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martedì 24 luglio 2018

Sherlock - Stagione 4 (BBC, UK/USA, 2017)






Ai tempi della sua uscita in bluray, fu un ex collega e caro amico a regalarmi la prima stagione di Sherlock, quasi per caso, colpito favorevolmente da una fortuita visione e ben conscio della mia passione per il grande e piccolo schermo: ricordo che quella stessa stagione rimase in attesa mesi - e forse di più - prima di passare sugli schermi del Saloon e dare inizio ad un recupero di quelle che nel frattempo erano diventate tre annate nell'arco di pochissime settimane per uno dei prodotti più sorprendenti, ben recitati e scritti del panorama britannico e non solo.
Era inevitabile, considerata la qualità e la carriera in rampa di lancio dei suoi protagonisti - soprattutto un sempre fenomenale Benedict Cumberbatch - che si cominciasse a pensare ad una sua conclusione, e ci si potesse confrontare con un inevitabile calo nella resa complessiva: questo quarto giro di giostra, in qualche modo, unisce le due cose.
Perchè se da un lato consacra la leggenda di una coppia di personaggi - letterari e cinematografici - indimenticabili, Sherlock Holmes ed il suo fido compagno John Watson, dall'altro mostra per la prima volta il fianco ad una certa stanchezza rappresentata principalmente dall'episodio uno, senza dubbio il peggiore dell'intera saga dedicata a questa versione moderna del detective figlio della penna di Conan Doyle, ed una lentezza che a tratti rende la visione piuttosto ostica, quantomeno se paragonata a quella degli esordi: certo, la penna di Steven Moffat  è quella di un vero asso della sceneggiatura - ne è la prova della splendida seconda puntata -, le performance attoriali di alto livello, il gioco dell'epilogo avvincente, eppure le prime crepe in questa solidissima costruzione cominciavano a notarsi, e da questo punto di vista va fatto sicuramente un plauso alla produzione per aver intuito che, soprattutto quando si parla di serial di qualità, è sempre meglio chiudere in modo da lasciare un bel ricordo nel pubblico piuttosto che sputtanare quanto di buono è stato creato in precedenza, perchè purtroppo alla fine l'audience finirà per ricordare soltanto quello - esempi lampanti, in questo senso, Dexter e True blood -.
Riflessioni sui massimi sistemi del piccolo schermo a parte, però, varrebbe la pena di ricordare questa stagione di chiusura di Sherlock per la lezione che è in tutto e per tutto il già citato episodio centrale, dalla figura inquietante e quasi horror del serial killer "di potere" - simile a molti capi di stato purtroppo vivi e vegeti in tutto il mondo - agli straordinari twists orchestrati da Sherlock Holmes, folle, strafatto e sarcastico come e più del solito: se questa serie è stata celebrata ed amata così profondamente, negli ultimi anni, diventando un piccolo cult, è merito di una dovizia di particolari e di un talento come quelli che hanno generato una "puntata" di quel calibro.
Certo, partire da una base come quella dei residenti di Baker Street può apparire facile, ma non sempre solide fondamenta giustificano grandi costruzioni: mentre questo Sherlock, indubbiamente, lo è stato. E sono grato a tutti i suoi autori, così come alle storie che ha portato sullo schermo, per avermi lasciato un ricordo vivo ed intenso, di quelli che, un giorno o l'altro, mi porteranno ad incrociare di nuovo le strade di questi due incredibili protagonisti.
Proprio a partire da quel bluray.
E sono convinto che sarà semplice amarlo ancora una volta.
Anzi, elementare.



MrFord



 

venerdì 7 ottobre 2016

Nonno scatenato (Dan Mazer, USA, 2016, 102')




Mettiamo in chiaro tutta una bella serie di cose: Robert De Niro, attore mitico parte della Storia del Cinema e di molti di noi appassionati cresciuti a Taxi driver, Il cacciatore e Quei bravi ragazzi è da anni bollito, quasi avesse deciso di pensionarsi interpretando la parodia di se stesso.
Zac Efron, ex teen idol uscito dalla "cantera" di High school musical è probabilmente già ora una parodia di se stesso.
Le commedie di grana grossa ma dal lieto fine, quasi una versione per adulti delle fiabe Disney, sono uno dei mali peggiori che il Cinema mainstream possa generare alimentando l'astio dei radical ed il livello basso del pubblico fin troppo grande ed occasionale.
Nonno scatenato, a conti fatti, è un film molto mediocre e prevedibile, di quelli davvero in cui buttare i neuroni nelle serate in cui si è talmente stanchi che si finisce per resistere giusto per non pensare di aver solo lavorato, sistemato casa e dormito.
Eppure, a dispetto di tutto questo, mi sono divertito come un povero stronzo ridendo di gusto da solo per la quasi totalità della visione, immaginandomi da qui ad una quarantina d'anni nelle vesti indossate per l'occasione proprio dall'ex "Toro scatenato" Bob, che come in una versione di grana molto più grossa del nonno di Little Miss Sunshine sfodera una perla dietro l'altra facendo di tutto - e anche di più - per cercare di riportare il suo nipote prediletto, incanalato in una carriera e in una vita preconfezionate, sulla cattiva strada, come canterebbe fiero De Andrè.
Sarà che, invecchiando io stesso, ho finito non solo per superare la timidezza giovanile, ma anche e soprattutto per uscire sempre più spesso e sempre più volentieri dalle righe e dal seminato, abbassando di conseguenza il mio livello sbattendomene dell'apparenza e godendomi il momento, ma ho trovato gli scherzi e le trovate di questo filmetto praticamente irresistibili, e pensato di cominciare ad allenarmi da "dirty grandpa" già ora, semplicemente da padre, o anche solo da amico, pensando agli scherzi che quasi quotidianamente rifilo al mio collega Max, "mascotte" non ufficiale della mia squadra di lavoro.
Per il resto, a parte un paio di scivoloni decisamente di cattivo gusto con protagonista De Niro, la pellicola intrattiene come è giusto che facciano questi prodotti, mostra il fianco ad una censura italiana scandalosa - tagliate clamorosamente due sequenze che vedono i protagonisti fare uso evidente di droghe pesanti, quasi fossimo tornati negli anni ottanta dei tagli a cazzo di cane - per il Nuovo Millennio e regala il tipo di divertimento bramato dal tipico gruppo di amici o colleghi in bilico tra il bromanticismo e la bieca animalità maschile - che non esclude, però, dalla visione, eventuali spettatrici illuminate pronte a non scandalizzarsi per il rutto libero di regista e sceneggiatori  -.
Considerato che partivo dall'idea di una serata in apnea nell'immondizia cinematografica, direi che è andata piuttosto bene, un pò come quando si finisce ad una festa senza conoscere nessuno ed avere alcuna aspettativa e si rimedia la scopata dell'anno.
E forse della vita.




MrFord




 

lunedì 18 aprile 2016

Mr. Robot - Stagione 1

Produzione: USA Network
Origine: USA
Anno: 2015
Episodi: 10







La trama (con parole mie): un giovane ingegnere informatico, Elliot Alderson, solitario e disadattato, dipendente dalla morfina e lontano anni luce dal mondo e dalla vita normale dei suoi coetanei, è contattato da Mr. Robot, misterioso leader di una cellula rivoluzionaria che progetta di ribaltare il sistema dominato da banche, gruppi finanziari e multinazionali attraverso le moderne armi dell'hacking e della lotta "virtuale".
Superati i conflitti ed i dubbi iniziali, Elliot decide di entrare a far parte del gruppo e dare sostegno alla lotta di Mr. Robot grazie al suo talento ed al genio che lo contraddistinguono: ma la strada verso un nuovo giorno ed un nuovo mondo è lunga e certo non priva di ostacoli e momenti di difficoltà, siano esse dovute ai disequilibri di Elliot o ai pilastri di una società già saldamente formata proprio da quelli che sono - o sono destinati a diventare - gli antagonisti per eccellenza dell'hacker.











Fin dai tempi dell'apertura del Saloon, è capitato più di una volta di trovarmi di fronte a prodotti non solo ben accolti, ma in alcuni casi addirittura osannati dalle recensioni nella blogosfera e non, giunti su questi schermi spinti da un hype molto alto e rivelatisi delusioni cocenti: da The tree of life a It follows, passando per Innkeepers, alcuni piccoli e grandi cult figli della settima arte non hanno decisamente passato un buon quarto d'ora, dalle parti del sottoscritto, ma a memoria non ricordo una situazione analoga vissuta rispetto alle serie televisive.
Certo, ci sono stati titoli abbandonati senza alcun rimpianto - mi viene in mente lo sciapissimo Person of interest -, o altri finiti solo per dovere come Flashforward, ma a mia memoria non avevo mai provato una delusione ed uno sconvolgimento rispetto al successo riscontrato come per Mr. Robot, con ogni probabilità il serial più sopravvalutato - considerati l'insieme, le potenzialità e le ambizioni del prodotto - delle ultime stagioni: a prescindere dagli argomenti molto nerd e molto finto alternativi da pseudo rivoluzionari intellettualoidi che poco intrigano ed attraggono gli occupanti di casa Ford - non ricordo di una serie pronta a vantare il poco invidiabile record di avermi abbattuto con il sonno nel corso della visione di ognuno dei primi tre episodi tre -, ho trovato in Mr. Robot una mancanza di empatia dei protagonisti con il pubblico - un charachter come Elliot da queste parti si prenderebbe schiaffi in faccia e calci in culo dalla mattina alla sera -, una latitanza pressochè totale di ritmo - tre quarti d'ora che paiono quattro ore e mezza, una noia che mi ha fatto rivalutare in termini di scorrevolezza anche i più pesanti tra i miei cari mattonazzi russi -, un'atmosfera da fuori tempo massimo che grida anni novanta ad ogni piè sospinto ed una perenne sensazione da "vorrei ma non posso e me la meno pure" che ha reso davvero insostenibile la visione anche a fronte di alcune buone idee di fondo o delle sequenze più affascinanti.
Penso che quella di decidere di interrompere il rapporto dei Ford con Mr. Robot sia stata una delle decisioni meno sofferte rispetto al piccolo schermo di sempre, considerati poi i ritardi leggendari accumulati con le nuove proposte da sempre caratteristica del sottoscritto e la curiosità rispetto a prodotti certamente più vicini ai miei gusti di questo polpettone cybernerd incasinato e poco coinvolgente del quale non sentivo davvero la necessità: un peccato per il pur talentuoso Rami Malek - che preferisco ricordare come uno dei protagonisti del videogioco Until dawn, quello sì, davvero un supercult - e per l'idea di considerare la rivoluzione in rete come la nuova frontiera di tutte quelle che, nei decenni scorsi, sono state combattute per la strada o nella giungla, armati di megafoni o di fucili, con le azioni o con le parole.
Ma sinceramente, davvero poca carne al fuoco per permettermi di riconsiderare la decisione definitiva.
Mr. Robot è la delusione non solo dell'anno, ma del decennio, anche e soprattutto considerando il taglio dato alla serie, i premi raccolti - a posteriori, per quanto mi riguarda assolutamente da fantascienza - e l'enorme carico di aspettative dei suoi numerosi fan hardcore e degli autori stessi, che non possono certo negare di aver messo una certa presunzione nella loro creatura mascherandola - neppure troppo bene - da "rivincita dei nerd" assolutamente poco credibile, un pò come quei compagni di scuola pronti a piagnucolare alla fine di ogni compito in classe dandosi per spacciati salvo poi finire per essere sempre e puntualmente tra i quattro o cinque con i voti più alti.
Ora, non so se sia stato un problema di incompatibilità o di un punto di vista diverso da quello di tutti i radical e gli alternativi e i nerd pronti a sbavare drietro al signorino dal flusso di coscienza facile e sballato Elliot, ma sinceramente, avendo passato gli anni della scuola da un pezzo, ho finito per avere una riserva di pazienza molto più scarsa a fronte di chi piagnucola per portarsi a casa, alla fine, la sua brava medaglietta di primo della classe.
Vaffanculo, secchioncelli.
Vaffanculo, Elliot.
Vaffanculo, Mr. Robot.
Il Sistema non mi piace.
Ma non mi piace neppure il tuo sistema.





MrFord





"That's it, sir
you're leaving
the crackle of pigskin
the dust and the screaming
the yuppies networking
the panic, the vomit
the panic, the vomit
god loves his children, god loves his children, yeah!"
Radiohead - "Paranoid android" -





mercoledì 24 giugno 2015

Kurt Cobain - Montage of heck

Regia: Brett Morgen
Origine: USA
Anno:
2015
Durata: 145'
 





La trama (con parole mie): infanzia, traumi, crescita, ascesa, successo e morte del mito del grunge e del rock Kurt Cobain, che prese per mano e a schiaffi la musica svegliandola dal sogno degli anni ottanta per traghettarla nell'infinite sadness dei novanta.
Un ragazzo nato e cresciuto nella tranquilla provincia americana, ossessionato dal desiderio di non essere umiliato e dalla voglia di costruirsi una vita normale che normale, di fatto, non sarà mai: dal divorzio dei genitori al continuo rimbalzare tra le case dei parenti sempre troppo presto stufi di lui, dal disagio della scuola alle prime esperienze con la chitarra e la marijuana, dai lavori occasionali alla formazione dei Nirvana, band destinata ad assurgere ad una fama mondiale che, probabilmente, Kurt e i suoi compagni non si aspettavano neppure lontanamente di conquistare.
Ed il rapporto con lo stardom, i fan, la droga, Courtney Love, la musica, la figlia, la morte.








Il mio rapporto con Kurt Cobain è sempre stato piuttosto conflittuale.
Se, da un lato, artisticamente non ho mai messo in discussione il suo talento, la capacità che ha avuto di distruggere un intero decennio e porre le fondamenta per un altro, la rabbia e la passione portate sul palco e tra le note, dall'altro ho sempre trovato estremamente fastidiosa la sua scelta di abbandonare il campo nel momento in cui aveva fama, ricchezza, fan adoranti pronti a seguirlo, una figlia praticamente appena nata, la giovinezza e la bellezza.
Per colpa della sua decisione, probabilmente, i Nirvana, un gruppo rivoluzionario per la Storia della Musica, rimarranno sempre imprigionati nella loro epoca, incapaci, dal sound alla portata, di uscire dai confini che Cobain stesso aveva tanto lottato e desiderato oltrepassare.
Brett Morgen, da questo punto di vista, racconta molto bene la schizofrenia artistica - e non solo - del leader dei Nirvana, un gruppo di ragazzi che, dalla Seattle capitale del grunge, sconvolsero il mondo della musica nei primi anni novanta come un vero e proprio tornado, che ricordo prendere forma nelle aule del liceo ai tempi del mio primo anno, lo stesso che vide la drammatica morte dello stesso Cobain, a soli ventisette anni, a cavallo tra un destino segnato dal numero nella storia del rock ed i miei compagni di classe in lacrime come se fosse venuto a mancare loro un fratello maggiore, un simbolo, un'icona.
D'altro canto, l'operazione non appare, per quanto affascinante, riuscita e potente come avrebbe potuto essere, complici una durata a mio parere eccessiva ed i troppi inserti animati - visivamente ipnotici, senza dubbio, ma fin troppo presenti rispetto alla componente determinata dai filmati di repertorio e dalle interviste - pronti a sacrificare dettagli interessanti come il fatto che Novoselic compaia sempre visibilmente commosso, mentre Dave Grohl non sia presente nella componente "attuale" del film, complici probabilmente i numerosi problemi avuti dai due ex compagni di Kurt con la Yoko Ono dei Nirvana, Courtney Love, in termini economici ed umani.
E potrei continuare ad analizzare in termini critici la visione di Montage of heck, che è risultata se non altro efficace nel fotografare un vero e proprio mito del rock e la sua epoca, ma non ci riesco.
Perchè ho patito tantissimo, la visione di questo film.
Perchè io detesto profondamente Kurt Cobain.
Io amo la vita, faccio dell'esperienza e del godere della stessa una bandiera ed un monito, mi prefiggo di rimanere da queste parti e saldamente fino a centotre anni, se non oltre, lotto ogni giorno per vincere la stanchezza, il sonno, le possibili delusioni, qualsiasi cosa riservi la quotidianità.
E se a ventisette anni neppure fossi stato un dio del rock, con un viso d'angelo, il mondo ai miei piedi, soldi a palate, una bimba appena nata, una strada appena all'inizio, la possibilità ed il talento per avviare una vera e propria rivoluzione culturale, tutto avrei pensato, tranne che di farla finita.
Io detesto Kurt Cobain perchè trovo che sia un vigliacco, uno stronzo, un poser del cazzo che si è seduto sui traumi di una crescita difficile come l'hanno, l'hanno avuta e l'avranno tanti privi di un briciolo del suo talento.
Che pure continueranno ad andare avanti.
Troppo facile dire che l'importante è continuare a fare la propria musica, e che non importa del successo.
Troppo facile farsi schiacciare dallo stesso.
Troppo facile desiderare una famiglia e poi permettere che la propria figlia nasca tossicodipendente.
Troppo facile, caro Kurt.
Un pò come scappare.
Un pò come farla finita.
E sappi che se fossi qui ora, ti prenderei a schiaffi.
Lo farei con il mio amico Emiliano, che ha fatto la tua scelta, quindi figurati cosa farei con te, considerata l'empatia che provo rispetto alla tua posizione.
Caro Kurt, sarai anche stato un ragazzino, sarai stato solo, o rifiutato, o quello che vuoi, ma solo a guardare il filmino di te e Courtney intenti, marci secchi, a tagliare i capelli di vostra figlia poco più che neonata, fa salire in me una rabbia che si mangia tutti i tuoi stronzi sfoghi sul palco.
Vaffanculo, Kurt Cobain.
Sei stato un meraviglioso, dirompente, fulgido fuoco di paglia.
Io sto con Dave Grohl.
Che è cambiato, è cresciuto, è andato avanti.
E oggi, nel duemilaquindici, si rompe una gamba saltando dal palco durante un concerto, e dice "aspettatemi, torno a suonare per voi", va in pronto soccorso, si fa ingessare, e torna a finire il live.
Questa è passione.
Onestamente non so per quale motivo non abbia partecipato a questa celebrazione.
O almeno, alla parte di Montage of heck che ti celebra.
Ma mi piace pensare che dissenta.
Perchè è giusto che si testimoni la tua grandezza.
Ma non ci sto a festeggiare la stessa.
Perchè tu non sei stato grande.
Sei stato solo un ragazzino dal potere troppo grande per le sue piccole mani.
Sei stato il Joffrey Lannister del rock.
E quelli come te, dalle mie parti, è meglio che si facciano vedere il meno possibile.




MrFord




"I'm so happy 'cause today
I've found my friends ...
they're in my head
I'm so ugly, but that's okay, 'cause so are you ...
we've broken our mirrors [Alt: We broke our mirrors]
sunday morning is everyday for all I care ...
and I'm not scared
light my candles, in a daze
'cause I've found god."
Nirvana - "Lithium" - 




martedì 17 marzo 2015

Vizio di forma

Regia: Paul Thomas Anderson
Origine: USA
Anno: 2014
Durata:
148'





La trama (con parole mie): Larry "Doc" Sportello, detective privato nella Los Angeles del settanta dal regime di droghe piuttosto massiccio riceve la visita inaspettata di una sua ex, la seducente Shasta, che gli rivela essere coinvolta in un complicato intrigo legato a doppio filo alla figura di un vero e proprio re dell'immobiliare che la moglie, lei stessa ed alcuni complici vorrebbero mettere fuori gioco ricoverandolo in un manicomio privato per ricchi impadronendosi del patrimonio accumulato dall'uomo nel corso della sua carriera.
Peccato che, neppure il tempo di mettere insieme i pezzi, ed ecco che il suddetto re di appartamenti e palazzi finisce per scomparire insieme alla stessa Shasta, e che i pezzi del puzzle pronto a comporsi - o scomporsi - proprio davanti agli occhi di Sportello si moltiplichino, in bilico tra agenti della polizia fin troppo precisi e schematici, sassofonisti infiltrati nelle organizzazioni sovversive dall'FBI, dentisti evasori di tasse e dediti al sesso con giovani fuggiasche appena maggiorenni e chi più ne ha, più ne metta, compresa la misteriosa Golden Fang.
Riuscirà il buon Doc a far combaciare ogni tessera del mosaico e dare al cerchio una sua personalissima quadratura?








Per quanto chiunque abbia incrociato il cammino del qui presente vecchio cowboy negli ultimi dieci anni della sua vita, magari grazie al legame del sottoscritto con l'alcool, potrebbe obiettare, non mi sono mai considerato, fin dai tempi dell'adolescenza, un "fattone": adoro la sperimentazione, così come l'esperienza sulla pelle, eppure sono sempre stato ad un tempo troppo disciplinato, in qualche modo intimorito dall'idea di lasciar crollare tutti gli argini e legato - soprattutto nel passato recente - alla pratica sportiva per abbandonarmi a dipendenze di sorta. 
Piuttosto, ammetto di aver frazionato il desiderio in modo da goderne da prospettive diverse, che si parli di sesso, Cinema, alcool, viaggi, letture e tutto quello che cerco di non perdermi giorno dopo giorno.
Eppure, quando mi trovo di fronte personaggi come il Drugo o Doc Sportello, sento istintivamente di provare una sensazione di profonda empatia rispetto al loro approccio: non è una cosa semplice gestire la Libertà, avere la faccia tosta di affrontarla con il coraggio che si deve necessariamente coltivare in modo da averla come compagna di viaggio ma non di vita.
Eppure, una volta fatta, è fatta per sempre. Soprattutto per quelli come loro.
E in un certo senso, li capisco.
Perchè è come se fossimo tutti una sorta di specie protetta di coccodrilli, e non ci fosse nulla in grado di farci estinguere. 
Semplicemente, ci esprimiamo in lingue differenti, attraverso canali di comunicazione e regimi di "droghe" altrettanto differenti. Ma la direzione è sempre quella.
Paul Thomas Anderson, probabilmente, è giunto con questo film alla mia stessa conclusione, e non solo è riuscito a rispettare in pieno lo spirito del romanzo che ha ispirato questo titolo, ma a raccontare lo stesso come se una macchina del tempo avesse il potere di trasportare l'audience indietro di oltre trent'anni anche in termini di stile ed approccio: niente piani sequenza, ampi spazi, Cinema corale.
Vizio di forma è un mosaico di dialoghi e situazioni solo apparentemente grotteschi ed improvvisati che lascia spazio ad istanti di malinconia struggente, quasi fossimo alla fine dell'estate e dovessimo lasciarci alle spalle quello che crediamo sia un grande amore: e dalle risate nell'osservare straniti Bigfoot che mangia la banana mentre guida ad un finale perfetto per il genere, passiamo attraverso ad un cocktail perfetto che mescola Classici come Chinatown e Il lungo addio a cult moderni del calibro di Paura e delirio a Las Vegas e Il grande Lebowski, senza in tutto questo dimenticarsi autori come Chandler - per l'appunto - o Spillane.
Sinceramente, poco importa che i fan della prima ora del regista siano rimasti spiazzati dal caotico modo di procedere di Sportello, e da una vicenda che non porta sullo schermo davvero un briciolo della pulizia delle opere precedenti del buon P. T., o che ad alcuni il tutto sia apparso come un sogno da indigestione o sbronza pesante troppo denso da gestire: Vizio di forma è un elegante fiume in piena che manca di poter essere definito un riferimento assoluto semplicemente perchè preceduto da opere cui è chiaramente debitore - oltre alle già citate, mi sento quantomeno di ricordare enormità come Il mistero del falco o Un bacio e una pistola -, un fulmine a ciel sereno in un inizio anno che ha regalato ben poche soddisfazioni davvero cult al Saloon e alla settima arte in toto, un esercizio di stile sia attoriale che registico e tecnico che riesce ad apparire sincero e diretto come il suo protagonista.
In un certo senso, questo "vizio" va accolto come uno dei più ostici, quelli che vanno conquistati, e dai quali occorre farsi conquistare: è un viaggio in cui perdersi e ritrovarsi, come l'onda pronta a travolgere e riportare a galla di Point Break, lo spirito dell'oceano e dell'esperienza.
Trattenersi non porterà bene, Bigfoot docet.
E' come se l'estate fosse arrivata in anticipo.
E a prescindere da quello che effettivamente sarà, o dal fatto che "questo non significa che si possa tornare insieme", godersela è la cosa migliore che si possa fare.
Lo può garantire anche Doc.
Fa bene alla salute.
Nonostante la malinconia.




MrFord




"Twisting and turning
your feelings are burning
you're breaking the girl
she meant you no harm
think you're so clever
but now you must sever
you're breaking the girl
he loves no one else."
Red Hot Chili Peppers - "Breaking the girl" - 




 

sabato 13 dicembre 2014

Shameless - Stagione 4

Produzione: Showtime
Origine: USA
Anno: 2014Episodi: 12





La trama (con parole mie): per i Gallagher la quotidianità è come sempre dura. Mentre Frank, ritrovato dopo essere sparito per l'ennesima volta, lotta per la vita una volta appreso che il suo fegato sta cedendo e finisce per andare alla ricerca della sua figlia maggiore, ai tempi neppure riconosciuta, Fiona si trova tra le mani il lavoro della vita ed una situazione mai così agiata: peccato che il richiamo della perdizione sia dietro l'angolo, e le conseguenze che verranno saranno disastrose.
Nel frattempo Lip si trova ad affrontare il lato più duro del dorato mondo del college, Ian una nuova piega della sua vita, Carl e Debbie l'imminente adolescenza ed il piccolo Liam gli ostacoli che essere un Gallagher comporta affrontare.
Così, mentre Kevin e Veronica si apprestano a diventare genitori, davanti al focolare della famiglia più strampalata del South Side di Chicago si affrontano cadute rovinose e nuovi tentativi di risalita: chi, alla fine della lotta, resterà in piedi? 
E soprattutto, ancora vivo?









Tornare dai Gallagher è un pò come tornare a casa.
Stagione dopo stagione, caduta dopo caduta, risalita dopo risalita, Shameless ha rappresentato, di fatto, in questi ultimi anni la vera erede della tradizione "di famiglia" che soltanto Six feet under era riuscita a tradurre con una sensibilità ed un approccio unici negli anni della sua programmazione.
E senza dubbio, al momento, le serie legata alle vicissitudini della più disfunzionale tra le famiglie del grande e piccolo schermo rappresenta uno dei titoli favoriti di casa Ford, in grado di proseguire nella sua corsa senza un cedimento, continuando a regalare emozioni così intense da far quasi pensare di essere lì, parte di un gioco e di una sopravvivenza che la gente normale ben conosce, e sulla propria pelle.
Nel corso di questa quarta stagione, caratterizzata principalmente dal crollo di Fiona - fin dal principio la vera e propria colonna della famiglia -, dalla lotta per rimanere vivo di Frank e dagli sforzi di Lip per prendere le redini della casa in assenza della sorella maggiore e di alzare la testa e tirarsi fuori dalla realtà del South Side - spinto probabilmente dal fatto che sarà l'unico tra i Gallagher a potercela fare - grazie al college, in casa Ford siamo riusciti ancora una volta ad emozionarci, lottare, commuoverci e stringere i denti come solo i Gallagher sanno fare, ed ancora una volta sentirci Gallagher a nostra volta.
Non è facile, raccontare la Famiglia come concetto, con tutte le sfumature, il meglio ed il peggio: eppure, quando ci si riesce, non c'è niente di così coinvolgente e noto a qualunque tipo di pubblico, dallo spettatore occasionale all'appassionato. In fondo, la Famiglia traduce, a partire dal nostro sangue, il concetto di Amore in realtà, e con esso riesce nell'impresa di creare un legame così forte da resistere anche di fronte al peggio che, in quanto esseri umani, siamo in grado di mostrare e portare nel mondo.
In questo senso, la quarta stagione di questo sempre sorprendente titolo riesce a mostrare qualcosa che non ci saremmo aspettati, ma che inevitabilmente ci si trova ad affrontare: il crollo di Fiona, da sempre l'unica certezza di questo curioso focolare, di fatto mette alla prova i componenti della famiglia così come l'audience rispetto all'idea di concedere una seconda possibilità proprio alla persona che più ha finito per sputare sangue affinchè le cose andassero per il meglio, e che proprio per questo, forse, si ritrova giudicata più severamente dei suoi scellerati genitori.
Accanto a questo, la progressiva ascesa di Lip, il più talentuoso dei Gallagher, il più intelligente ed adattabile, non per nulla buttato nel mondo - e nella realtà alla bambagia del college - in modo che possa lasciarsi alle spalle quello che i suoi fratelli e sorelle conosceranno come unica scelta esistente e possibile: la sua lotta per la sopravvivenza nel campus, decisamente diversa eppure umanamente simile a quella che ha intrapreso per le strade nel corso della vita ed un finale da grande film indie con una sequenza da brividi nel confronto con Mandy nella tavola calda segnano una svolta che, inevitabilmente, aspetta e rispetta le sue potenzialità.
E poi, Frank.
Ho sempre odiato Frank Gallagher.
Ed ho sempre considerato il suo come uno dei charachters più insopportabili e disgustosi mai apparsi sullo schermo. Uno di quelli che non ti augureresti mai di incontrare, figuriamoci averlo come genitore.
Eppure, nel corso di questa season four, ho assistito perfino ad una rivincita di questo egoista di professione, alcolizzato, drug addict e bastardo fino al midollo: ho visto Frank ormai in fin di vita ammonire i genitori dei figli dei compagni di scuola bulleggiati da Carl, affermando quanto certe esperienze possano formare il carattere, e che mentre quei bambini spaventati un giorno diventeranno medici, scienziati o capitani d'industria, il suo ragazzo potrà al massimo raccogliere i rifiuti con una tuta arancione, sempre che non finisca in carcere prima.
Ed ho visto Frank lottare con tutte le forze, anche quelle che non aveva, per restare vivo, e proprio accanto a Carl gridare in faccia a Dio che proprio lui, uno scarafaggio fatto e finito, era ancora lì.
Vivo, per l'appunto.
Ho visto Frank mostrare in un atto di ribellione quasi supremo, di fronte alla splendida immagine del lago Michigan completamente ghiacciato, che è un inno alla resistenza a tutto campo, la volontà di tutti i sopravvissuti di questo pianeta, di tutte le famiglie che cagano sangue per arrivare a fine mese, e trovano rifugio in qualche vizio di troppo per far fronte agli stronzi che comandano il mondo.
Un pò come il Grande Capo in persona.
Ho visto Frank lottare come non mai.
Come Mickie per Ian.
Che con quel "la sua famiglia" completa una metamorfosi costata lacrime e sudore.
E per la quale dovrà continuare a lottare ogni giorno.
E noi siamo tutti con lui.
Tutti con i Gallagher.
Vivi. Sempre.



MrFord




"Well I got a bad liver and broken heart, yeah,
I drunk me a river since you tore me apart
and I don't have a drinking problem, 'cept when I can't get a drink
and I wish you'd a-known her, we were quite a pair."
Tom Waits - "Bad liver and a broken heart" - 





martedì 29 aprile 2014

Il lercio

Regia: Jon S. Baird
Origine: UK
Anno:
2013
Durata: 97'





La trama (con parole mie): Bruce Robertson è un detective della polizia di Edinburgo in lizza per un'importante promozione alle prese con l'indagine legata all'omicidio di un giovane turista giapponese avvenuto per mano di un gruppo di balordi locali. Robertson, ossessionato dalle figure della moglie e della figlia, è preda, giorno dopo giorno, di una discesa nella spirale della dipendenza da alcool e droghe e di un allucinato viaggio interiore che lo porta a confrontarsi con i fantasmi del suo passato, le bassezze commesse verso i colleghi, gli amici e più in generale il resto degli esseri umani ed un crescendo che non gli permette più di distinguere la realtà dal delirio.
Riuscirà l'arcigno poliziotto a vincere se stesso e sopravvivere alle sue debolezze? Il caso verrà risolto? A chi andrà la promozione?








Irvine Welsh è da sempre un autore piuttosto ostico, per il sottoscritto. Che si parli di romanzi o di pellicole tratte dagli stessi, finisco sempre per impiegare un pò ad apprezzare il lavoro del ruvido scrittore scozzese: come se dovesse farsi il culo, perchè possa volergli davvero bene.
Il lercio è stato un'ottima interpretazione di questa curiosa consuetudine: in una serata di stanca di quelle in cui vorresti semplicemente abbandonarti sul divano e dormire fino alla fine dei tempi, il lavoro allucinato di Jon S. Baird - che, più che di noir e crime, pare cibarsi della stessa materia di Paura e delirio a Las Vegas e John dies at the end - ha faticato a carburare, lottando con le unghie e con i denti per passare dallo sconnesso tentativo di stupire di un nuovo regista affacciatosi sulle scene ad un ritratto notevole di un dramma di dipendenza e (dis)umanità assoluta.
James McAvoy, che di norma siamo abituati a vedere recitare la parte del "buono", fornisce una delle prove più convincenti della sua carriera accollandosi il peso di un charachter che, di buono, ha davvero poco o nulla, un protagonista sgradevole ed ingombrante di quelli che si finisce per osservare come se fossero scarafaggi rivoltati, più per curiosità sociologica che non per empatia.
Il suo Bruce Robertson, con fantasmi del passato annessi, è il cardine di una struttura sconnessa quanto lui, che rimbalza come una scheggia impazzita sullo schermo tra una sbronza, una striscia di coca, una scopata improvvisata ed una orchestrata alle spalle e ai danni di qualcuno, e se dev'essere qualcuno meglio che sia un collega, o un punto di riferimento da sfruttare non appena dovesse capitare l'occasione.
Un ruolo non facile davvero, che il buon McAvoy porta in scena con un piglio assolutamente convincente, supportato da un cast di spalle di prim'ordine - dal veterano Jim Broadbent a Eddie Marsan, uno dei migliori caratteristi anglosassoni, senza dimenticare attrici come Pollyanna McIntosh, sottovalutata ed ancora poco sfruttata interprete dello splendido The Woman di Lucky McKee: l'insieme delle interpretazioni, accanto ad una costruzione forse lenta - considerando la durata effettiva della pellicola - ma efficace, contribuiscono a condurre lo spettatore - disorientato o sconvolto che sia - dalle parti di un finale da urlo, impreziosito - anche se si tratta soltanto di una chicca da cinefili - da titoli di coda a cartoon a dir poco perfetti, che mi hanno riportato alla mente l'effetto che, pensando alla cultura UK, hanno sempre avuto sul sottoscritto le opere di Orwell, uno dei più grandi geni della Letteratura di tutti i tempi.
Per essere un crime movie da superamento del dolore decisamente scorretto ed assolutamente lercio - per l'appunto -, il lavoro di Baird funziona alla grande, riuscendo ad andare oltre i pregiudizi, lo spaesamento iniziale - almeno del sottoscritto -, una fluidità non proprio da manuale ed una materia decisamente poco in grado di rendere l'operazione "simpatica" a chi la osserva dall'altra parte dello schermo: un plauso, dunque, a Welsh e allo spirito con il quale è stato tradotto in immagini e trasformato in un Ulisse psichedelico di rimembranze dal sapore di whisky e James Joyce, che sarà pure stato irlandese, ma doveva avere più di un'affinità con i cugini - seppur più freddi, esperienza personale - compatrioti di William Wallace.
Per un detective strafatto, senza controllo e completamente in mano ai suoi demoni, direi che non è cosa da poco.




MrFord



 
"Your beauty makes me feel alone
I look inside but no one's home
screw that
forget about that
I don't want to think about anything like that."
Therapy? - "Screamager" - 




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