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mercoledì 6 giugno 2018

End of justice - Nessuno è innocente (Dan Gilroy, Canada/Emirati Arabi/USA, 2017, 122')







Immagino sia capitato a tutti voi almeno una volta nella vita di ordinare un piatto - o un cocktail - che sulla carta avrebbe tutti gli ingredienti giusti per piacervi solo per scoprire che, al contrario, finirete per rimpiangere la scelta.
Giusto per farvi un esempio pratico: la maionese è una delle cose che più detesto al mondo, e la sua presenza - anche minima - compromette la possibilità per questo vecchio cowboy di assaggiare un piatto, un panino o qualsiasi altra cosa.
Eppure i suoi ingredienti, presi singolarmente, sono tutti più che apprezzati.
End of justice - terribile adattamento italiano dell'originale Roman J. Israel Esq. - potrebbe essere paragonato proprio alla "merda gialla", come direbbe Vincent Vega: non che mi abbia fatto così tanto schifo ma, se paragonato ai pezzi che compongono il suo puzzle, rappresenta senza dubbio una delle delusioni più clamorose di questa già decisamente spenta primavera cinematografica - anche se, lo ammetto, tra desertificazione della blogosfera, stanchezza da lavoro e crossfit e impegni con i Fordini, anch'io ultimamente sono più da serie tv -.
Questo perchè Dan Gilroy, con il suo Lo sciacallo, era stato una delle sorprese più interessanti di qualche stagione fa, il buon Denzellone è sempre un grande - anche quando, come in questo caso, gigioneggia a livelli fuori scala - ed il legal thriller ha da sempre esercitato un fascino particolare sugli occupanti del Saloon, specie se associato a questioni etiche o filosofiche, se così possiamo definirle.
Peccato che, nonostante protagonisti, autore e confezione, End of justice si perda in se stesso e soprattutto nella gestione del tempo narrato neanche fosse il peggiore dei prodotti da sabato sera su Italia Uno, raccontando il conflitto interiore di un protagonista sulla carta assolutamente interessante con una semplicità da taglio con l'accetta degna del più trash degli slasher movies: Roman J. Israel Esq, avvocato ombra del suo socio, genio quasi autistico del sistema legale, paladino dei diritti degli accusati con il sogno di intentare una sorta di "causa allo Stato" che potrebbe portare ad una rivoluzione del sistema legale, trovatosi privo del suo "scudo" e in un ambiente che non gli è consono, cade vittima del fascino del potere e delle scappatoie, finendo per commettere tutti gli errori che fino ad allora aveva tanto criticato, o lottato per cancellare.
Un'evoluzione sulla carta stimolante per sceneggiatori e pubblico resa troppo semplice e veloce, quasi si fosse deciso di condensare un'intera stagione di una serie in un film di un paio d'ore - o le tre settimane citate ad inizio pellicola neanche fossero mesi, o addirittura anni -: non che cambiamenti radicali siano da escludere completamente nella realtà, e senza dubbio eventi traumatici possono portare a compiere scelte che nella quotidianità finiscono per essere poco più di remote possibilità, eppure l'impressione, nel cambio di ruoli di Washington e Farrell, è che tutto appaia forzato e posticcio, neanche Gilroy avesse abbandonato i panni dello sciacallo per trasformarsi in una sorta di pavone e mostrarsi più appariscente di quanto in realtà non sia.
Un atteggiamento - ed un problema - che si riflettono anche sulla pellicola, assolutamente lontana dai classici del genere e neppure tanto pessima da stuzzicare una stroncatura di quelle buone per sfogarsi e divertirsi anche un pò: semplicemente il tentativo di "cambiare il mondo" di Roman J. Israel Esq risulta assurdo come tutti i sogni donchisciotteschi - e questo potrebbe essere anche positivo - quanto fastidioso come i bei voti di quei secchioni che ai tempi della scuola si lamentavano ogni volta di essere andati male ad un compito in classe per poi prendere i voti più alti.
Peccato non essere più a scuola, a volte.
Perchè per loro la vita sarebbe decisamente più semplice.
E chissà, certi piatti con ingredienti perfetti potrebbero perfino risultare perfetti a loro volta.
Peccato che la scuola sia finita da un pezzo.




MrFord




martedì 30 dicembre 2014

Ford Awards 2014: i film (N°10 - 6)

La trama (con parole mie): come si recitava nel cult targato Van Damme Senza esclusione di colpi, "adesso cominciano gli incontri seri". Si entra nella top ten del meglio uscito in sala in questo duemilaquattordici made in Saloon, ed inevitabilmente si alza - e non di poco - il livello delle pellicole chiamate in causa a rappresentare un'annata partita alla grande e proseguita, al contrario, decisamente in sordina fatta eccezione per alcune clamorose fiammate.
Che, guarda caso, si sono date appuntamento tutte qui.


N°10: GONE GIRL di DAVID FINCHER


David Fincher è un regista cui non devono piacere le mezze misure: lo stesso rapporto che ho avuto - e continuo ad avere - con la sua filmografia è piuttosto disomogeneo, e resto sempre stupito rispetto al fatto che si possa essere passati da cose trascurabili come The Game ad altre enormi come The Social Network. Gone Girl non è certo il miglior lavoro del buon David, eppure scava nell'ombra dei rapporti di coppia come pochi altri, e pur non volendo scomodare paragoni eccessivi, è stato il primo dai tempi di Eyes Wide Shut a solleticare certe corde nel sottoscritto.


N°9: LO SCIACALLO di DAN GILROY


Al suo esordio dietro la macchina da presa, Dan Gilroy confeziona un thriller sociale di spaventosa scarsa empatia con il suo protagonista - un gigantesco Jake Gyllenhaal - che mescola le atmosfere tanto care a Mann e Friedkin con l'indagine del mondo attuale filtrato attraverso la comunicazione e la televisione. Un affresco urbano crudele ed ipnotico, ed uno dei thriller più serrati degli ultimi anni.



N°8: NEBRASKA di ALEXANDER PAYNE


America profonda, road movie, famiglia, padri e figli.
Si potrebbe affermare che con Nebraska, oltre ad aver raggiunto l'apice della sua carriera - almeno finora -, Payne abbia amalgamato tutti gli ingredienti - o quasi - favoriti del sottoscritto per servire un cocktail forse amaro a tratti eppure in grado di lasciare il segno come pochi.
Per quanto di basso profilo, e forse legata al concetto di outsiders più di quanto sembri, uno dei titoli più importanti dell'anno.

N°7: LOCKE di STEPHEN KNIGHT


Ricordo che, quando vidi Locke, rimasi letteralmente folgorato.
Non mi era mai capitato di rimanere inchiodato alla poltrona stimolato da un livello di adrenalina ben oltre la soglia di guardia seguendo semplicemente le telefonate di un uomo giunto ad una svolta nella sua vita normale nel corso di un viaggio in macchina.
Tom Hardy pazzesco, sceneggiatura ad orologeria, finale perfetto.
Ivan Locke è un uomo tutto d'un pezzo. Come questo film è un pezzo importante della passata stagione.

N°6: DOM HEMINGWAY di RICHARD SHEPARD


E a ridosso della top five giunge quello che è stato il film - e più ancora, il personaggio - fordiano per eccellenza dell'anno: uno strepitoso Jude Law - forse nel ruolo più interessante della carriera - presta una fisicità per lui inaspettata ad un charachter scombinato e casinista, dedito all'alcool e agli errori come solo i migliori - o i peggiori - tra i santi bevitori.
Un film non perfetto, e forse il meno perfetto tra quelli giunti fino a qui, eppure assolutamente irresistibile.

TO BE CONTINUED...

mercoledì 10 dicembre 2014

Lo sciacallo - Nightcrawler

Regia: Dan Gilroy
Origine: USA
Anno: 2014
Durata:
117'





La trama (con parole mie): Lou Bloom è un uomo ossessionato dal successo e dall'affermazione, nutrito dalla rete e dalla cultura "fai da te", protagonista di una sorta di american dream per il momento realizzato solo nella sua testa che vive di espedienti. 
Quando, per caso, si ritrova testimone di un incidente stradale, decide di gettarsi a capofitto nel mondo del giornalismo d'assalto, reinventandosi reporter per le strade di una Los Angeles abbracciata dalla notte.
Assunto un collaboratore ed avviato un proficuo rapporto con un canale televisivo locale, Lou si dedica con tutte le forze alla ricerca di servizi sempre più vicini al limite imposto dall'etica mettendo la sua realizzazione davanti ad ogni cosa, ad ogni costo: quando, una notte, giunge sul luogo di un omicidio prima della polizia riprendendo i due assassini, la posta in gioco si alza come non era mai capitato prima.








Una delle caratteristiche fondamentali di un'opera - sia essa letteraria, cinematografica, musicale o artistica in genere -, almeno per quanto riguarda questo vecchio cowboy, è sempre stata il cuore, quella scintilla che permette allo spettatore - parlando ovviamente di pellicole - di entrare in sintonia con quello che si trova di fronte: non è un mistero, in fondo, che quando un autore finisce per raccontare qualcosa che ben conosce, imbocca una sorta di corsia preferenziale rispetto a chiunque sia "dall'altra parte".
E non è un caso che i miei favoriti - i cosiddetti "fordiani" - siano tutti legati a questi concetti, da Eastwood - il rapporto tra padri e figli - a Cash - il conflitto tra la parte oscura e quella sacra -, da Nesbo - il fascino della dipendenza e la presenza per chi amiamo, sempre e comunque - a persone portate sullo schermo ma assolutamente reali - il Jean Dominique di The agronomist -.
Jonathan Demme, che firmò lo straordinario documentario appena citato, portò sullo schermo anche uno dei grandi Capolavori del Cinema USA moderno, Il silenzio degli innocenti: e perfino lì, in quella cella, o nell'agghiacciante telefonata che chiudeva la pellicola, si finiva quasi per empatizzare con il genio terrificante di Hannibal Lecter.
Come nella camminata claudicante divenuta fiera di Kaiser Soze.
O nella follia innevata di Tony Montana.
Tutti i grandi "cattivi" finiscono, in qualche modo, per affascinare almeno una piccola parte del "cattivo" che è in noi.
L'unica eccezione che ho potuto riscontrare nel corso della mia vita è rappresentata da Grenouille, protagonista indimenticabile dell'altrettanto indimenticabile Il profumo di Patrick Suskind, uno dei romanzi più importanti della mia storia di lettore e, probabilmente, uno dei dieci che porterei su un'isola deserta: le vicissitudini dell'assassino alla ricerca del profumo perfetto evocano ancora oggi immagini straordinarie, nonostante, ai tempi, per la prima volta mi accorsi del desiderio irresistibile di prendere le distanze da quel main charachter così rivoltante e disgustoso, tanto da comprendere il fastidio che lo stesso finiva per generare negli altri che incontrava pagina dopo pagina.
Dan Gilroy, al suo esordio dietro la macchina da presa - non proprio giovanissimo, considerata la classe cinquantanove -, è riuscito a farmi sentire per la seconda volta in quel modo con una sicurezza ed una padronanza del mezzo cinematografico spaventose, talmente salde da far dubitare non solo dell'esistenza di un concetto di fiction, ma di materializzare quello di giornalismo - ovvero cronaca dei fatti, non partecipazione - sostituendo, di fatto, con esso la magia del Cinema.
Lo sciacallo è un film profondamente odioso e disturbante, grottesco e caricaturale, forse perfino troppo facile nella cinica crudeltà di certi passaggi - i confronti tra Lou ed il suo aiutante Rick, l'ascesa dello stesso Lou -, che molto probabilmente non amerò mai e poi mai come un altro grande ritratto in notturna di L. A., Collateral, fotografato altrettanto bene eppure gelido come una scossa dritta nel cervello avendo ingoiato un boccone troppo grande di gelato, eppure a suo modo indimenticabile, rispetto alla stagione che volge al termine.
E dalla strepitosa performance di Jake Gyllenhaal - mai così bravo e diverso dalle sue incarnazioni precedenti, capace di rendere alla perfezione il lato quasi psicopatico, e non solo voyeuristico del suo personaggio, in bilico tra composta e falsa cortesia ed aggressività da predatore - a sequenze da brividi - l'inseguimento per le strade nel finale -, tutto pare ricondurre ad un'unica, terribile conclusione: Lo sciacallo non è Cinema, non è cuore, non è quella scintilla, ma resta e resterà clamorosamente grande.
Da fan del lato oscuro e da persona pronta spesso e volentieri a farsi tentare dallo stesso, onestamente non sono felice che sia così: perchè sapere che esistono pellicole come questa, in giro, e che in qualche modo finiscono per fotografare la realtà, riesce a fare paura più di qualsiasi horror.
Nello sguardo oltre la macchina di Lou che s'incrocia con quello del killer appena uscito dall'auto ribaltata c'è l'incontro di due predatori, neanche fossimo nel cuore della giungla (urbana) della vita: uno stringe una pistola, è coperto di sangue, è senza dubbio un carnivoro, ed aggredisce qualunque cosa rappresenti per lui un ostacolo, mantenendo il suo status di leone alfa; l'altro brandisce lo strumento principe della comunicazione moderna, vive tra le ombre, mangia quello che gli conviene mangiare, e quando vede un ostacolo, tiene ben salde le zampe che gli permetteranno di saltare all'ultimo secondo, da buono sciacallo.
Uno ha il cuore, pur se nero. L'altro no.
Uno scaglia fulmini e saette dalla sua arma, l'altro illumina il mondo che vuole sia mostrato al mondo per poterlo indirettamente controllare.
"Al mondo ci sono due tipi di uomini: quelli che hanno la pistola e quelli che scavano. Tu scavi.", recitava Eastwood in Il buono, il brutto, il cattivo.
Ma quello è Cinema.
Lo sciacallo è più simile a quello che troviamo quando le luci si spengono, usciamo dalla sala e veniamo vomitati nel mondo.
Niente più sogni.
Due predatori.
Chi pensate avrà vinto?




MrFord




"Straight out of hell
one of a kind
stalking his victim
don't look behind you
nightcrawler
beware the beast in black
nightcrawler
you know he's coming back
nightcrawler."
Judas Priest - "Nightcrawler" - 




 
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