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venerdì 30 giugno 2017

Ray Donovan - Stagione 3 (Showtime, USA, 2015)




La Famiglia, si sa, può essere il più grande dei piaceri e la peggiore delle bestie.
Di certo, è una di quelle cose che nella vita non lascia indifferenti.
Personalmente, non ho avuto o vissuto - e sono contento così - traumi particolari, tra le mura domestiche, e anzi, ho sempre avuto rapporti dal civile all'ottimo con tutti i miei parenti, i miei genitori - per quanto diversi dai loro figli - ci hanno sempre sostenuti per quanto hanno potuto e mio fratello - nonostante approcci alcolici e non che partono da differenti filosofie - è una delle persone che sento più vicine.
Eppure, ho sempre avuto un debole, per le famiglie disfunzionali.
Sarà che tirano fuori il pane e salame, o rendono benissimo l'idea di "tenere i cavalli" che è uno dei miei capisaldi, ma da Little Miss Sunshine ai Gallagher, passando per Altman e, per l'appunto, Ray Donovan, adoro i drammi da famiglia instabile.
Curioso, invece, il fatto che la vicenda dello spigoloso problem solver di origine irlandese sia rimasta ai box per così tanto tempo - e si parla di anni - per poi esplodere scatenando curiosità nel sottoscritto, in Julez e nel Fordino, che ormai comincia ad essere più grandicello ed avvezzo a tutti i personaggi che passano sul piccolo schermo del Saloon, a prescindere da quali siano i suoi preferiti - Dr. House e Frank Gallagher, come ormai è noto -.
Con questa terza stagione, forse quella con le evoluzioni e sviluppi più drammatici fino ad ora, Ray Donovan conferma il suo valore e la consistenza di una proposta che affronta temi scomodi e profondi senza dimenticarsi passaggi o momenti grotteschi ed al limite dello spassoso, tematiche vicine a qualsiasi tipo di pubblico - a prescindere dal tipo di famiglia che avete - ed una qualità complessiva decisamente alta a partire dal lavoro attoriale, che vede Liev Schrieber in costante evoluzione e Jon Voight come sempre mattatore di una proposta che non sarà clamorosa per popolarità ma che, senza dubbio, rappresenta una delle certezze assolute quando si parla di risultato complessivo.
Ray Donovan, infatti, ha carattere da vendere, palle d'acciaio, coraggio ed una carica emotiva notevoli, quasi fosse uno specchio del suo solo apparentemente inavvicinabile, infallibile e tutto d'un pezzo protagonista, portato dai suoi autori al punto di rottura nel corso di queste dodici puntate come mai prima era capitato, alimentando la curiosità del sottoscritto e dei Ford tutti per la stagione quattro e confermando tutto il bene che pensavo di volergli fin dai giri di giostra precedenti.
Dalla drammatica lotta con la mafia armena - e qui occorre stare attenti, The Shield è un monito - ai conflitti interni con Bridget, passando per scomuniche, Donovan che partono e Donovan che arriveranno, non si vive un secondo di pausa e si continua a fare il tifo per Ray, Terry, Bunchy e Darryll, e perfino, ma solo a volte, per quel vecchio figlio di puttana di Mickey, l'unico padre a combattere al già citato Frank Gallagher lo scettro di peggior genitore del piccolo schermo e non solo.
Noi, che siamo senza dubbio in parte irlandesi nel cuore, tifiamo per tutti loro.
E non possiamo fare altro.




MrFord




martedì 21 marzo 2017

John Wick - Capitolo 2 (Chad Stahelski, USA, 2016, 122')

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Quando si parla di action movies tamarri, l'hype che mi travolge nell'attesa della visione è superiore a quello di qualsiasi proposta d'autore, film di Clint Eastwood o Michael Mann.
Probabilmente, soltanto un ritorno a sorpresa del mitico Stanley potrebbe scatenare dentro di me qualcosa di più devastante.
Dunque, capirete bene quanto attendessi, dopo l'ottimo exploit - inaspettato, tra le altre cose - di John Wick qualche anno fa, il nuovo film della saga dedicata all'ex assassino spaccaculi ed ammazzacristianiamazzi interpretato da Keanu Reeves, che lasciati a casa i panni del "cibernetico signore degli anelli" con il buon John aveva ritrovato il posto che gli competeva nel panorama action dai tempi di Speed.
E capirete bene quanto possa essermi sentito deluso e quasi incazzato, non fossi stato intorpidito completamente dal sonno al termine della visione.
Perchè il secondo capitolo di John Wick è una delle delusioni più terribili che abbia patito nel corso degli ultimi mesi: un prodotto moscio, privo di ironia, eccessivamente serioso, statico non tanto nelle sequenze d'azione - ben congeniate - quanto nello spirito, un trito e ritrito portato avanti per due ore che paiono interminabili - ed in questi casi non dovrebbe certo andare in questo modo - e che hanno il sapore di raccordo per un eventuale terzo capitolo, quasi si volesse cercare di trasformare John Wick in una produzione, per l'appunto, nello stile di Michael Mann, senza ricordare che le tamarrate non solo devono restare tamarrate, ma anche e soprattutto pestare il piede sull'acceleratore ogni volta possibile - in questo senso, una lezione è data dall'impietoso confronto tra Expendables 2 e 3, per citare una saga che adoro alla follia -.
E pensare che l'unico a seguire questo consiglio sia il nostrano Riccardo Scamarcio - che non è esattamente Marlon Brando, per essere quantomeno alla lontana politically correct - è l'indice di quanto, purtroppo per me e per tutti i fan del personaggio, questo secondo capitolo sia un fallimento su tutta la linea, quasi un ritorno alle atmosfere cupe e pesanti degli anni novanta che, lo sanno anche i sassi, con l'action sguaiata sono stati teneri quanto John con chi gli ha rubato la macchina ed ammazzato il cane.
Peccato davvero, perchè mi sarei aspettato fuochi d'artificio, momenti di esaltazione con salti sul divano ed un giro aggiuntivo di bevute per festeggiare e mi sono ritrovato abbattuto, deluso, quasi stroncato dal sonno e per la prima volta dopo settimane desideroso di andare a letto senza passare dal via, e soprattutto senza neppure avvicinarmi alla mezzanotte - non succede praticamente mai, a meno che non stia davvero male -.
John Wick - Capitolo 2, dunque, pecca nel tentare di apparire come un action d'autore - perchè non siamo certo sul pianeta, nella galassia o nell'universo di cose come The Raid 2 o Blackhat - così come una tamarrata senza ritegno alcuno - cosa perfettamente riuscita con The Equalizer, ad esempio -, e si tuffa neppure troppo bene nel grande oceano di titoli destinati ad essere dimenticati in fretta e senza alcun rimpianto.
L'unica nota positiva potrebbe essere data dal fatto che, dal molto probabile capitolo tre, mi aspetterò decisamente meno.




MrFord






domenica 3 maggio 2015

We are Marshall

Regia: McG
Origine: USA
Anno: 2006
Durata: 131'




La trama (con parole mie): nel novembre del 1970 una terribile tragedia aerea conduce alla morte l'intera squadra - fatta eccezione per quattro elementi -, lo staff tecnico ed alcuni sostenitori dei Marshall, orgoglio dell'omonima università e di una città letteralmente distrutta dall'evento.
Ingaggiato l'autopropostosi coach Jack Lengyel, sognatore entusiasta, il Presidente della squadra Dedmon si trova ad affrontare il complesso processo di ricostruzione, che parte da una richiesta fatta alla Federazione di convocare in squadra anche le matricole e conduce allo spirito di Lengyel stesso e del suo assistente Red Dawson, scampato per una casualità all'incidente.
Riusciranno dunque i Marshall a tornare i Marshall? E quale sarà il prezzo per rialzarsi dopo un simile evento?







A prescindere dalla mia passione per tutto quello che è a stelle e strisce - anzi, direi più tutto quello che mi piace -, il cosiddetto Football americano è fin dai tempi dell'infanzia un vero e proprio must, da queste parti, per quanto non segua l'NFL dai tempi dei Dolphins di Dan Marino: ricordo quando imparai le regole attraverso i videogiochi ai tempi del Sega Mega Drive, così come l'esaltazione dei tempi più recenti grazie ad una delle serie televisive del cuore di questo vecchio cowboy, Friday Night Lights.
We are Marshall, solido prodotto di genere sportivo/patriottico made in USA fino al midollo diretto dal mestierante McG e sorretto da un cast di prim'ordine - da Matthew McConaughey a David Strathairn -, giaceva in attesa nei meandri del Saloon da parecchio tempo quando ha finito per essere ripescato in una settimana povera di uscite in sala e novità di spessore grazie a Julez, che spesso e volentieri finisce per conoscermi meglio di quanto non creda di farlo io stesso.
Il risultato è stata una di quelle visioni che tanto adoravo nei primi anni della mia crescita come spettatore: una vicenda emozionante e coinvolgente, a tratti sicuramente ingenua e retorica eppure impossibile da non seguire con partecipazione dall'inizio alla fine, resa interessante da un approccio - legato ovviamente anche alle reali vicende di Jack Lengyel e dei suoi Marshall - che nonostante la cornice non fa troppe concessioni e finisce per ricordare i perdenti di successo di Moneyball o il primo Rocky.
A prescindere, dunque, dalla cronaca di fatti drammatici che divennero motivo di riscatto positivo non solo per una squadra di football non professionistico, ma anche di un'Università e di una città, la parte più interessante di questo prodotto va ricercata nell'analisi per nulla superficiale del lavoro che richiede una ricostruzione affinchè si possa, un giorno o l'altro, tornare "a riveder le stelle".
In un certo senso, più che la rinascita di un'istituzione sportiva americana, assistiamo alla costruzione delle sue fondamenta, alla testimonianza di fatti isolati che, a prescindere dal grado di successo immediato, finiscono per assumere la connotazione di una vittoria alla lunga distanza, grazie al lascito che hanno garantito alle generazioni future: entusiasti come Jack Lengyel oppure no, i protagonisti dell'impresa dei Marshall chiamati a colmare il vuoto di una ferita che probabilmente non potrà mai guarire del tutto hanno finito per rendersi complici di un'impresa unica nel suo genere, che ha riportato alla mia mente quella del Grande Torino finito contro il basamento della Basilica di Superga, e non solo rispetto all'incidente aereo.
La perdita di un'intera squadra sportiva, in occasioni come queste, rappresenta, di fatto, la perdita non solo di simboli, idoli, risultati, ma anche e soprattutto di genitori e figli, amici, parenti, fidanzati, addirittura un'intera generazione che pare essersi compressa in un numero "limitato" di vittime: rialzarsi non è mai facile, così come fare tesoro del proprio dolore, della responsabilità di essere ancora vivi, quasi come accade con i sopravvissuti alle guerre.
Ed è il riscatto, il comeback - come si direbbe oltreoceano -, uno dei punti forti della cultura statunitense: We are Marshall rappresenta, racconta e fotografa proprio quell'istante, quella riscossa, quella sensazione di quasi invulnerabilità che avvolge e porta a compiere imprese che si pensavano impossibili.
Anche quando, prima ancora che dalle vittorie, passano da cocenti e clamorose sconfitte.
Nessuno ha mai detto, infatti, che la strada per la Hall of Fame debba essere necessariamente costruita su incontrastati ed a volte perfino noiosi successi.



MrFord



"Don't know what's comin' tomorrow
maybe it's trouble and sorrow
but we travel the road, sharin' our load
side by side."

Ray Charles - "Side by side" - 





mercoledì 27 agosto 2014

Hercules - Il guerriero

 
La trama (con parole mie): nato da Zeus e da una semplice mortale, Hercules è stato circondato da un alone leggendario fin dalla sua nascita, quando ancora nella culla stritolò due serpenti inviati da
Era, madre degli dei, per ucciderlo. A quell'impresa seguirono le dodici fatiche, che resero il suo personaggio ancora più importante e venerato in tutta la Grecia: scacciato da Atene dopo essere
stato accusato ingiustamente dell'omicidio di sua moglie e delle sue due figlie, Hercules viaggia attraverso l'Ellade insieme ad un gruppo di inseparabili amici e guerrieri, accanto ai quali combatte come un mercenario.
Quando il gruppo si dirige in Tracia per aiutare il re a sedare una rivolta, finiscono per essere messe alla prova la fede stessa dell'eroe e la capacità di assumere il ruolo che suo padre - chiunque fosse, Zeus o no - avrebbe voluto per lui.








Qui al Saloon, è cosa nota, ogni tamarrata che si rispetti è decisamente ben accolta dal sottoscritto, specialmente se porta in dono, oltre ad un bagaglio di botte e fracassonate, anche qualche interprete d'eccezione dell'action come il sempre più gonfio e gigantesco The Rock, eroe del wrestling fine anni novanta/inizio anni zero - con qualche comparsata in tempi più recenti - al quale un appassionato di sport entertaiment come il sottoscritto non può non voler bene.
Benchè mi aspettassi di incrociare il cammino di una vera e propria schifezzona record, da mesi attendevo l'uscita dell'Hercules targato Dwayne Johnson - vero nome del già citato The Rock -, sopportando il pur non così brutto come avrei pensato alla vigilia della visione Hercules - La leggenda ha inizio con Kellan Lutz di qualche mese fa e preparandomi agli sfracelli che l'ex wrestler avrebbe compiuto nei panni del leggendario semidio greco.
Per quanto la stanchezza l'abbia fatta da padrona e, di fatto, abbia comunque accettato bonariamente tutti i limiti del lavoro di Brett Ratner, devo ammettere che questo Hercules - Il guerriero finisce per
essere davvero, davvero trash, e seppur non in grado di raggiungere i bassissimi livelli del recente Transformers 4 - quantomeno nella durata - pronto a diventare uno dei bersagli preferiti di tutti i non
avvezzi al genere della stagione, tanto da finire per avvincere perfino il sottoscritto così poco da costringere gli occupanti di casa Ford a terminare la visione in due serate, e sempre con la palpebra
parecchio pesante.
Una cosa imperdonabile, questa, per un giocattolone action che ricorda i peplum dei tempi andati e dal minutaggio limitato, che finisce quasi per essere peggiore del parruccone sbattuto sulla testa pelata di The Rock neanche fosse un Nicholas Cage qualunque pronto a girare un nuovo Ghost Rider: trama esilissima, sceneggiatura e dialoghi al limite del ridicolo, personaggi cambiati da una scena all'altra - clamoroso il caso del re interpretato da John Hurt, passato dall'essere un vecchio inoffensivo difeso da Hercules ed i suoi ad un tiranno senza cuore pronto a fare secco perfino il suo stesso nipote ancora bambino -, combattimenti ed approccio senza una vera direzione: perfino l'unica idea interessante della pellicola, ovvero far passare Hercules per un guerriero di impareggiabile abilità che sfrutta con l'inganno la sua fama di semidio grazie ai racconti dei suoi compagni e a trucchi del mestiere viene accantonata e persa per strada liberando il più classico finale da supereroe spaccaculi senza ritegno alcuno che finisce per non tenere conto di quanto di buono poteva essere stato seminato nella prima parte del film.
Un peccato, perchè una sorta di "grande inganno" avrebbe regalato spessore al protagonista così come al suo gruppo, e forse avrebbe permesso al pubblico di dimenticare anche cose terribili come l'agghiacciante interpretazione di Joseph Fiennes, che si conferma la pecora nera della sua famiglia in termini di qualità artistiche - e non che ce ne fosse bisogno -.
In tutto questo, e tra un blackout da sonno da divano e l'altro, tutto sommato non sono comunque riuscito a volere male a questa roba, che almeno non mostra la spocchia che in altre occasioni - come fu per il terribile Scontro tra titani, per rimanere in tema Antica Grecia - avevano cercato di sfoderare blockbuster estivi più che dimenticabili di questa risma: in fondo, la durata non è un ostacolo - un'ora e mezza scarsa -, le scene di battaglia rendono la pillola meno amara - soprattutto quella che vede Hercules ed i suoi opposti agli uomini dal look zombie più o meno a metà pellicola - e il buon Dwayne resta sempre il buon Dwayne, nonostante il telo mare peloso che hanno deciso di lasciargli in testa - e non parlo della pelle di leone, sia chiaro -.
Se non siete della parrocchia action, comunque, risparmiatevi la visione senza troppi timori: rischiereste di assistere ad uno spettacolo che segnerebbe inevitabilmente la condanna del genere per i
non avvezzi.
In fondo, per quanto solo una, e non dodici, questo Hercules - Il guerriero, è stato una vera fatica perfino per un vero tamarro come me.



MrFord



"'Cos I'm strong enough
to live without you
strong enough and I quit crying
long enough now I'm strong enough
to know you gotta go."
Cher - "Strong enough" -



mercoledì 27 giugno 2012

Biancaneve e il cacciatore

Regia: Rupert Sanders
Origine: Usa
Anno: 2012
Durata: 127'




La trama (con parole mie): ispirata dalla nota fiaba, questa nuova incarnazione gotica e guerresca di Biancaneve vede la giovane principessa tenuta prigioniera per tutta la sua adolescenza dalla perfida regina Ravenna, giunta a sedere sul trono del regno una volta eliminato il padre della ragazza.
Fuggita dal castello, sulle sue tracce viene sguinzagliato un cacciatore vedovo ed ubriacone, unico a conoscere a fondo la foresta maledetta all'interno della quale Biancaneve ha trovato rifugio: l'incontro tra i due porterà ad un'alleanza destinata a coinvolgere nella lotta contro il potere oscuro di Ravenna i nani e gli abitanti della foresta così come del regno, ansiosi di porre fine al dominio della donna eternamente giovane e dei suoi biechi tirapiedi, primo fra tutti il suo stesso fratello.
Ci sarà tempo per sacrifici, magie, amori, mele avvelenate e battaglie prima del confronto finale e dell'ovvio trionfo del Bene sul Male.




Passate - o quasi - le mode dei supereroi e dei vampiri, questo duemiladodici pare proprio essere l'anno dei ripescaggi dal bacino - a dire il vero enorme - delle favole: ovviamente, una delle protagoniste di questo nuovo trend non poteva che essere Biancaneve, forse la principessa più amata dal pubblico dai tempi dell'immortale classico targato Disney.
Così, dopo la discreta e timida Snow co-protagonista del serial Once upon a time e la pessima versione di Tarsem Singh è stata la volta di Rupert Sanders - regista esordiente - di portare sul grande schermo le gesta del suo ritratto del personaggio: palesemente influenzato da un gusto dark, lo stesso Sanders sceglie di trasformare la canterina damigella in una guerriera battagliera che deve moltissimo della sua caratterizzazione all'immaginario dei fumetti e del neo-romanticismo che negli ultimi anni ha prodotto, a livello letterario, una dose non indifferente di spazzatura in grado di fare faville soprattutto rispetto alle lettrici adolescenti.
Pur se certamente non nuova, questa versione di Biancaneve risulta comunque leggermente meno irritante di quella opposta a Julia Roberts nella già citata ciofeca firmata Singh, riportando sul grande schermo un contesto fantasy che ricorda molto le meraviglie degli anni ottanta come La storia infinita - palesemente citata nella sequenza della morte del cavallo - e La storia fantastica così come la più recente trilogia de Il signore degli anelli, rispolverando un certo gusto per l'avventura che non dispiace cucito addosso al personaggio e alla sua spalla, un cacciatore con quell'aura da eroe maledetto e solitario in grado di convincere anche la parte maschile dell'audience ad affrontare una visione altresì troppo dipinta di rosa.
La stessa regina Ravenna - interpretata più che bene da Charlize Theron -, mossa da un sentimento di rivalsa verso il genere maschile, il Tempo e la vita in genere, ha tutte le carte in regola per essere quella vecchia stronza che ogni cattiva da fiaba merita di essere, ed il look non solo oscuro ma anche decisamente "liquido" - che la donna condivide con il famigerato specchio - dalle rimembranze in pieno T-1000 style risulta funzionale ed inquietante al punto giusto per renderle il carattere che è mancato sia alla versione shampista della Roberts che a quella finto senza cuore di Lana Parrilla.
Detto così, parrebbe quasi che questo Biancaneve e il cacciatore si possa rivelare come un'inaspettata ficata, ma lungi da me e dalle mie bottiglie metterla in questi termini: il fatto è, infatti, che nonostante il prodotto risulti tranquillamente godibile nel suo essere puro intrattenimento, non esiste nulla che mi possa convincere del fatto che non si tratti di robetta buona giusto per i nostalgici della terrificante epopea twilightiana o per adolescenti in cerca della prima - non troppo convinta - cotta cinematografica o in attesa di sistemarsi ben bene in ultima fila per limonare duro due orette piene.
Tolta, infatti, la già citata Charlize Theron la coppia protagonista Hemsworth/Stewart funziona davvero maluccio, il primo a darsi da fare per un ruolo che avrei visto decisamente meglio sulle spalle di un non più di primo pelo Hugh Jackman e la seconda che continua imperterrita a percorrere la strada di sciapissima predestinata che, al contrario dei nani, non seguirei neppure se, per citare il Cannibale ed il suo libro presto recensito da queste parti, "riuscisse a tramutare l'acqua in birra".
Per il resto, la pellicola risulta una sorta di versione minore delle fiabe dark di Tim Burton - quello vero, non la controfigura da due soldi che ne ha preso il posto negli ultimi anni - filtrata attraverso scopiazzature e citazioni di film più o meno memorabili, dal pessimo Solomon Kane al sottovalutato e decisamente interessante Robin Hood firmato Ridley Scott, per finire con una clamorosa scena-fotocopia della meraviglia di Miyazaki La principessa Mononoke - tutta la sequenza del cervo nel cuore della foresta giustificherebbe un'accusa di plagio da parte del Maestro giapponese -: troppo poco per brillare di luce propria o fare breccia negli appassionati di Cinema più esigenti o nel pubblico che si conceda più della visione di routine nel multisala del weekend.
Certo, gli incassi - almeno in Usa, ma scommetto sarà lo stesso anche qui da noi - hanno già premiato il lavoro di Sanders, tanto che pare sia stato già annunciato addirittura un sequel - del resto, il finale risulta aperto soprattutto rispetto al potenziale triangolo amoroso tra Biancaneve, il cacciatore e l'amico d'infanzia della protagonista William, figlio del Duca alla guida dell'esercito che segna il riscatto del regno rispetto alle forze di Ravenna -, eppure tutto mi fa supporre che meglio di così non si possa fare, considerata la materia a disposizione - in termini di talento, principalmente -.
Di sicuro dunque non tratterrò il fiato in attesa di questo nuovo capitolo, e mi accontento di sapere di essere passato quasi indenne attraverso la visione di questo primo film: poteva andare decisamente peggio.
Chi ha avuto esperienza in ambito twilightiano, sa benissimo di cosa sto parlando.


MrFord


"Two times in.
I've been struck dumb by a voice that
speaks from deep
beneath the endless waters.
Twice as clear as heaven,
twice as loud as reason.
Deep and rich like silt on a riverbed
and just as never ending."
Tool - "Undertow" -


 

sabato 10 dicembre 2011

Death race

Regia: Paul W. S. Anderson
Origine: Usa
Anno: 2008
Durata: 111'



La trama (con parole mie): siamo nel pieno del prossimo futuro dominato dalle grandi Corporazioni, in cui la crisi economica ha spazzato via tutte quelle che erano le speranze della gente comune.
Jensen Ames, ex pilota e operaio, finisce dentro dopo essere stato incastrato per l'omicidio della moglie, e immediatamente viene reclutato affinchè prenda il posto di Frankenstein, il pilota più noto della competizione chiamata Death race, una corsa di bolidi armati di tutto punto tutta confinata nei carceri di massima sicurezza, in cui il rischio di morte è pane quotidiano ed il premio dopo cinque vittorie la libertà: lo stesso Frank, infatti, è deceduto a seguito di un incidente causato dal suo avversario di sempre, Machine gun Joe, cercando di ottenere quella che sarebbe stata la sua vittoria decisiva. Il compito di Jensen sarà di spacciarsi per lui.
Ma per la direttrice della prigione ed organizzatrice della competizione Hennessey i guai cominceranno proprio quando Ames si metterà al volante.





Lo riconosco: parlare di un film firmato Paul W. S. Anderson, che dopo I tre moschettieri si è giocato perfino le già scarsissime possibilità di essere credibile anche nell'ambito trash, può essere decisamente assurdo, oltre che autolesionistico.
Eppure, sarà per Statham, sarà per i vaghissimi richiami a pellicole "di reclusione" come 1997: fuga da New York o la trilogia di Undisputed, sarà per il gusto clamorosamente kitsch che regge come un'impalcatura tutta la pellicola, ammetto di essermi tutto sommato divertito, con questo giocattolone che mescola le sindromi in genere tutte maschili alla Fast&Furious ad una strizzatina d'occhio al passato, presente anche e soprattutto grazie all'ispirazione venuta dalla produzione di Roger Corman, che attualizza - o meglio, tamarrizza - una sua vecchia "creatura" - della quale non firmò la regia - targata 1975 e ribattezzata qui da noi Anno 2000: la corsa della morte, che vedeva nel cast anche un giovane Sylvester Stallone.
Ma per tornare alla pellicola firmata dall'Anderson più scarso del pianeta regia, la regola principale pare essere quella di "staccare la spina", lasciando che il cervello riposi mentre la pancia si gode gli inseguimenti e le sparatorie di questi veri e propri mostri a quattro ruote come a trovarsi nel pieno di un videogioco, forti di un protagonista che sempre più pare assumersi il ruolo del Bruce Willis dei nostri tempi, del consueto vecchio saggio del carcere nonchè mentore del nostro - un discreto Ian McShane - e di alcuni aspetti che quasi sconfinano nel fumetto che sicuramente faranno presa su tutti gli spettatori più pane e salame e che nascondono una riflessione neppure troppo banale sulla strumentalizzazione dello spettacolo: il personaggio di Frankenstein, infatti, ed il ruolo della sua maschera, rendono molto bene l'idea del grande circo che gira attorno ad alcune figure mediatiche di spicco, e se non fosse che ci troviamo nel bel mezzo di un film ignorantissimo di uno dei registi più scarsi del panorama statunitense verrebbe quasi da dire che quello del dualismo Frank/Jensen Ames è un colpo davvero niente male per una pellicola di pura azione senza pretese.
Ma non soffermarsi troppo su questa ipotesi - potrebbe minare la valutazione complessiva della pellicola, che come ho detto poco sopra richiede una robusta dose di encefalogramma piatto - diviene necessario per godersi fino in fondo i combattimenti in pista, così come i richiami - sempre molto alla lontana, come quelli alla saga di Snake Plissken - a Duel dello scontro più esplosivo - in tutti i sensi - tra quelli con Jensen protagonista, che vede il pilota che interpreta Frankenstein accanto alla sua nemesi di sempre Machine gun fronteggiare il mostruoso camion assemblato dall'equipe di Hennessey.
Poco altro resta dello script e della sceneggiatura, giocata spesso e volentieri attorno ai tipici clichè carcerari ed assolutamente imbarazzante rispetto alla sua parte di intrigo - l'inganno che porta l'incarcerazione di Ames ed il suo sospeso con Pachenko - e a quella dedicata alla presenza femminile - non può esistere, ovviamente e per tornare all'invisibile ponte che corre tra Jensen e Toretto e soci, che manchi il secondo elemento fondamentale di ogni filmaccio di questa risma oltre ai motori -, votata in tutto e per tutto alla mercanzia in mostra e palesemente in contrasto con la controparte maschile dello stesso - gli uomini sono brutti, zozzi e vestiti di stracci, le donne appena uscite da un centro fitness con tanto di trucco, parrucco e vestiti molto poco coprenti -: lungi da me fare il perbenista - il saloon non è certo un posto buono per l'aristocrazia -, o apparire come tale, ma l'utilizzo delle partners dei piloti è davvero mal sfruttato, tanto da scomodare paragoni con lo scarsissimo Bitch slap, per intenderci.
Tutto sommato - e quasi sorprendentemente -, però, il carrozzone regge durata e pretese, spingendo al massimo in ogni sua parte e arrivando al limite senza effettivamente finire la sua corsa schiantandosi irrimediabilmente: merito dell'aura ormai "expendable" di Statham, certo, ma - per una volta si può dire - anche dello spirito goliardico del regista, totalmente senza pretese.
Come il suo film.
E per stavolta va bene così.

MrFord

"Tonight, tonight the strip's just right
I wanna blow 'em off in my first heat
summer's here and the time is right
for racing in the street."
Bruce Springsteen - "Racing in the street" -


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