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martedì 9 gennaio 2018

Coco (Lee Unkrich&Adrian Molina, USA, 2017, 105')




Credo che il momento esatto in cui decisi di farla finita con la religione, le credenze e quant'altro fu quello del funerale del mio nonno materno, lo stesso cui devo la passione per il Western ed il Cinema, accanto al quale vidi i primi incontri di wrestling, e che ancora oggi, avendo vissuto più anni senza di lui che con lui, avrei voluto avere accanto per raccontargli un sacco di cose, e ancora di più farmene raccontare.
Il giorno prima, nell'obitorio dell'ospedale, rimasi accanto al suo corpo per qualche minuto, da solo.
Toccando quella pelle fredda non mi pareva ci fosse più traccia dell'uomo con il quale avevo giocato a carte migliaia di volte, reduce della Seconda Guerra Mondiale, che non lasciava passare nulla a nessuno tranne a me e mio fratello.
Quel giorno misi nella tasca della giacca che l'avrebbe accompagnato per l'ultimo viaggio due biglietti, uno con una mia poesia ed un altro con una citazione legata alla Grecia antica: "L'immortalità sta nel ricordo di chi ci ha amati".
Una frase decisamente vera, nel senso che chi ci resta nel cuore fino alla fine, e nei ricordi, di fatto accompagna anche noi per quello che trasmettiamo al mondo e per quello che ci porteremo nell'ultimo, grande sonno.
Ieri, invece, per preparare il Fordino alla visione di Coco e raccontagli il senso dietro al Dia de las muertos, ho fatto presente per la prima volta che, quando toccherà a me, vorrei che lui e sua sorella organizzassero una grande festa, con musica, alcool e più casino possibile: per quanto mi riguarda, un funerale dovrebbe essere la celebrazione della vita di una persona, e non una cosa triste come quella cui assistetti quel giorno del settembre del novantasette.
Io non ci sarò per ovvi motivi, ma mi piace pensare che possano esserci loro, e godersela anche per me, magari raccontando aneddoti come ora io scrivo di mio nonno, e ricordo piccole cose che restano mie, e che nessuno potrà portarmi via.
Attraverso la visione di Coco, che pure è lineare e semplice, quasi prevedibile, ho avuto la fortuna di poter rivivere e provare emozioni da entrambi i lati di un'invisibile barricata, che passa da quando, piccoli, affrontiamo per la prima volta la perdita, o da adulti, quando capiamo di essere in procinto di passare il testimone, ed il pensiero non è più quello di ambire a chissà quale aldilà, ma al ricordo di chi viene dopo di noi.
L'ultimo film targato Pixar, sicuramente non geniale ai livelli di Inside out ma emotivamente potente quanto Up!, a prescindere dalla linearità della sceneggiatura o dalla meraviglia visiva, è un pozzo profondo, come canterebbe De Andrè, all'interno del quale ognuno si può specchiare, a diverse età della vita: nella fila davanti alla nostra avevamo una famiglia con i genitori di una decina d'anni più vecchi di noi e tre figli, che commentavano le canzoni o ridevano per i momenti più divertenti; ho sentito la bambina più grande, probabilmente in età da scuole medie, chiedere al padre se stava piangendo di fronte ad una delle sequenze più commoventi della pellicola, e poi abbracciarlo prima dell'uscita, stretta, a luci accese, come se fossero nel salotto di casa.
Allo stesso tempo, cercando di resistere alle lacrime, avevo il Fordino appoggiato ad una spalla, perso nei colori degli animali volanti del "mondo degli scheletri" e la Fordina che mi saltava sulle gambe, e pensavo a quanto capivo Coco, e soprattutto suo padre.
Questo, prima di tutto, è il bello di questo ennesimo miracolo Pixar: la semplicità.
Ognuno di noi ha vissuto la perdita. Ognuno porta nel cuore i ricordi di qualcuno che vivrà per sempre con lui. Siamo stati bambini pieni di sogni e adulti con il desiderio di essere ricordati.
Io ho chiuso con credenze e religioni il giorno del funerale di mio nonno, ormai più di vent'anni fa.
E ho cominciato a credere nel vivere, il più profondamente possibile per le possibilità che ognuno di noi ha. E quando arriverà il momento di chiudere i conti, celebrare la vita di chi non tornerà più da queste parti. Perchè è questo che ha fatto. Vivere. La cosa più bella che si possa immaginare.
E l'unica che ci garantisca dei ricordi.
Coco parla dell'importanza di quei ricordi.
E della festa che meritano.




MrFord



 

martedì 21 aprile 2015

I cavalieri dello zodiaco - La leggenda del Grande Tempio

Regia: Kei'ichi Sato
Origine:
Giappone
Anno:
2014
Durata: 93'





La trama (con parole mie): Micene, cavaliere della costellazione del Sagittario, porta in salvo dal Sommo Sacerdote del Grande Tempio una neonata che potrebbe rivelarsi l'incarnazione della Dea Atena, con l'intento di proteggerla dalle mire dello stesso.
Nel tentativo perde la vita, ma non prima di aver affidato la piccola ad un miliardario che non solo se ne prenderà cura, ma avrà modo di radunare un gruppo di ragazzi destinati a divenire i suoi guardiani, i cavalieri di bronzo: Pegasus, Sirio, Phoenix, Crystal e Andromeda.
Sedici anni dopo, quando la fanciulla si rivelerà per quello che è in realtà, Arles, lo stesso Sommo Sacerdote, cercherà con ogni mezzo di concludere la missione iniziata così tanto tempo prima: toccherà dunque ai giovani cavalieri attraversare le dodici case dello zodiaco affrontando le loro controparti d'oro per salvare la giovane Dea che hanno giurato di proteggere.








Ricordo ancora quando, nell'anno in cui finii le elementari - parliamo, dunque, della primavera del novanta -, una nuova serie animata scosse l'immaginario del sottoscritto e del mio gruppo di amici del parco, tanto da indurci ad abbandonare le consuete partite di calcio per giocare impersonando i protagonisti di quella stessa serie: i Cavalieri dello zodiaco.
Fu il primo anno in cui faticai ad andare in montagna con i miei nonni materni come era consuetudine per i mesi estivi, ed ebbi nostalgia di quelle sessioni di gioco improvvisate tra riproposizione degli scontri e scontri veri - ricordo ancora una "rissa" tra i due che impersonavano Pegasus e Crystal -, scambi di idee ed opinioni che erano, di fatto, delle sorte di "recensioni" in fieri.
Ai tempi - ed ancora oggi, nonostante sia sicuramente più impostato di quanto io non sarò mai - il mio favorito era Sirio il Dragone, di fatto quello, tra tutti, sempre pronto ad allargare le spalle e tirare la carretta in modo da concedere la gloria al tanto detestato Pegasus, che era davvero troppo protagonista per potermi davvero piacere.
Anche se non ci conoscevamo ancora, Julez visse quegli anni con la stessa passione - ed una predilezione per Andromeda - del sottoscritto, e da quando ci conosciamo più volte abbiamo accarezzato l'idea di rivedere l'intera serie animata, magari in compagnia del Fordino appena sarà un pò cresciuto: nel frattempo, all'uscita di questo film, l'esaltazione è salita alle stelle, tanto da spingerci ad un recupero che sapevamo rischioso per allietare un pò l'attesa.
Peccato che, per gli appassionati come noi, a prescindere dall'ottimo comparto tecnico in stile Final fantasy, concentrare la saga delle dodici case - forse la più intensa dell'intera serie - in un'ora e mezza scarsa finisce per svilire la saga stessa, rendendola tagliata con l'accetta e molto frettolosa, oltre che non rispettosa di quelli che erano i ruoli originali - troppo marginale l'apporto di Phoenix e Virgo, due vere e proprie colonne del cult della nostra infanzia, assurda la scelta di risparmiare Capricorn, uno dei cattivi più interessanti, o di gettare al vento Pesci, che fece da anticamera al confronto di Pegasus ed il Grande Sacerdote -: un vero peccato, perchè la caratterizzazione di alcuni personaggi - come lo stesso Pegasus, o Andromeda, e l'esibizione in stile musical creepy di Cancer - funziona, e come giustamente ha finito per sottolineare la signora Ford, con tutte le porcate da due ore e mezza che negli ultimi anni hanno intasato le sale, si poteva rischiare un minutaggio più ampio in modo da garantire anche una resa migliore.
Poco azzeccata anche la scelta di utilizzare la chiusura dell'elmo delle armature, che rende i cavalieri in azione più simili a cyborg e robottoni che non ai combattenti cui eravamo abituati, e che rende distante questo prodotto dalle vecchie generazioni di fan della serie: certo, i neofiti potranno comunque apprezzare, ma considerato che, di norma, questo tipo di pellicole vengono realizzate su misura per i fan hardcore, temo che il bersaglio grosso sia stato mancato, e di parecchio.
Restano comunque la piacevole sensazione di aver viaggiato nel passato, e l'esaltazione per i colpi che, ormai venticinque anni fa, imitavamo con pathos al parco.
E per questa volta, ce li faremo bastare.




MrFord




"Invincibili guerrieri
valenti condottieri
votati anima e corpo a Lady Isabel
per diventare "santi"
per esser cavalieri
han sostenuto prove di rara crudeltà
ma ormai è giunto il momento
chi vincerà l'armatura d'oro."
Odeon Boys - "I cavalieri dello zodiaco" - 




mercoledì 19 novembre 2014

Jersey Boys

Regia: Clint Eastwood
Origine: USA
Anno:
2014
Durata: 134'






La trama (con parole mie): nel cuore del Jersey della mala e della tradizione di origine italiana, Tommy De Vito accoglie, nel pieno dell'epoca d'oro a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta il giovane e promettente cantante - nonchè parrucchiere - Frankie Valli nel suo gruppo, con la speranza di trasformare in una professione effettiva la passione che guida lui ed i ragazzi che non vorrebbero dover scegliere tra una carriera criminale ed una da cittadino qualsiasi.
Quando Bob Gaudio, compositore e strumentista, entra nella band ed inizia il sodalizio creativo con Frankie, le cose cambiano: puntando il tutto per tutto su un nuovo nome, i giovani cantanti danno inizio ad una carriera che li condurrà dritti alla Hall of fame del Rock un successo dopo l'altro.
Ma il prezzo dell'immortalità e della fama dei Four Seasons sarà almeno in parte alto: le strade dei suoi quattro componenti, infatti, finiranno per prendere binari così diversi da dubitare che possano aver mai davvero costituito un gruppo.








Nel corso delle ultime stagioni cinematografiche, l'appuntamento con le nuove produzioni firmate dall'idolo fordiano Clint Eastwood è sempre stato un must per il quale annullare impegni e precipitarsi in sala, spinto dalla curiosità rispetto a quello che sarebbe stato il lavoro dietro e davanti alla macchina da presa del "texano dagli occhi di ghiaccio".
E in fondo, da Gran Torino ad Invictus, fatta eccezione per Changeling - che, per quanto ben realizzato, è stato l'unico film del vecchio Clint a non conquistarmi particolarmente -, tutto si è sempre concluso con un vero e proprio sentimento di ammirazione per questo grande Maestro del Cinema USA, il John Ford dei nostri tempi, un assetato di esperienza e di vita pronto a mettersi in gioco ogni volta come fosse la prima: rispetto a Jersey Boys, tratto da un musical di grandissimo successo a Broadway ispirato alla carriera ed alla vita di Frankie Valli, il timore di trovarsi di fronte  ad una sorta di progetto su commissione ha finito per prolungare oltre misura l'attesa, quasi temessi di affrontare una nuova esperienza come quella legata al già citato Changeling.
E, devo ammetterlo, almeno per i primi venti minuti di pellicola, ho temuto che potesse essere davvero così: Eastwood, ormai, muove la macchina come pochi altri, e conosce benissimo il suo mestiere, arrivando a confrontarsi anche con generi lontani da quelli che lo hanno formato riuscendo a settare standard qualitativi altissimi, scomodando paragoni con grossi calibri che, almeno sulla carta, dovrebbero a dispetto dell'età e per esperienza da cineasti metterlo comunque all'angolo - come Martin Scorsese, al quale lo "spietato" Clint pare essersi ispirato parecchio per la messa in scena di questo lavoro -, eppure l'impressione che si trattasse di un'operazione commerciale della Warner dirottata sulla mano esperta di Eastwood dopo il naufragio del primo progetto che avrebbe dovuto essere firmato da Jon Favreau era davvero ingombrante, almeno per il sottoscritto.
Ma l'ex pupillo di Siegel e Leone - che si concede perfino un'autocitazione dei tempi di Rawhide - sa come gestire il Tempo, e dunque, senza fretta, sequenza dopo sequenza, finisce per impadronirsi di una materia senza dubbio non sua - quella del musical - sfruttando l'esperienza recente nell'ambito del biopic - J. Edgar - ed omaggiando la Hollywood dei Grandi Studios con una classe impareggiabile, concedendosi nella seconda parte un crescendo clamoroso sia dal punto di vista della narrazione, sia rispetto alla profondità della riflessione sul Tempo, la Famiglia, le origini ed i valori americani - ma non solo - che da buon repubblicano non ha mai nascosto di rispettare.
In un certo senso, si potrebbe associare al regista la figura del sempre magnifico Christopher Walken, che come un vero boss d'altri tempi segue, protegge e cerca di aggiustare tutte le faccende che riguardano il suo favorito Frankie, uno dei cantanti più importanti della Storia della Musica americana, interprete unico e conosciuto dal grande pubblico anche quando le canzoni hanno finito per superare la fama del loro autore - sinceramente, io stesso sono rimasto a bocca aperta nello scoprire che brani coverizzati da generazioni di band ed artisti solisti siano eredità dello stesso Frankie e dei Four Seasons -: eppure, nonostante il denaro, il successo, la fama, la vita di Valli e dei suoi compagni non è stata semplice quanto potrebbe apparire.
Ed è proprio nel momento delle difficoltà che Clint sfodera le sue zampate migliori, riflessioni sull'esistenza e sul quotidiano che, inesorabilmente, formano caratteri e vite, e sull'amicizia, sulla capacità tutta umana di vedere le cose esclusivamente secondo il proprio punto di vista, sulle cadute ed i ritorni che rendono ogni esistenza speciale, unica, degna di una grande storia e di una grande colonna sonora.
E mentre i Four Seasons cantano "Walk like a man", Eastwood prende per mano lo spettatore e racconta cosa sono la crescita, la voglia di imparare sulla propria pelle e dai propri errori e quella di raccontare, di tramandare, di lasciare qualcosa a qualcuno - che si spera siano i propri figli -, il coraggio di accettare le sconfitte ed alzarsi, sempre, con la testa alta ma ugualmente pronti ad inchinarsi per ringraziare di quello che abbiamo avuto e chi ci sta, in una misura o nell'altra, applaudendo.
Ed anche di quello che, del resto è inevitabile, perdiamo lungo la strada.
Perchè siamo tutti Jersey Boys.
Qualcuno ce la fa, e qualcun'altro no.
Ma non per questo una storia - o un punto di vista della stessa - è meno importante di un'altra.



MrFord



"He said walk like a man
talk like a man
walk like a man my son
no woman's worth
crawling on the earth
so walk like a man my son."
The Four Seasons - "Walk like a man" - 




lunedì 18 novembre 2013

Amarcord

Regia: Federico Fellini
Origine: Italia
Anno: 1973
Durata:
123'




La trama (con parole mie): in una cittadina costiera romagnola nel pieno degli anni trenta assistiamo alle vicende che vedono protagonisti gli abitanti del luogo ed il luogo stesso, teatro di vite, morti, gioie e dolori, speranze e malinconie. Dalle scorribande del giovane Titta e dei suoi compagni di scuola al burbero padre del ragazzo, l'inossidabile antifascista Aurelio, passando dalle gigantesche tette della tabaccaia alle grazie della desideratissima Gradisca, con la scuola, le confessioni in chiesa, zii impazziti sugli alberi e navi enormi pronte a passare al largo della costa, un affresco di esistenze che si snoda nel corso di un anno che porta dalla fine dell'inverno all'inizio della primavera, una dichiarazione d'amore di Federico Fellini alla sua terra e ai ricordi di un tempo che, scivolando tra leggenda e vita vissuta, svanisce sollevato dal vento come i soffioni.






Scrivere di un film di Fellini è una scommessa, un azzardo, il tentativo di gettare una goccia in un oceano, neanche stessimo argomentando su un titolo di Kubrick, o Kurosawa, o Welles, o Murnau. Insomma, parliamo dei migliori.
Perchè non può essere altro, quando il riferimento è il Federico Nazionale, il più grande - a mio parere - regista italiano di tutti i tempi: e in questo caso ci ritroviamo di fronte ad uno dei manifesti dell'arte del Maestro, quell'Amarcord che riportò l'Oscar per il miglior film straniero tra le mani del regista riminese, e che, ai suoi occhi, rappresentò una dichiarazione d'amore per la sua infanzia e la terra d'origine celebrata nella parte iniziale della sua carriera ed accantonata per le sue grandi avventure romane, da La dolce vita a 8 e 1/2.
Amarcord sono le stagioni che avanzano, "gironlanz, gironzolan, gironzalon", portano per le strade delle nostre memorie semi che verranno raccolti da alberi pronti, a loro volta, a vedere altri semi crescere in altre stagioni.
Sono i turbamenti adolescenziali, gli scherzi ai professori, i conflitti con i genitori, le liti in famiglia, i primi sogni erotici nascosti a qualsiasi figura autoritaria.
Sono le piccole rivincite prese in sogno, quel luogo in cui si è piloti o condottieri, protagonisti o improvvisati visitatori di esotici harem.
Sono le imprese dei genitori, che per quanto possano sentirsi lontani dai figli faranno di tutto affinchè gli stessi possano imparare il valore di una vera Resistenza.
E' il luogo in cui si cresce, che giunge ad assumere le dimensioni mitiche di un racconto mano a mano che il tempo lo rapisce, pezzo per pezzo, sfogliando il mosaico della nostra mente.
E' un grido disperato, ironico, giocoso e malinconico, un "voglio una donna" lanciato verso l'orizzonte sempre troppo lontano.
E' la Storia, che con le sue rovine ed i suoi pezzi pone le fondamenta del futuro nato dal quotidiano.
Un sogno popolare, quello della più bella - e desiderata - del borgo e di una nave così grande che pare uscita da un film di quelli che fanno solo in America, così lontano che si riesce soltanto ad immaginare aiutati da un pò di pellicola ed immagini colorate.
Amarcord siamo noi stessi, pronti a rimbalzare nel Tempo come impazziti, cavalcando una macchina che non esiste ma che è proprio lì, di fronte a noi, a difendere i miti creati dal sentimento anche quando gli stessi finiscono per cedere alla quotidianità, a quello che è il naturale percorso che prendono, presto o tardi, le nostre esistenze: è un film profondamente autunnale e mortuario, eppure traboccante primavera, speranza, passione, voglia.
Perchè proprio questo era Federico Fellini: un calderone, come la sua straripante arte fatta di decadenza e magia, sogno e realtà, impeto e sonnecchioso magone.
Nessuno come lui seppe descrivere l'Italia della provincia, e renderla un Paese del mondo, e tutto il Mondo paese.
E non esisterebbero Underground, Gatto nero gatto bianco, Ti ricordi Dolly Bell?, il Benigni migliore, gli spunti validi di Radiofreccia, tutta la mitologia di quella riviera romagnola che ancora oggi è un mito non solo del passato, ma anche del presente e del futuro.
Perchè gli anni passano, trascinati dai soffioni nel vento, pronti a seminare nuove generazioni.
Non esistono Spring breakers, da queste parti.
Nessuno può rompere l'incantesimo, o il sogno.
E viva la madonna, meno male che è così.
Meno male che è esistito, esiste ed esisterà Federico Fellini.
Pronto a ricordarci cosa significa ricordare.


MrFord


"Viva l'Italia, l'Italia che è in mezzo al mare,
l'Italia dimenticata e l'Italia da dimenticare,
l'Italia metà giardino e metà galera,
viva l'Italia, l'Italia tutta intera.
Viva l'Italia, l'Italia che lavora,
l'Italia che si dispera, l'Italia che si innamora,
l'Italia metà dovere e metà fortuna,
viva l'Italia, l'Italia sulla luna.
Viva l'Italia, l'Italia del 12 dicembre,
l'Italia con le bandiere, l'Italia nuda come sempre,
l'Italia con gli occhi aperti nella notte triste,
viva l'Italia, l'Italia che resiste."
Francesco De Gregori - "Viva l'Italia" - 



giovedì 23 agosto 2012

Un'ora sola ti vorrei

Regia: Alina Marazzi
Origine: Italia
Anno: 2002
Durata: 55'




La trama (con parole mie): Alina Marazzi, figlia di Luisa Hoepli, una degli eredi del noto editore, ripercorre attraverso filmini di famiglia e di repertorio la tormentata esistenza della madre dall'infanzia agiata agli anni della Seconda Guerra Mondiale, dal matrimonio alla nascita dei figli fino al progressivo incedere della depressione che la portò alla morte ancora giovanissima.
Un album di ricordi che passa attraverso le parole e gli scritti della stessa Luisa, ai suoi racconti, alle gioie e al dolore della crescente consapevolezza di non poter più rimanere accanto ai suoi cari.
Un confronto generazionale ed affettivo che guarda nello specchio di chi ci ha dato la vita per ritrovare la sua presenza e comprendere la nostra.




A volte confrontarsi con un libro, un disco o un film che hanno profondamente segnato una persona che ha avuto un ruolo importante nella nostra vita diventa quasi più impegnativo di quanto potrà mai esserlo la visione - in questo caso -: Un'ora sola ti vorrei è stato un passo di questo genere.
Pellicola celebratissima dalla critica e soprattutto qui a Milano benvoluta anche dal pubblico - non solo di nicchia -, l'opera di Alina Marazzi è un piccolo gioiellino di ricostruzione e sintesi ma soprattutto grande capacità di narrazione dei sentimenti.
Senza troppo indugiare - anche se la tecnica lo meriterebbe - sull'operazione praticamente filologica portata a termine dalla regista rispetto a tutto il materiale raccolto e legato alla figura di sua madre - filmini amatoriali di famiglia, immagini di repertorio, fotografie, diari e lettere -, il vero cardine della produzione è rappresentato dal totale coinvolgimento emotivo della ricerca e dal confronto tra la Marazzi ed una madre scomparsa troppo presto perchè l'autrice, ormai divenuta donna, potesse pensare di considerarlo un vero e proprio rapporto.
Ma Un'ora sola ti vorrei non è soltanto un'operazione biografica, il bisogno di celebrare una figura fondamentale come quella della propria genitrice ed al contempo specchiarsi in lei, e confrontarsi con tutto quello che è stata la sua vita: è una celebrazione del concetto di maternità che mi ha ricordato addirittura la poesia del Capolavoro di Sokurov Madre e figlio, un momento di riflessione sulla nostra natura e sul fatto che non sarà mai possibile, per quanto l'amore possa costruire legami unici e forti, poter essere in condizione di far conoscere davvero tutto di se stessi agli occhi degli altri.
In questo senso, restano impresse nel cuore le lettere struggenti di Luisa al marito, legate ai sensi di colpa per essere crollata senza poter crescere i loro figli e all'amore che, al contempo, è in grado di allontanarla e renderla quasi un'unica anima con lui, e la volontà non sempre sostenuta dall'equilibrio di stare accanto ai suoi bambini, Alina ovviamente compresa.
Trovandomi in un'età in cui idealmente - fatti concreti della vita oppure no - si è come a metà strada tra l'essere genitori e l'essere figli, una visione come questa ha a suo modo del miracoloso, perchè legata a riflessioni profonde, a sentimenti che ci legano e legheranno sempre a chi amiamo, alla nostra famiglia, eppure lasciano a volte spazio a solitudini impossibili da condividere con anima viva: chi sono stati - o chi sono - i nostri genitori? Cosa non abbiamo conosciuto di loro? Quali problemi, dubbi, insicurezze celavano dietro il loro fare affettuoso o severo?
E come ci rapporteremmo a loro per come siamo ora? Cosa vorremmo raccontare? Quali consigli vorremmo sentirci sussurrare, stretti in un abbraccio che desidereremmo non finisse mai?
Eppure, nonostante la molta disperazione e le ferite che una visione di questo genere può riaprire nell'audience, la speranza non abbandona mai l'occhio e la voce di Alina, che nelle parole di Luisa diventa madre e figlia, amica e confidente, testimone e nuova protagonista di una storia che non può finire, e non finirà. Perchè se Luisa è finita "sotto la ruota", se non ce l'ha fatta, resta innegabile la realtà dell'esistenza di questa sua figlia sensibile e forte, materna e decisa, che trova il coraggio di scavare nei fantasmi della madre ed uscirne come chi ha conquistato una nuova parte di sè.
Spero davvero che la persona che mi ha portato a scoprire finalmente questa piccola meraviglia possa intraprendere un viaggio di questo genere, riscoprire se stessa e chi ha perduto come se, in realtà, non fosse mai stata sola.
Perchè, in fondo, è proprio così.


MrFord


"Io che non so scordarti mai
per te darei la vita mia
per dirti quello che non sai...
Un'ora sola ti vorrei
io che non so scordarti mai
per dirti ancor nei baci miei
che cosa sei per me."
Fedora Mingarelli - "Un'ora sola ti vorrei" -


domenica 25 dicembre 2011

Il canto di Natale di Topolino

Regia: Burny Mattinson
Origine: Usa
Anno: 1983
Durata: 26'



La trama (con parole mie): ispirato dall'opera di Charles Dickens nota in tutto il mondo - cinematografico e non -, un corto famosissimo che esprime tutto lo spirito natalizio di casa Disney coinvolgendo molti dei suoi personaggi più noti e trasportando le atmosfere della Londra fumosa di fine ottocento di fronte ai focolari attorno ai quali, in questi giorni, si tende a radunarsi con parenti, amici e chi più ne ha più ne metta.
Un evergreen tratto da un evergreen che ad ogni passaggio continua a non perdere il suo fascino.




Immagino che tutti conosciate - per esperienza o sentito dire e raccontare - Il canto di Natale di Charles Dickens, uno degli scritti più sfruttati al Cinema di tutti i tempi.
Mamma Disney, spinta dallo spirito di questi giorni, non poteva che cogliere l'occasione di portare sullo schermo una delle favole nere più famose della Storia, riproponendola attraverso i volti dei suoi personaggi più noti conservandone lo spirito - pur stemperando la componente puramente gotica che, ricordo, da piccolo mi spaventava non poco, specialmente rispetto al primo incontro tra Scrooge ed il fantasma del suo vecchio socio Marley - e regalando al pubblico uno dei suoi film - anche se, in questo caso, si tratta di un cortometraggio - più famosi ed amati.
Ricordo quanto, da piccolo - ma anche ora, lo ammetto - mi faceva impazzire rivedere la videocassetta de Il canto di Natale di Topolino giusto in tempo per l'inizio delle vacanze dalla scuola, quando con i miei, mio fratello e i miei nonni ci muovevamo tutti insieme verso la casa nelle valli bergamasche e la notte della vigilia finivo per dormire poco o niente, alzandomi non so quante volte per controllare che ora fosse facendomi luce con il fuoco della stufa.
Sono passati più di vent'anni, da allora, i miei nonni sono morti, io e mio fratello non viviamo più da un pezzo con i nostri genitori, e quella casa ormai è un ricordo d'infanzia, considerato che ora i miei si sono spostati ed io non resto più sveglio in attesa dei regali - peccato, perchè dove vivono ora c'è anche il camino, sicuramente più affascinante - .
Eppure, un pò per le battute che conosco a memoria, un pò per il suo fascino, Il canto di Natale di Topolino resta un piccolo classico di questo periodo, e mi pare che riesca sempre a starci, nonostante quello che potrebbe essere additato come il buonismo tipico Disney: sarà per Dickens, sarà per il momento, ma mi pare che ci stia tutto, ed ogni anno mi ritrovo a godermi il viaggio di Zio Paperone/Scrooge attraverso i Natali passati, presenti e futuri guidato dai fantasmi corrispettivi.
In questo senso, l'unico neo rispetto al tempo che passa è dato dalla versione ridoppiata che circola negli ultimi tempi, davvero inadeguata rispetto all'originale che ero abituato a vedere da piccolo: in particolare, la mia imitazione perfetta del Fantasma del Natale presente è stata rovinata dalla nuova versione, tanto da rompere quasi l'incantesimo che avevo cercato di mantenere con Julez, che per la prima volta si è ritrovata spettatrice di questo piccolo cult natalizio.
A parte questo - e un pò di anni in più sulle spalle - però, nulla della magia che sentivo da bambino pare perduto, così approfitto di questo giorno di festa e bagordi - dai quali, come di consueto, non mi tirerò affatto indietro - per godermi questo Classico giusto in tempo per andare a spacchettare qualche regalo, pensare al mio spirito più da Jack che da Babbo Nachele e godermi i ricordi come il presente di una Festa che, lo ammetto, su di me ha sempre avuto un grosso ascendente.
Buon Nachele a tutti!

MrFord

"So this is Christmas
and what have you done
another year over
a new one just begun
and so this is Christmas
I hope you have fun
the near and the dear ones
the old and the young."
John Lennon - "Happy Xmas (war is over)" -

sabato 26 novembre 2011

Oltre le regole - The messenger

Regia: Oren Moverman
Origine: Usa
Anno: 2009
Durata: 113'



La trama (con parole mie): Will Montgomery, sergente maggiore decorato dopo essere sopravvissuto ad una missione in Afghanistan salvando alcuni dei suoi compagni, viene rispedito negli Usa in convalescenza per essere assegnato, negli ultimi mesi del servizio, alla sezione che provvede - prima che stampa, tv e chiunque ne abbia la possibilità lo faccia prima dell'esercito - ad informare le famiglie dei caduti dando loro la notizia che non vorrebbero mai ricevere.
Suo partner sarà il capitano Tony Stone, veterano della prima Desert Storm, ex alcolista ed ormai abituato ad un lavoro che, certo, non è il più desiderato tra i soldati - e non solo -.
Will avrà modo, nei mesi che lo vedranno impegnato accanto all'insolito ufficiale, di riflettere sul suo futuro, sul passato e sul ricordo lasciato dalla sparatoria che l'ha reso un eroe agli occhi della patria, ma non ai suoi.




A volte ci sono pellicole che restano nel cassetto per anni, prima di essere scoperte.
E a volte finisce che le stesse, passando sullo schermo, si rivelano essere visioni assolutamente interessanti.
E' quello che è capitato con Oltre le regole, un fulmine a ciel sereno nonchè una delle riflessioni più lucide, sentite e potenti sulla guerra e soprattutto sulle sue conseguenze rispetto a chi l'ha vissuta sulla pelle che abbia visto negli ultimi anni: neppure The hurt locker - pur mostrando le palle come poche altre pellicole del genere nel passato recente della settima arte - è riuscito, a mio parere, a descrivere in modo così profondo senza di contro eccedere in facile retorica il segno della guerra sui soldati come l'opera di Oren Moverman, che azzecca uno script da leccarsi i baffi e lo affida a due protagonisti in stato di grazia - in particolare Woody Harrelson, ormai un vero e proprio eroe nei territori fordiani - in grado di dare volto e cuore ad un disagio profondo e radicato nell'anima non soltanto di chi al fronte lotta per la vita, ma anche e soprattutto di tutti quelli che, a casa, vivono ogni giorno in attesa sperando di non ricevere la visita di uomini come Stone.
La triste galleria delle reazioni delle famiglie alla notizia della morte dei loro cari resta una parte decisamente coinvolgente della pellicola, e dai pianti disperati alla rabbia - ottimo il cammeo di Steve Buscemi -, dall'equilibrio allo sgomento è difficile rimanere impassibili di fronte alle manifestazioni di un dolore che, per quanto messo in conto, non potrà mai essere vissuto senza conseguenze.
Ma è quando l'attenzione si sposta sui due protagonisti e sulle loro cicatrici interiori che il film compie la vera e propria svolta: i demoni che Stone tiene a bada con il suo gigionismo da cinico e Will con il silenzio e la musica a tutto volume a fare da colonna sonora ad una vita immaginata accanto a quella che era la donna che forse avrebbe dovuto sposare o alla vedova che sogna potrebbe diventare una compagna inattesa e da scoprire divengono lo specchio entro il quale confrontarsi con se stessi, i propri perchè ed il segno lasciato da una scelta che può essere profondamente personale ma che si lega indissolubilmente all'esterno - famiglia, società, amici, nazione - quasi annullando con il suo peso l'individualità di chi la compie, sia essa dettata dalla necessità che dal reale desiderio di essere al fronte a battersi per un ideale "o per un amore finito male".
La gestione, inoltre, del progredire del rapporto tra Will e Tony così come -  e soprattutto - tra Will e Olivia risulta a dir poco esemplare, asciutta e profondamente sincera, per nulla compiaciuta o orientata verso i più scontati dei confronti o - peggio - dei finali telefonati: l'approccio del regista, in questo senso, preserva lo spettatore dalla consueta sindrome antiammereganata che spesso e volentieri trova terreno fertile in questo tipo di Cinema, e permette all'opera di guadagnare ulteriormente spessore, diventando a tutti gli effetti una pellicola non tanto "di" guerra quanto "sulla" guerra, e ancor più sulle sue vittime, siano esse cadute o inevitabilmente, inesorabilmente destinate a sopravvivere.
Tuttavia Moverman non abbandona mai davvero la speranza - cosa che, al contrario, accade alla Bigelow in The hurt locker - e attraverso il racconto di Will rispetto al suo primo periodo dopo lo scontro che gli è costato il ritorno negli Usa e la fama di eroe esplode uno dei suoi colpi migliori, mostrando quanto la volontà di vivere - e non, ricordando Montale, il suo male - sia sempre presente, per Natura, nella nostra umana connotazione.
Con tutti i nostri limiti, le nostre ferite, e i nostri morti.
Perchè, e guai a dimenticarselo, piacevole o terribile, quella che viviamo da queste parti è sicuramente una guerra.

MrFord

"Hanno portato a casa
le loro spoglie nelle bandiere
legate strette perchè sembrassero intere."
Fabrizio De Andrè - "La collina" -



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