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mercoledì 7 febbraio 2018

The Post (Steven Spielberg, UK/USA, 2017, 116')




Steven Spielberg è uno dei registi cui ho più voluto bene nel corso degli anni della mia formazione da cinefilo: emblema del Cinema americano nel senso più pieno e "meraviglioso" del termine, dalla fantascienza all'avventura, dalla malinconia alle risate, dal dramma alla commedia, il papà di E.T. è stato una delle certezze sulle quali ho costruito l'amore per la settima arte a stelle e strisce, in barba a tutti i radical che per partito preso ancora oggi la osteggiano.
Peccato che, nel corso degli anni, complici forse il compiacimento ed alcune scelte discutibili, anche lui sia incappato in una serie di pellicole davvero difficili da giudicare per chi l'ha amato: il primo passo lungo questo funesto cammino fu compiuto, per quanto mi riguarda, dal terribile La guerra dei mondi, girato al servizio del divismo di Cruise - che pur è uno dei miei favoriti - nella sua accezione peggiore, per continuare con produzioni di una retorica vomitevole - War Horse -, di una noia mortale - Lincoln - o, più semplicemente, brutte - Il GGG -.
Alle spalle la discreta prova de Il ponte delle spie e con all'orizzonte il potenziale cult che potrebbe essere Ready Player One, lo Stefanone porta in sala una pellicola dal sapore New Hollywood accolta molto bene in patria e pronta a dare battaglia su più di un fronte alla prossima Notte degli Oscar, contando su una solida base tecnica ed un gruppo di veterani decisamente nei favori dell'Academy, da Tom Hanks a Meryl Streep.
Come se non bastasse, sulla carta The Post tocca tematiche molto stimolanti per il sottoscritto, dall'indagine giornalistica alla storia vera, passando per la lotta per la libertà di stampa, uno dei diritti fondamentali della società civile: eppure, lo ammetto, sono uscito dalla visione, purtroppo, frastornato da una freddezza e da una noia di fondo decisamente troppo pesanti per poter considerare questo lavoro come una prosecuzione del cammino del già citato Il ponte delle spie.
Rispetto, infatti, ad un'opera come L'ora più buia - ascrivibile alla stessa tipologia di prodotti quasi pensati per l'Academy -, l'apporto emozionale di The Post è paragonabile a quello di una lastra di ghiaccio sulla quale organizzare un bel giaciglio di fortuna in una serata d'inverno, non proprio il luogo più piacevole in cui si desidererebbe trascorrere una notte in questo periodo dell'anno: senza, dunque, mettere in discussione l'impianto tecnico e scenico, ho finito per considerare The Post come una sorta di versione molto in minore di pellicole di riferimento come Tutti gli uomini del Presidente, un tentativo fuori tempo massimo di presentare un Cinema "di denuncia" che risulta, però, anacronistico rispetto ai tempi e poco simpatico rispetto a tutto il pubblico nato dopo l'epoca in cui si sono svolti i fatti narrati, e forse perfino a quelli che l'hanno vissuta.
Certo, il cast pare un ingranaggio oliato in tutte le sue parti, montaggio, fotografia e ricostruzione sono impeccabili, la forma confezionata nel miglior modo possibile, eppure non solo manca una vera e propria escalation, o una scena madre che rappresenti l'apice della pellicola, ma il tutto assume i connotati della mera operazione stilistica priva di qualsiasi necessità di raccontare una storia che, anche a fronte di spunti interessanti, finisce per ammazzare la storia stessa.
Per essere, dunque, un racconto - o un resoconto, considerato che parliamo di reali accadimenti - costruito per esaltare la libertà di espressione, opinione, stampa e pensiero, l'impressione che ho avuto è stata quella di un esercizio di stile controllato e precisino - non nel senso buono -, di quelli che i secchioni della classe portano a termine per compiacere il professore di turno.
E questo non è certo combattere il Potere come fecero gli uomini e le donne mostrati in questo film.



MrFord



martedì 3 ottobre 2017

Fargo - Stagione 3 (FX, USA, 2017)





Ricordo ancora molto bene la sensazione che mi diede la citazione che chiude Se7en, cultissimo anni novanta targato Fincher che ancora oggi rappresenta un riferimento per il thriller: "Il mondo è un bel posto, e vale la pena lottare per esso. Sono d'accordo solo con la seconda parte.".
Il vecchio Somerset aveva proprio ragione.
Trovarmi di fronte all'immagine - tra le più belle di questa terza stagione - del vice sceriffo Burgle che cerca di spiegare al figlio l'omicidio del nonno preservando il più possibile l'innocenza del ragazzino rispetto ad un mondo in cui è il Male a farla da padrone è stato un brivido pronto a fare da coronamento all'ennesima, grande stagione di una delle realtà da piccolo schermo più interessanti degli ultimi anni: Fargo.
Per la prima volta completamente indipendente, location escluse, dagli eventi che avevano caratterizzato le due stagioni precedenti - legate tra loro da un paio di personaggi presentati in diverse epoche -, la proposta nata come "spin off" del film dei Coen continua ad analizzare quello che è l'abisso offerto dalla predatorietà dell'essere umano, l'importanza - nel bene e soprattutto nel male - della casualità e del destino, la lotta che gli outsiders devono condurre ogni giorno per poter anche soltanto sperare di sopravvivere nella giungla di belve che li aspetta una volta varcata la soglia di casa.
Sono molte, in quella che, ad una prima e superficiale occhiata, potrebbe suonare come la stagione meno incisiva di questa straordinaria proposta, le sequenze che non si dimenticano facilmente, supportate da una galleria di personaggi strepitosa: dalla Burgle, donna di legge, "invisibile" ed outstider - stupenda la sequenza che chiude la personale faida dell'agente con le fotocellule dei lavandini - al gigantesco Varga - uno dei cattivi più disturbanti del passato recente, interpretato alla grande da David Thewlis -, passando per i due fratelli Stussy - bravo anche il buon Ewan McGregor, impegnato in una doppia parte solo apparentemente semplice -, la stupenda Swango - per quanto mi riguarda, idolo sexy di questo duemiladiciassette cui presta volto e corpo come fosse un ruolo dipinto su di lei Mary Elizabeth Winstead - ed i due sicari, che ispirano momenti magici come l'episodio legato a Pierino e il lupo e portano la bandiera di una serie di comprimari assolutamente perfetti - dal socio di Emmit al racconto legato al passato del patrigno scrittore della Burgle - tutto il cast of charachters finisce non solo per rendere alla grande i concetti che gli sceneggiatori - strepitosi - vogliono portare sullo schermo, ma anche per trasformare una galleria della fatalità e del grottesco in uno specchio nel quale - come era già accaduto con le stagioni precedenti - ogni spettatore finisce per fare i conti rispetto alla sua natura umana.
In questo senso, è più colpevole il predatore che caccia conscio del suo ruolo e della sua pericolosità o l'opportunismo di chi cerca di cogliere il maggior profitto possibile da qualsiasi occasione?
Ed è più malvagio essere malvagi o pensare senza alcun ritegno alla propria sopravvivenza?
Nessuno finisce per avere premi, ed il gioco si conclude con una scommessa che gli autori paiono voler passare come una patata bollente al pubblico: in questa grande caccia, quando si aprirà l'ultima porta, chi avrà avuto ragione?
Una questione quasi di fede inserita in un contesto assolutamente reale e vivo, di quelli che, purtroppo, tra le pagine della cronaca nera si possono incontrare ogni giorno e che sono la fotografia di quello che, in misura minore o maggiore, o semplicemente con più o meno evidenza, ognuno di noi porta nel mondo ogni giorno: chi entrerà, da quella porta?
A quale destino andranno incontro i due opposti che attendono possa aprirsi?
Probabilmente, io che sono cattivo ma non abbastanza, finirei dritto dritto sull'asfalto di qualche strada sperduta, come in un duello da vecchio film Western, o a compiere una vendetta che sentirei come giusta.
Dunque non avrei la possibilità di vederla, quella porta mentre si apre.
E se è vero che il mondo non è un bel posto, ma che vale la pena di lottare per esso, allora fanculo.
Io so già chi voglio veder comparire.



MrFord



 
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