Visualizzazione post con etichetta Asif Kapadia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Asif Kapadia. Mostra tutti i post

lunedì 4 aprile 2016

Amy

Regia: Asif Kapadia
Origine: UK, USA
Anno: 2015
Durata:
128'









La trama (con parole mie): dai filmini girati con gli amici ai tempi dell'adolescenza alla parabola che la vide passare dall'essere una promettente cantante jazz riconosciuta anche dai veterani dei più elitari locali londinesi ad un'icona pop globale, dal rapporto con il primo manager a quelli più discussi e problematici con il marito ed il padre, un ritratto di Amy Winehouse, forse la voce femminile più clamorosa che la Musica abbia conosciuto negli Anni Zero - e non solo -.
Un'artista disequilibrata e vitale, schietta e vulnerabile, pronta a divorare i palchi ma anche, ed inesorabilmente, a farsi distruggere da una fama sempre più grande e sempre più pesante da sopportare per spalle che, con ogni probabilità, avrebbero avuto bisogno di un supporto più adeguato di quello che hanno avuto.
Da Londra agli States, al mondo intero, uno sguardo a quella che era la donna oltre i rotocalchi, i gossip, l'alcool e le droghe. E oltre la sua morte.













Da appassionato di Musica, pur non essendo un suo fan sfegatato - più per genere, che per talento -, ho adorato Amy Winehouse dalla prima volta in cui sentii la sua voce: senza dubbio, inoltre, l'idea di portare il jazz - o qualcosa che lo ricordasse - all'interno della cultura pop aveva qualcosa di affascinante e magico, anche e soprattutto grazie ad un personaggio che vestiva i panni della star "maledetta" come un guanto, e con una semplicità che, stranamente per il sottoscritto, non dava l'impressione di essere finta o costruita.
Ricordo bene anche quando venni a sapere della sua morte, e di quanto mi colpì nonostante non si trattasse di uno dei miei idoli, quasi avessi la sensazione che il mondo delle sette note avesse perso un tesoro prezioso, qualcosa che avrebbe potuto cambiare molti destini se il Destino, le scelte e le casualità non si fossero messe in mezzo.
E' curioso anche come, nel corso della visione del buon documentario di Asif Kapadia - già apprezzato da queste parti per Senna -, il pensiero sia più volte andato a Montage of Heck, dedicato ad un'altra delle grandi icone del circolo dei ventisettenni Kurt Cobain: non tanto per l'approccio o la qualità dell'opera - diverso il primo, interessante in entrambi i casi la seconda -, quanto per la diversità, nonostante tutto, che a mio parere corre tra questi due personaggi così importanti per la Musica e le rispettive generazioni.
Se, infatti, Cobain ha sempre mostrato - e dimostrato - di essere totalmente distruttivo - fino a superare di gran lunga la detestabilità -, Amy Winehouse, anche grazie a questo film, pare più un bellissimo uccellino tenuto in gabbia non solo da un sistema e dal successo - probabilmente troppo pressanti per una persona così fragile -, ma anche da un entourage che potrebbe essere considerato colpevole della sua morte neppure si trattasse di un omicidio, dal grande amore e marito Blake al padre Mitchell.
In particolare, e da genitore, ho finito per risultare clamorosamente colpito - in negativo, ovviamente - dall'influenza che quest'ultimo pare aver avuto sulla star nella parte conclusiva della sua carriera, ed in più occasioni mi sono chiesto come fosse possibile, per un padre, pensare di mettere obblighi contrattuali milionari davanti alla salute - fisica o mentale che fosse - della propria figlia, alla quale, peraltro, deve non solo la notorietà, ma anche la ricchezza.
O forse, tristemente, per queste.
Allo stesso modo, è proprio nelle eminenze grigie dell'esistenza e della carriera di Amy Winehouse che, a mio parere, Kapadia finisce per lanciare il sasso e ritrarre la mano, forse unico e più grande difetto di un lavoro senza dubbio ottimo in termini "bibliografici", quasi come se al regista fosse mancato il coraggio per calcare più la mano sulle possibili responsabilità di alcuni dei più fidati consiglieri della cantante rispetto alle scelte che l'hanno, di fatto, lavorata ai fianchi fino a farla crollare definitivamente, privando la Musica ed il pubblico di tutto il mondo di una voce ed un personaggio unici e straordinari.
D'altro canto, il merito di questo documentario sta senza dubbio nell'aver mostrato anche a tutti coloro che avessero conosciuto la Winehouse solo come l'ennesima fattona incapace di portare a termine i concerti da gossip la grande naturalezza, lo spessore e l'ammirazione suscitata in amici - quelli veri - e colleghi dalla stessa: per quanto possa suonare strano, infatti, per persone normali con lavori normali, abituate a ritmi tutto sommato normali, un'esposizione mediatica come quella che vide protagonista Amy Winehouse è tutto fuorchè ordinaria, e la capacità di affrontarla non è commisurata, umanamente parlando, dal denaro e la fama.
Non tutte le stelle, infatti, sono fatte per il firmamento.
C'è semplicemente e senza giri di parole, chi non ce la fa pur avendocela fatta agli occhi di milioni e milioni di persone: la differenza, per quanto mi riguarda, in questi casi, sta nella voglia e nella passione che chi di fatto perde comunica.
Ed in questo, Amy Winehouse non mi ha lasciato alcun dubbio.





MrFord





"We only said goodbye with words
I died a hundred times
you go back to her
and I go back to..."
Amy Winehouse - "Back to black" - 





giovedì 1 maggio 2014

Senna

Regia: Asif Kapadia
Origine: UK, Francia
Anno: 2010
Durata:
106'





La trama (con parole mie): il primo maggio millenovecentonovantaquattro moriva tragicamente in pista, a Imola, uno dei più grandi campioni della Storia della Formula 1, Ayrton Senna.
Talentuoso, amatissimo, controverso, noto per la storica rivalità con Alain Prost, che portò il grande circo dei motori dagli anni ottanta ai novanta, e traghettò il pubblico dall'epoca delle drammatiche morti sui circuiti a quella del controllo che sancì l'inizio dell'era di Schumacher.
Le gesta del fuoriclasse brasiliano, dai tempi dei kart ai tre titoli mondiali, raccontate attraverso le immagini delle vittorie e delle sconfitte più importanti della vita di un uomo combattuto tra Fede e Ragione, passione e dedizione, modestia e spirito di competizione. E del segno che lasciò in uno Sport, in un Paese e nel mondo.







Ricordo bene, il primo maggio millenovecentonovantaquattro.
Stavo finendo il primo anno di superiori, e mi portavo ancora dietro e dentro l'eredità di una fanciullezza che avrei pagato cara almeno fino al terzo: i miei compagni di classe piangevano ancora la morte di Kurt Cobain, mentre io mi perdevo dietro una delle più grandi passioni che coltivai per tutta l'infanzia, la Formula Uno.
Da amante degli outsiders, fin dalle elementari e dalle improbabili sveglie in notturna per seguire il Gran Premio del Giappone tifavo con tutto il cuore le Benetton, che con il loro verde ed i piloti di fascia medio bassa mi conquistarono fin da subito: e detestavo i campionissimi come Prost e Senna, sempre in pole position, con le vetture migliori ed il talento pronto a sprizzare da ogni poro.
Mi pareva che tutto fosse troppo facile, per quelli come loro.
Semplice, pensavo da Goonie, essere sempre il primo della classe.
Ma la vita riserva sempre sorprese.
E il Destino è beffardo.
Così quel primo maggio Senna, conquistando la pole position in un weekend di prove maledetto - l'incidente terrificante di Barrichello, quello fatale di Ratzenberger - si impose come il favorito davanti al giovane di belle speranze Michael Schumacher, astro nascente dei motori, proprio al volante di una delle "mie" Benetton, divenute paradossalmente le vetture da battere: alla partenza un altro incidente da paura portò la safety car in pista e la gara su binari che nessuno si sarebbe aspettato - e che sarebbero stati, purtroppo, il preludio di uno dei GP più drammatici di sempre -, come quelli che condussero - in circostanze, purtroppo, mai chiarite completamente - Senna ad uscire alla massima velocità alla curva del Tamburello, giudicata come una delle più semplici da affrontare del circuito per un pilota del suo calibro.
Dritto per dritto, un impatto pazzesco contro il muro prima di carambolare di nuovo al lato della pista.
Ero in camera mia, di fronte alla televisione, ai tempi, e da subito intuii che qualcosa di grave era in atto guardando la testa reclinata sul lato sinistro dell'abitacolo dell'asso brasiliano che così fortemente, e per anni, avevo detestato.
Ricordo anche bene i titoli dei giornali il giorno successivo, i processi, le domande, il lavoro sulla sicurezza che da quel giorno venne svolto in modo da evitare che si ripetessero weekend come quello del maledetto Gran Premio di San Marino.
Clint Eastwood, nel suo Capolavoro Million dollar baby, ricorda fin dal principio quanto nell'Uomo sia presente il desiderio di accostarsi alla violenza, al brivido che corre lungo la schiena nel momento in cui l'adrenalina pompa, e le emozioni si moltiplicano: per i piloti che rischiano la vita alla guida di vetture lanciate a trecento all'ora ed il pubblico che, nonostante le apparenze, spera sempre nell'incidente spettacolare e possibilmente mortale pronto a scuotere le coscienze anche dei non appassionati e far sgranare gli occhi.
Il vecchio medico della Federazione amico del campione, Syd Watkins, proprio in occasione della vigilia della gara che sarebbe finita in tragedia, testimonierà di aver chiesto a Senna il perchè della sua voglia di continuare a correre, essendo già stato incoronato campione per tre volte ed avere, di fatto, una vita davanti, magari per dedicarsi alla pesca, e alla tranquillità: alla vigilia della morte, il fuoriclasse risponderà, semplicemente, che non può farlo.
La forza della passione.
Sono passati vent'anni, e mi rendo conto di aver parlato davvero poco del bellissimo documentario firmato da Asif Kapadia, quanto più dei ricordi che io stesso ho accumulato di quell'evento fondamentale per la Formula Uno, che ora come ora seguo molto meno e che spero di tornare a vivere con la stessa intensità di allora, magari accanto al Fordino, che mostra una certa passione per le macchinine: la morte di Senna, infatti, innescò un giro di vite che, se da un lato e per il dispiacere di molti - o tutti? - annullò o quasi i rischi di questa disciplina diminuendone, di fatto, la percentuale di spettacolarità, portò a quella che, ad oggi, è l'ultima morte documentata di un pilota del più importante circo di motori del mondo, con la sua politica, i suoi soldi, e le sue leggi scritte o non scritte.
Se fossi un uomo di Fede, come Senna, potrei quasi affermare che il suo Destino era proprio questo.
Un sacrificio in nome di qualcosa che avrebbe preservato le vite di decine di altri come lui negli anni a venire.
Ma non lo sono.
Sono un uomo di profonde passioni.
E di fronte alle dichiarazioni che chiudono il documentario, e al ricordo di Senna del suo esordio europeo nel mondo dei kart, lontano dai riflettori e dai giochi di potere, dalle rivalità e dalle sponsorizzazioni, o di un intera nazione commossa dalla morte di un simbolo per tutti i suoi figli, ricchi o poveri che fossero, e alla velocità, non posso che porgere omaggio.
Neanche fossi Prost, e non mi sognerei di esserlo neanche per sbaglio.
Io sono solo un Goonie.
Ma non credo che Ayrton, con tutto il suo talento, il denaro ed il successo, potesse affrontare la vita e le sue conseguenze con tanti più mezzi di quanti ne possa avere io, che da qualche mese sono diventato più vecchio di quanto lui sia mai stato, o potrà mai essere.
Spero solo che la sua gara - considerato che avrebbe voluto una vita più lunga della sua carriera da pilota - sia valsa la pena quanto lo è valsa per i milioni di tifosi che ancora oggi invocano quel nome come un'ancora di salvezza.




MrFord




"E ho deciso una notte di maggio
in una terra di sognatori
ho deciso che toccava forse a me
e ho capito che Dio mi aveva dato
il potere di far tornare indietro il mondo
rimbalzando nella curva insieme a me
mi ha detto "chiudi gli occhi e riposa"
e io ho chiuso gli occhi."
Lucio Dalla - "Ayrton" - 





Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...