie To, fondamentalmente il Michael Mann d'oriente, un regista da accapponamento immediato di pelle per potenza, tecnica, virtuosismi e capacità di narrazione.
Dimostrazione assoluta e assolutamente pratica di quanto il cinema d'azione possa dare alla settima arte, Vendicami è l'ennesima prova d'autore di quello che, ormai, può essere considerato uno dei Maestri del cinema asiatico e non solo, promosso a pieni voti alla sua prima prova con una produzione internazionale: e sul banco che ha visto cadere Wong Kar Wai - non ditemi che Un bacio romantico è all'altezza di Hong Kong Express - e John Woo - devo proprio citare Broken arrow!? - Johnnie To sfodera tutto il glaciale fascino di un Johnny Halliday in stato di grazia, di nuovo nel ruolo di "uomo in pensione" - per dirla come Tarantino - dopo la grandissima prova de L'uomo del treno.
Un incipit micidiale, così secco da far prendere un colpo anche ad Haneke, violento ma non sguaiato, spietato ma non buonista - la scelta di non mostrare direttamente la morte dei due bambini è degna del primo Funny games -, subito seguito da un'ora e quarantacinque di puro cinema d'autore mai ruffiano (non suona neanche da paraculo la citazione del nome di Halliday, Francis Costello), sparatorie d'antologia e la consueta dose di melò e amicizia virile portata al limite estremo cui il regista ci aveva abituato dai tempi di The mission.
Il confronto fra Costello e i tre sicari è testosteronica poesia, che culmina, prima ancora della splendida scena sotto la pioggia, con il "duello" di montaggio delle pistole, preceduto da un pranzo a base di eloquentissimi silenzi che potrebbe essere visto, rivisto, stravisto e mostrato a un pò di quegli studenti "di cinema so tutto io, Monsieur Godard" che affollano corsi e università pensando di essere Kubrick o Welles.
E in un tripudio di fotografia da manuale - Macao tutta insegne colorate e grattacieli dai grigi spettrali è magnifica, una sorta di Las Vegas asiatica - To regala una storia mascherata da vendetta che diviene un inno all'amicizia e alla fedeltà "da veri uomini", che non scade nel clichè e non risulta mai banale, neanche quando incombono Memento ed un finale quasi consolatorio.
Se poi si pensa ad una sequenza come quella del tiro al bersaglio con la bicicletta, o alle due battaglie ambientate sulla scala antincendio e nella discarica, con i contendenti a muoversi come pedine di un gioco da tavolo grondante sangue riparandosi dietro cubi di immondizia che si muovono come dadi, i brividi non si tengono più, e riportano alla mente la pallina di carta del già citato The mission e il piano sequenza stratosferico che apre Breaking news.
Ma tutto questo, e molto altro, è Vendicami.
Mi raccomando, non perdetelo.
E vedete di ripescare il resto dei film distribuiti di To, altrimenti mando Halliday a sommergervi di pallottole.
E credetemi, non è mai un buon affare.
"Revenge, i'll watch you bleed!
Revenge, that's all I need!"
MrFord
Dimostrazione assoluta e assolutamente pratica di quanto il cinema d'azione possa dare alla settima arte, Vendicami è l'ennesima prova d'autore di quello che, ormai, può essere considerato uno dei Maestri del cinema asiatico e non solo, promosso a pieni voti alla sua prima prova con una produzione internazionale: e sul banco che ha visto cadere Wong Kar Wai - non ditemi che Un bacio romantico è all'altezza di Hong Kong Express - e John Woo - devo proprio citare Broken arrow!? - Johnnie To sfodera tutto il glaciale fascino di un Johnny Halliday in stato di grazia, di nuovo nel ruolo di "uomo in pensione" - per dirla come Tarantino - dopo la grandissima prova de L'uomo del treno.
Un incipit micidiale, così secco da far prendere un colpo anche ad Haneke, violento ma non sguaiato, spietato ma non buonista - la scelta di non mostrare direttamente la morte dei due bambini è degna del primo Funny games -, subito seguito da un'ora e quarantacinque di puro cinema d'autore mai ruffiano (non suona neanche da paraculo la citazione del nome di Halliday, Francis Costello), sparatorie d'antologia e la consueta dose di melò e amicizia virile portata al limite estremo cui il regista ci aveva abituato dai tempi di The mission.
Il confronto fra Costello e i tre sicari è testosteronica poesia, che culmina, prima ancora della splendida scena sotto la pioggia, con il "duello" di montaggio delle pistole, preceduto da un pranzo a base di eloquentissimi silenzi che potrebbe essere visto, rivisto, stravisto e mostrato a un pò di quegli studenti "di cinema so tutto io, Monsieur Godard" che affollano corsi e università pensando di essere Kubrick o Welles.
E in un tripudio di fotografia da manuale - Macao tutta insegne colorate e grattacieli dai grigi spettrali è magnifica, una sorta di Las Vegas asiatica - To regala una storia mascherata da vendetta che diviene un inno all'amicizia e alla fedeltà "da veri uomini", che non scade nel clichè e non risulta mai banale, neanche quando incombono Memento ed un finale quasi consolatorio.
Se poi si pensa ad una sequenza come quella del tiro al bersaglio con la bicicletta, o alle due battaglie ambientate sulla scala antincendio e nella discarica, con i contendenti a muoversi come pedine di un gioco da tavolo grondante sangue riparandosi dietro cubi di immondizia che si muovono come dadi, i brividi non si tengono più, e riportano alla mente la pallina di carta del già citato The mission e il piano sequenza stratosferico che apre Breaking news.
Ma tutto questo, e molto altro, è Vendicami.
Mi raccomando, non perdetelo.
E vedete di ripescare il resto dei film distribuiti di To, altrimenti mando Halliday a sommergervi di pallottole.
E credetemi, non è mai un buon affare.
"Revenge, i'll watch you bleed!
Revenge, that's all I need!"
MrFord
domenica 2 maggio 2010
La metà oscura
Prima o poi occorrerà ammettere, anche da parte dei più testardi, l'immenso valore che Romero ha avuto - e ha tuttora - nel panorama cinematografico americano.
Titoli come La notte dei morti viventi, Zombi o Monkey Shines non si dimenticano facilmente.
Ora, La metà oscura, tratto dall'omonimo romanzo di Stephen King, non può essere considerato all'altezza delle pellicole che ho appena citato, ma, come spesso accade per i grandi registi, anche i lavori cosiddetti "minori" risultano essere di gran lunga migliori dei migliori sforzi produttivi di una quantità sempre troppo grande di registi scarsi.
Giocato tutto sulla suggestione del doppio, e con alcuni riferimenti che tanto piacerebbero al primo, e più fisico, Cronenberg, essenzialmente una riflessione psicologica più che un horror vero e proprio, si inserisce nel filone più autobiografico dei romanzi di King, con il solito scrittore impazzito o sull'orlo della follia che si confronta con il male dentro di lui.
Qualcuno ha detto Shining!?!?
Tralasciando i fantasmi interiori del buon vecchio Stephen e le similitudini fra le sue opere, è buono e giusto ammettere il lavoro ottimo svolto dal protagonista Hutton e dai responsabili degli effetti speciali, che con gli uccelli rendono omaggio al Maestro Hitchcock in due scene memorabili - l'assalto all'ospedale e il finale - e riescono a non far apparire preistoria ridicola l'unica scena gore ed effettivamente più esposta alla vulnerabilità degli effetti speciali vecchia maniera nell'epoca del digitale.
Romero dirige, come al solito, con sobrietà e rigore, dando un taglio solo apparentemente freddo al suo lavoro, in realtà concentrato sull'empatia che si crea inevitabilmente fra i personaggi e lo spettatore.
E considerata la nota cattiveria del regista, è confortante avere di fronte un film di un ventennio e più fa e rimanere sulla corda in attesa di scoprire se il finale sarà consolatorio - per una volta, almeno, nel caso della filmografia di Romero - o senza speranze.
Anche questo è un segno inequivocabile di talento.
E quel vecchio bastardaccio di George ne ha tanto quanti sono, e continuano ad essere, i suoi morti viventi.
E a proposito, in barba a "Diary of the dead", aspettiamo il nuovo, VERO capitolo della saga degli zombies.
Ovviamente tifando per i nostri vecchi amici claudicanti.
"The lunatic is in my head,
you raise the blade, you make the change."
MrFord
Titoli come La notte dei morti viventi, Zombi o Monkey Shines non si dimenticano facilmente.
Ora, La metà oscura, tratto dall'omonimo romanzo di Stephen King, non può essere considerato all'altezza delle pellicole che ho appena citato, ma, come spesso accade per i grandi registi, anche i lavori cosiddetti "minori" risultano essere di gran lunga migliori dei migliori sforzi produttivi di una quantità sempre troppo grande di registi scarsi.
Giocato tutto sulla suggestione del doppio, e con alcuni riferimenti che tanto piacerebbero al primo, e più fisico, Cronenberg, essenzialmente una riflessione psicologica più che un horror vero e proprio, si inserisce nel filone più autobiografico dei romanzi di King, con il solito scrittore impazzito o sull'orlo della follia che si confronta con il male dentro di lui.
Qualcuno ha detto Shining!?!?
Tralasciando i fantasmi interiori del buon vecchio Stephen e le similitudini fra le sue opere, è buono e giusto ammettere il lavoro ottimo svolto dal protagonista Hutton e dai responsabili degli effetti speciali, che con gli uccelli rendono omaggio al Maestro Hitchcock in due scene memorabili - l'assalto all'ospedale e il finale - e riescono a non far apparire preistoria ridicola l'unica scena gore ed effettivamente più esposta alla vulnerabilità degli effetti speciali vecchia maniera nell'epoca del digitale.
Romero dirige, come al solito, con sobrietà e rigore, dando un taglio solo apparentemente freddo al suo lavoro, in realtà concentrato sull'empatia che si crea inevitabilmente fra i personaggi e lo spettatore.
E considerata la nota cattiveria del regista, è confortante avere di fronte un film di un ventennio e più fa e rimanere sulla corda in attesa di scoprire se il finale sarà consolatorio - per una volta, almeno, nel caso della filmografia di Romero - o senza speranze.
Anche questo è un segno inequivocabile di talento.
E quel vecchio bastardaccio di George ne ha tanto quanti sono, e continuano ad essere, i suoi morti viventi.
E a proposito, in barba a "Diary of the dead", aspettiamo il nuovo, VERO capitolo della saga degli zombies.
Ovviamente tifando per i nostri vecchi amici claudicanti.
"The lunatic is in my head,
you raise the blade, you make the change."
MrFord
The commitments
Da tanti anni non rivedevo The Commitments, tanto che non ricordo esattamente quando fu l'ultima volta. Di certo, prima che andassi in Irlanda.
E già lo sento: ora vi aspetterete la solita sviolinata del tipo "è proprio vero quello che dicono, gli irlandesi sono così" e via con aneddoti e cazzate simili.
Invece ve le risparmio tutte, e dichiaro ufficialmente che se allora pensavo che questo fosse solo un film carino, ora ritengo che sia un grande film non tanto sulla musica - ma che dire, Andrew Strong canta veramente da Dio! - quanto sulla vita.
Una specie di Ken Loach che pensa al sesso, più che alla politica.
Perchè, come decanta il sognatore Jimmy fin dal principio, il soul è la musica della scopata e della fabbrica, che avvicina la gente della strada ai grandi sogni delle rockstar: e questo sono, The Commitments.
Un gruppo di ragazzi di strada.
Che non dimenticano quanto importante sia l'articolo prima del nome.
Perchè l'articolo crea unicità.
Riff raff, diceva il succitato Loach.
E una splendida recensione che lessi più o meno nello stesso periodo dell'ultima volta che vidi The commitments affermava che i protagonisti di Loach, nonostante il gioco di parole (riff raff=da buttare, o qualcosa di simile) non sono spazzatura. Mai stati, e mai lo saranno.
Sono protagonisti, e non comparse: magari in una strada che non vi sognerete neppure di incrociare, o a capo di una famiglia che non incontrerete mai, o in un paese in cui non vi capiterà di fare un viaggio.
Eppure, ci sono.
E quello che fanno, nonostante un mare di stronzate che passano nel mezzo, lo fanno bene.
Tengono il palco, si direbbe in gergo musicale.
E Jimmy questo lo sa, o almeno lo scoprirà nel suo futuro, come gli rivelerà "l'illuminato" Fagen, profetico trombettista apparentemente bugiardo che da al soul quello che è del soul: un sacco di sesso.
Tutti si domandano perchè Fagen riesca a portarsele a letto proprio tutte, ma la risposta è tutta nel senso di quella musica.
Del resto, Marvin Gaye è l'unica star non schiava della droga morta perchè il padre, strafatto, gli scaricò addosso un fucile.
Il soul cambia le regole. O forse, molto più semplicemente, le riduce all'osso.
E ora non vi tirerò di nuovo fuori Kubrick ed Eyes wide shut, ma avete capito tutti, no!?
Quindi, per essere pane e salame come un bel Sexual healing, fatevi una bella - non importa che sia lunga o corta, sotto o sopra, davanti o dietro - cavalcata, poi bevetevi qualcosa e guardate The Commitments.
Ha tutta la forza, la magia, la dolcezza e la malinconia di un post scopata.
Di quelli belli, però.
Ha solo un difetto: parla male del mio adorato country.
Del resto, nessuno è perfetto!
Lo sanno tutti, anche Wilder.
"I'm gonna wait till the midnight hour!"
MrFord
E già lo sento: ora vi aspetterete la solita sviolinata del tipo "è proprio vero quello che dicono, gli irlandesi sono così" e via con aneddoti e cazzate simili.
Invece ve le risparmio tutte, e dichiaro ufficialmente che se allora pensavo che questo fosse solo un film carino, ora ritengo che sia un grande film non tanto sulla musica - ma che dire, Andrew Strong canta veramente da Dio! - quanto sulla vita.
Una specie di Ken Loach che pensa al sesso, più che alla politica.
Perchè, come decanta il sognatore Jimmy fin dal principio, il soul è la musica della scopata e della fabbrica, che avvicina la gente della strada ai grandi sogni delle rockstar: e questo sono, The Commitments.
Un gruppo di ragazzi di strada.
Che non dimenticano quanto importante sia l'articolo prima del nome.
Perchè l'articolo crea unicità.
Riff raff, diceva il succitato Loach.
E una splendida recensione che lessi più o meno nello stesso periodo dell'ultima volta che vidi The commitments affermava che i protagonisti di Loach, nonostante il gioco di parole (riff raff=da buttare, o qualcosa di simile) non sono spazzatura. Mai stati, e mai lo saranno.
Sono protagonisti, e non comparse: magari in una strada che non vi sognerete neppure di incrociare, o a capo di una famiglia che non incontrerete mai, o in un paese in cui non vi capiterà di fare un viaggio.
Eppure, ci sono.
E quello che fanno, nonostante un mare di stronzate che passano nel mezzo, lo fanno bene.
Tengono il palco, si direbbe in gergo musicale.
E Jimmy questo lo sa, o almeno lo scoprirà nel suo futuro, come gli rivelerà "l'illuminato" Fagen, profetico trombettista apparentemente bugiardo che da al soul quello che è del soul: un sacco di sesso.
Tutti si domandano perchè Fagen riesca a portarsele a letto proprio tutte, ma la risposta è tutta nel senso di quella musica.
Del resto, Marvin Gaye è l'unica star non schiava della droga morta perchè il padre, strafatto, gli scaricò addosso un fucile.
Il soul cambia le regole. O forse, molto più semplicemente, le riduce all'osso.
E ora non vi tirerò di nuovo fuori Kubrick ed Eyes wide shut, ma avete capito tutti, no!?
Quindi, per essere pane e salame come un bel Sexual healing, fatevi una bella - non importa che sia lunga o corta, sotto o sopra, davanti o dietro - cavalcata, poi bevetevi qualcosa e guardate The Commitments.
Ha tutta la forza, la magia, la dolcezza e la malinconia di un post scopata.
Di quelli belli, però.
Ha solo un difetto: parla male del mio adorato country.
Del resto, nessuno è perfetto!
Lo sanno tutti, anche Wilder.
"I'm gonna wait till the midnight hour!"
MrFord
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