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sabato 29 dicembre 2018

Ford Awards 2018 - Le serie



Così come per il Saloon ed i Ford Awards in generale, anche le serie con la loro classifica quest'anno subiscono una drastica ridimensionata assestandosi sulla più classica delle top ten: per questioni di tempo e stanchezza, in realtà, negli ultimi mesi mi sono legato molto più al piccolo che al grande schermo, che è riuscito a regalarmi anche titoli destinati a diventare piccoli o grandi cult: mancano ancora recuperi importanti almeno sulla carta - Narcos, Mayans, Westworld, The handsmaid's tale -, ma se ne riparlerà il prossimo anno. Intanto, per il duemiladiciotto questo è quanto.


N°10: MAKING A MURDERER

Making a Murderer Poster

Sulla scia di lavori come Capturing the Friedmans o The Jinx, sempre grazie a Netflix ho recuperato un documentario che, fosse stato scritto per il grande schermo, sarebbe stato un legal thriller mozzafiato: la vicenda di Stephen Avery, tutt'ora in corso, filmata nell'arco di dieci anni, rappresenta uno dei casi più incredibili di cronaca nera degli States, in bilico tra vendetta, ignoranza, sangue, il nulla e l'addio. Lo stile potrà apparire quasi amatoriale, ma quello che racconta è senza dubbio da brividi.


N°9: BLACK SAILS

Black Sails Poster

Il mio amore per L'isola del tesoro ed il personaggio di Long John Silver non poteva che farmi rimanere una volta ancora ammirato da questa sottovalutatissima versione piratesca di Spartacus, che chiude il suo cammino con una quarta stagione in crescendo e che, personalmente, avrei voluto veder proseguire per almeno un altro paio di annate. 
Lo spirito indomito, selvaggio, crudele e ribelle dei pirati mostrato dall'altro lato della medaglia a fronte dell'ombra del Sistema e dell'Impero che lo rappresentava.


N°8: JEAN CLAUDE VAN JOHNSON

Jean-Claude Van Johnson Poster

Riprendendo quello che fu lo spirito del mitico JCVD sfruttandone la vena più grottesca e comica, Jean Claude Van Damme, uno dei miei idoli d'infanzia nonchè volto mitico dell'action tamarra, torna per raccontare un'assurda vicenda in cui interpreta se stesso rivelando di essere in realtà un agente segreto la cui copertura è proprio quella della star del Cinema. 
Per chi è cresciuto a calci rotanti, un vero e proprio cult: peccato si siano fermati alla prima stagione.


N°7: SEVEN SECONDS

Seven Seconds Poster

Le storie fosche pronte a rivelare tutto il buio dell'animo umano sono tra le mie preferite, quando si parla di crime: e così come avevo adorato The Shield, The Killing e The night of, sono stato conquistato da Seven Seconds, dai ritmi forse più dilatati e blandi rispetto ai titoli appena citati ma potentissimo nel raccontare una vicenda tristissima dalla quale nessuno esce vincitore consegnando al pubblico almeno un paio di charachters memorabili - il detective Fish su tutti -. 


N°6: MANHUNT - UNABOMBER

Manhunt: Unabomber Poster

Sulla scia dello spirito di Mind Hunter dello scorso anno, Manhunt - Unabomber è stata la sorpresa crime degli ultimi mesi: teso, ben raccontato, pronto a mostrare una storia di paura collettiva e solitudine profonda di due facce della stessa medaglia, interpretato bene perfino da Sam Worthington, che pur standomi simpatico di norma non è noto per brillare per qualità attoriali.
Da antologia l'episodio dedicato a Unabomber e al suo passato.

N°5: BOJACK HORSEMAN

BoJack Horseman Poster

L'Hank Moody del post Californication, Bojack Horseman, continua a mietere successi stagione dopo stagione, confermandosi uno dei charachters più interessanti del piccolo schermo e non solo. In attesa di affrontare la nuova stagione, il cavallo alcolizzato che lotta contro la fama e Hollywood rappresenta qualcosa di incredibilmente geniale, divertentissimo e profondamente triste con cui perdersi. Magari bevendo mentre lo si fa.


N°4: THIS IS US

This Is Us Poster

Uno dei serial più fordiani degli ultimi anni e forse di sempre strazia i cuori degli occupanti del Saloon anche con la seconda stagione, confermandosi come una delle opere più emozionanti e coinvolgenti che la televisione abbia da offrire al momento: in attesa di imbarcarci nella visione della terza stagione, i Pearson continuano a solleticare le lacrime anche dei più duri, rivelando finalmente quello che fu il destino del mitico Jack.


N°3: COBRA KAI

Cobra Kai Poster 

Il revival anni ottanta che ha furoreggiato negli ultimi anni porta alla riscoperta di Daniel LaRusso e John Lawrence, rivali nel primo, indimenticabile, Karate Kid, oltre trent'anni dopo: l'ex pupillo di Miyagi è diventato un imprenditore di successo, mentre il bullo del Cobra Kai è un uomo ai margini che vive di lavoretti e serate accompagnate da alcool e solitudine. 
Bravissimi gli autori a giocare su amarcord, divertimento ed un ribaltamento delle parti che mostra l'uomo dietro il "cattivo" dei vecchi tempi ed il peggio del "buono": per chi ha amato ed è cresciuto con il film originale, un must. Per tutti gli altri, un piccolo gioiellino da scoprire.


N°2: HILL HOUSE

Hill House Poster

Mike Flanagan, regista che sul grande schermo ha sempre funzionato per quanto mi riguarda a corrente alterna, trova la sua dimensione migliore sul piccolo, confezionando uno dei titoli che ha furoreggiato nella blogosfera lo scorso autunno e che rappresenta un vero e proprio gioiellino di un genere spesso vituperato e difficile come l'horror.
Incrociando le dinamiche da famiglia disfunzionale in stile Six Feet Under alle vecchie storie di case infestate, Flanagan racconta con grandissima tecnica una storia avvincente e profonda dal primo all'ultimo episodio, esplodendo in particolare con il quinto, La donna con il collo spezzato, un vero gioiello.


N°1: LA CASA DI CARTA

La casa di carta Poster

Se c'è una serie che più di ogni altra ha rappresentato il duemiladiciotto, è senza dubbio La casa di carta. Divenuta rapidamente un cult, pur non rappresentando nulla di davvero nuovo, è riuscita nell'impresa di rielaborare elementi di vari generi rendendoli cult anche quando sguaiati, eccessivi, implausibili: una sorta di Tarantino versione piccolo schermo.
Le vicende del Professore e dei suoi rapinatori sono al cardiopalma dal primo all'ultimo episodio, regalano emozioni, cambi di fronte, tensione, perfino commozione.
In fondo a volte nel "cattivo" troviamo un'umanità imperfetta e pulsante che nel "buono", d'altra parte, non possiamo trovare.


MrFord



I PREMI

Preferito fordiano: John Lawrence, Cobra Kai


Miglior personaggio: il Professore, La casa di carta

Miglior sigla: Bojack Horseman

Uomo dell'anno: Alvaro Morte, La casa di carta

Donna dell'anno: Ursula Corberò, La casa di carta

Scena cult: il Professore e Berlino cantano "Bella ciao", La casa di carta

Migliore episodio: La donna con il collo spezzato, Hill House

Premio ammazzacristiani: la casa, Hill House

Miglior coppia: Daniel LaRusso e John Lawrence, Cobra Kai


Cazzone dell'anno: Denver, La casa di carta

Cattivo dell'anno: Berlino, La casa di carta

mercoledì 25 ottobre 2017

Il gioco di Gerald (Mike Flanagan, USA, 2017, 103')





Senza dubbio Stephen King, anche grazie all'immenso bacino fornito dalla sua opera, può essere considerato uno degli autori più "saccheggiati" della Storia del Cinema, battuto forse soltanto dal Bardo Bill in persona: da Shining a The Mist, passando per It, Le ali della libertà, Il miglio verde, sono molti gli esempi di questa fruttuosa - anche se non sempre qualitativamente all'altezza - "collaborazione".
Il gioco di Gerald, legato a tematiche simili ad un altro supercult cinematografico tratto da un lavoro del Re del brivido, Misery, è giunto sugli schermi di molti di noi grazie alle ottime recensioni raccolte ed al lavoro come di consueto straordinario di Netflix, che sempre più pare essersi consolidata nel ruolo di nuova frontiera del Cinema e delle serie televisive: a rendere il tutto potenzialmente più interessante la presenza dietro la macchina da presa di Mike Flanagan, molto amato da diversi appassionati di horror, autore di titoli decisamente sopravvalutati come Oculus ed altri più convincenti, come Hush o Ouija - L'origine del male.
Considerate le premesse e le già citate recensioni, quello che speravo di trovarmi di fronte era un titolo che sancisse il salto di qualità definitivo del regista nativo di Salem, ma purtroppo, come spesso accade quando le aspettative sono alte, si finisce per essere quantomeno parzialmente delusi.
Il gioco di Gerald, thriller di sopravvivenza che racconta il dramma interiore e non solo di una donna che vede il compagno morire d'infarto nel corso di un tentativo di gioco erotico lasciandola sola ammanettata al letto ed impossibilitata a liberarsi, si poggia principalmente sulle suggestioni, l'atmosfera ed il lavoro svolto dai due protagonisti, Carla Gugino e Bruce Greenwood, chiamati a lavorare su più fronti proprio per amplificare l'effetto delle immagini che prendono vita nella mente di Jessie, costretta a lottare con i propri demoni prima ancora che con la stessa prigionia per riuscire a sopravvivere - tema molto caro al buon King -.
Eppure, forse per la difficoltà oggettiva di portare in scena un lavoro da stanza chiusa, ho avuto l'impressione che l'operato di Flanagan fosse più che altro espressione di un "vorrei ma non posso" cinematografico, il tentativo di costruire un cult senza di fatto riuscirci nonostante alcune buonissime intuizioni - l'idea di far lavorare le due metà della coppia come fossero la coscienza di Jessie muovendosi nella stanza di fronte a lei come sul palco di un teatro rende molto bene -, una confezione molto curata ed una tensione che gioca bene le sue carte: il risultato, infatti, appare a tratti troppo sbrigativo - la parte iniziale che precede il gioco erotico, piuttosto piatta, i ricordi del trauma subito dalla protagonista per colpa del padre, il finale rivelatorio a proposito del "mostro" finiscono per far perdere fascino ad un titolo che avrebbe potuto fare il paio con il già citato Misery ma che colpisce poco e scivola via abbastanza in fretta, proprio quello che un horror - o un thriller - non dovrebbe fare.
Discreti i due protagonisti - eccessivo, a mio parere, l'entusiasmo creatosi attorno alla performance della Gugino -, buona la tenuta - anche se non saprei che effetto potrebbe fare a chi ha letto il romanzo -, un paio di momenti coinvolgenti ma nel complesso troppo poco per essere considerato non solo un potenziale cult, ma anche, banalmente, un bel film.
Flanagan ha fatto di peggio, ma considerate le sue potenzialità, occorre ammettere che ha portato sullo schermo anche di molto meglio.
Un pò come, probabilmente, è stato per King e Il gioco di Gerald.




MrFord




mercoledì 14 dicembre 2016

Ouija - Le origini del male (Mike Flanagan, Giappone/USA, 2016, 99')





I frequentatori abituali del Saloon sanno quanto, da fan accanito, sia esigente, quando si tratta di horror.
Da veterano di centinaia - e forse migliaia, chissà - di visioni di genere, spesso e volentieri mi ritrovo non soltanto a non avere minimamente paura di quello che sto guardando - certo, i jump scare funzionano sempre, ma continuo a pensare che in quei casi non si tratti di paura vera, quanto di sorpresa -, ma anche a massacrarne passaggi (privi) di logica e la cornice generale.
Mike Flanagan, poi, è un caso particolare: celebratissimo ai tempi dell'uscita di Oculus - una delle sòle più clamorose che l'horror abbia prodotto negli ultimi anni - e felicemente massacrato dal sottoscritto, con il tempo è riuscito a ritagliarsi una certa fetta di rispetto da queste parti, complici principalmente il comunque guardabile Somnia e soprattutto Hush, molto goduto la scorsa estate ai tempi del Bulletin.
La prova del fuoco, dunque, era rappresentata da questo prequel, che probabilmente nella mente dei produttori aveva il compito di far dimenticare al pubblico l'obbrobrio assoluto dell'Ouija uscito lo scorso anno, una delle cose più brutte e senza senso che ricordi, finito senza colpo ferire nella top ten del peggio del duemilaquindici.
Bene, signore e signori, posso affermare senza troppi giri di parole che non solo Flanagan ha superato questa prova, ma l'ha fatto confezionando quello che, forse, ad oggi è il suo miglior lavoro: certo, non stiamo parlando di qualcosa di rivoluzionario - siamo pur sempre molto derivativi e dalle parti de L'esorcista e dei due Conjuring -, eppure questo Le origini del male fa il suo dovere, intrattiene, non perde troppi colpi nel corso dello svolgimento, gioca discretamente le sue carte e si chiude anche con una certa cattiveria, finendo per risultare come un piacevole omaggio alle atmosfere che si respiravano nell'ambito dei film di paura nel corso degli anni settanta.
Limitandosi negli ambienti e nei personaggi, tenendo un profilo basso e senza abusare del "mostro", poggiandosi sulle spalle di una nuova bambina spaventosa - la piccola Lulu Wilson, peraltro molto brava -, il buon Mike mette in piedi una macchina che funziona e fa il suo dovere pur non inventando nulla di nuovo, risulta rispettosa della tradizione senza apparire un'immagine sbiadita e fa un discreto culo a molti dei titoli usciti nel corso di questa stagione - non tutti, sia chiaro - senza neppure troppa fatica.
Considerato che partivo da una posizione molto scettica, direi che questo Ouija si è rivelato come una seduta spiritica in grado di far cambiare idea perfino al più razionale degli avversari della Fede, dei fantasmi e di tutte quelle cose che ci si aspetta di norma dall'altro mondo, ha portato sullo schermo una bella versione di famiglia al femminile, pescato dal semi-dimenticatoio quello che resterà per sempre "il bambino di E. T." per l'occasione reinventatosi prete - che, come la figa di turno, negli horror è destinato a non essere mai la "final girl" - e regalato all'audience un mostro nato dall'ingiustizia e dalla violenza simile a quelli che fecero la Storia del genere nel corso dei già citati anni settanta come Michael Myers e Jason Voohries.
Una cosa davvero niente male, per un tizio che, soltanto una manciata di anni fa, avevo considerato come uno dei fuochi di paglia più grandi che l'horror avesse prodotto: curioso che il compagno che gli avrei messo a braccetto, Ti West, abbia, come Flanagan, nel tempo conquistato uno spazio ormai più che meritato nel cuore di questo vecchio cowboy.
Crescere fa sempre bene, se lo si sa fare in modo costruttivo.
E un brindisi a questi e a tutti gli altri spiriti, in questo caso, ci sta proprio tutto.
E bene.




MrFord




 

mercoledì 26 ottobre 2016

Somnia (Mike Flanagan, USA, 2016, 97')




Non troppo tempo fa, quando quasi contemporaneamente uscirono Hush e questo Somnia, entrambi firmati dal Mike Flanagan di Oculus - che, nonostante le molte recensioni positive, ai tempi non trattai propriamente con i guanti -, finii per aspettarmi due tempeste di bottigliate delle grandi occasioni, di quelle che di norma sono destinate agli horrorini di questi ultimi anni, capaci di qualche scossa soltanto grazie ai jump scare e ad inquietare giusto per un paio di secondi su un'ora e mezza di durata media.
Come raramente accade - soprattutto per quanto riguarda il genere, e soprattutto considerato il regista - non solo entrambe le pellicole hanno scampato le suddette tempeste, ma Hush ha guadagnato perfino una certa approvazione, mentre questo Somnia, per quanto non clamoroso ed assolutamente dimenticabile, ha finito per regalare qualche emozione con un finale insolito ed interessante, che riporta in auge il tema del rapporto tra genitori e figli e da una scossa quantomeno emotiva ad una pellicola che, altrimenti, non avrebbe detto molto più di tante altre - anche se, nel complesso, non l'avrebbe fatto peggio -.
Oltre all'analisi della figura della madre e del concetto di superamento del dolore, la pellicola è interessante anche per la presenza del piccolo Jacob Tremblay, star di Room, che seppur non all'altezza dell'interpretazione nel titolo appena citato cattura l'attenzione dello spettatore con uno sguardo che, se continua ad usare in questo modo, in futuro gli procurerà una lunga e prospera carriera: al contrario, tutto il comparto degli effetti speciali si rivela a mio parere come uno degli anelli più deboli accanto alla sceneggiatura, che nonostante il finale interessante in termini di riflessione dell'audience percorre l'ora e mezza di pellicola regalando alcuni passaggi talmente implausibili e tagliati con l'accetta dal richiamare immediatamente le produzioni buone per il tritacarne fordiano tipiche dei filmetti di paura vestiti a festa e cuciti addosso al mio antagonista Cannibal Kid e tutti i pusillanimi radical che non hanno idea di dove stiano gli horror degni di questo nome di casa.
Flanagan, ad ogni modo, si rivela piuttosto furbo, e considerata la sorpresa "in positivo" che è stata in un certo senso anche Somnia finisce per incuriosirmi a proposito dei suoi prossimi lavori, magari affiancato per l'occasione da qualche pezzo grosso della macchina da scrivere, in modo da potersi concentrare sull'aspetto prevalentemente cinematografico dei suoi lavori e, chissà, finire per conquistarsi un posto di rispetto qui al Saloon che fino a pochi mesi fa trovavo impossibile anche solo accostare al suo nome.
Non penso esistano, praticamente per contratto, horror "per famiglie", ma per quanto suoni strambo il concetto direi che Somnia potrebbe esserne un perfetto rappresentante: ideale per mostrare diversi risvolti - più o meno inquietanti - del rapporto tra genitori e figli, finisce, considerando l'evoluzione e l'utilizzo del mostro - davvero tra i più scarsi come resa visiva degli ultimi anni - e del suo rapporto con il piccolo protagonista, per stimolare le domande dei "più piccoli" e le riflessioni degli adulti a proposito del ruolo che hanno nella formazione dei propri figli, e come ogni singola decisione presa "per il loro bene" possa influire a livello intimo e non solo subconscio di chi cresce in una certa misura guidato ed amato da loro.
Considerato che si tratta in buona sostanza di un filmetto, direi che già questo può essere considerato praticamente un successo.





MrFord




 

lunedì 25 luglio 2016

Saloon's Bullettin #2



Le prime due settimane da "part-time" della blogosfera, lo ammetto, sono state un vero piacere.
Nessuna pressione rispetto al vedere film o serie e scriverne, completo relax, approccio easy neanche fossi precipitato nella pigrizia alcolica lebowskiana: una manna dal cielo, senza contare che, rispetto alla scorsa tornata, a questo giro mi pare sia andata ancora meglio, in termini di visioni.
Dunque, giusto per togliermi il sassolino, parto con la nota "dolente" della settimana, legata alla lettura: ho terminato da un paio di giorni La ragazza dal cuore d'acciaio, uno dei pochi Lansdale che ancora mancavano alla mia lista, e devo ammettere con rammarico di essermi trovato di fronte al romanzo più debole del vecchio Joe. Nonostante, infatti, un protagonista sulla carta perfetto per il sottoscritto - reduce di guerra, tendenzialmente alcolizzato, donnaiolo e casinista -, Cason Statler - già visto in un paio di occasioni come ospite nella saga di Hap e Leonard - e la presenza dello squilibrato Booger - anch'egli coprotagonista del recente Honky Tonk Samurai -, ho trovato La ragazza dal cuore d'acciaio spento e lento, rispetto allo standard ironico, fresco e rapido del romanziere texano, a tratti perfino moralista per bocca del suo main charachter. Niente di abbastanza grave da incrinare il rapporto con uno dei favoriti del Saloon, ma senza dubbio una parziale delusione (due bicchieri).
Il Cinema, invece, ha finito per regalarmi una settimana di discrete soddisfazioni: considerato che il suo precedente era il decisamente sopravvalutato Oculus, il nuovo lavoro di Flanagan, Hush, home invasion arricchito dall'idea di una protagonista sordomuta in perenne necessità di un contatto visivo con il suo potenziale assassino, si è rivelato una sorpresa davvero niente male.
Grazie ad un ottimo ritmo, una violenza decisa ma non eccessiva - la sequenza della mano e della porta scorrevole è stata davvero un bel pugno nello stomaco -, soluzioni interessanti - le ipotesi della protagonista a proposito delle differenti vie di fuga - ed un minutaggio adeguato la visione scorre davvero alla grande, incassando solo qualche colpo nel finale a causa delle concessioni che, di norma, in questo tipo di pellicole vengono autorizzate rispetto alla distribuzione ed al grande pubblico: peccati veniali, comunque, per un lavoro che si propone come uno dei riferimenti dell'horror/thriller di questo inizio estate (due bicchieri e mezzo).
Pur cambiando l'ordine degli addendi ed accelerando su ironia e splatter, la sorpresa resta la costante anche per Manuale scout per l'apocalisse zombie, recuperato quasi per caso con il sospetto che si potesse trattare di una merda fumante buona per la visione in sala del weekend di Ferragosto e rivelatosi, invece, un ibrido divertentissimo e spassoso di Shaun of the dead, Zombieland e I Goonies, con un Tye Sheridan a farla da padrone ed una Sarah Dumont a rompere qualsiasi indugio nel pubblico maschile: nonostante il lavoro di Landon sia clamorosamente derivativo, passaggi come quello della citazione a Britney Spears o del "si sta rompendo il cazzo" assurgono senza colpo ferire a potenziali scene cult dell'anno, pronti ad andare a braccetto con un elogio degli outsiders adolescenti degno degli anni ottanta, un ritmo veloce ed una colonna sonora assolutamente perfetta.
Un film perfetto per la stagione, per i ragazzini in cerca di conferme e per gli adulti che ricordano con affetto il loro periodo di lotta adolescenziale per emergere rispetto a tutti quelli che si trovavano, per un motivo o per un altro, con la pappa pronta e che poi, di fronte alla vita vissuta, hanno finito per soccombere, o diventare zombies (due bicchieri e mezzo).
Chiudo in bellezza, sempre nello spirito eighties, con Midnight Special, nuovo film dell'amatissimo da queste parti Jeff Nichols, che riprende il discorso iniziato con lo splendido Take Shelter mescolando fantascienza, famiglia e road movie appoggiandosi alle garanzie Michael Shannon e Kirsten Dunst e ad un eccezionalmente in parte Joel Edgerton per raccontare la metafora del superamento di una perdita devastante come quella di un figlio: un film che, probabilmente, ad una prima visione - o ad una superficiale - rischia di apparire meno potente di quanto non sia in realtà, e che non solo conferma il talento del suo autore - colpevole, forse, soltanto di un paio di passaggi di sceneggiatura un pò troppo tagliati con l'accetta -, ma grazie ad una fotografia pazzesca e a riprese splendide porta lo spettatore all'interno di un dramma affrontato con determinazione, coraggio ed una dose di Fede da fare invidia perfino ad un miscredente convinto come questo vecchio cowboy.
In questo caso il mio consiglio è montare senza troppi pensieri sui sedili della vettura condotta in modo forse a tratti sconsiderato da Nichols, gettare ogni pregiudizio ed aprire il cuore ad una vera e propria rivelazione (tre bicchieri).
Non c'entra invece nulla con il resto, ma data la perfezione tecnica e lo script non potevo esimermi: in questi giorni, con Julez, abbiamo completato Uncharted 4, conferma clamorosa del valore cinematografico che i videogiochi stanno acquistando titolo dopo titolo: la saga di Nathan Drake non ha nulla da invidiare a quella di Indiana Jones, e pur non avendo un corrispettivo su grande schermo, andrebbe gustata dal primo all'ultimo secondo.





MrFord

mercoledì 20 agosto 2014

Oculus - Il riflesso del male

Regia: Mike Flanagan
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 104'

 
 
La trama (con parole mie): la famiglia Russell – padre, madre e due figli – si trasferisce in una nuova casa pronta a vivere il resto della propria vita all’ombra di uno specchio antico e molto particolare che adorna lo studio da designer del patriarca. Proprio a partire da questo specchio ombre decisamente poco rassicuranti scendono sul focolare, conducendo l’intera famiglia nel pieno di una spirale di follia che si conclude con la morte della madre per mano del padre, ucciso poi dal figlio minore, di seguito internato in una struttura specialistica.
Dieci anni dopo quegli eventi il ragazzo torna in società completamente guarito, accolto a braccia aperte dalla sorella che, dai tempi del massacro dei loro genitori, ha effettuato ricerche sullo specchio e pare decisa a sfidarlo in modo da distruggerlo per sempre, mettendo la parola fine al più agghiacciante capitolo delle loro vite.






Senza dubbio questi ultimi anni non sono stati i più sfavillanti, per quanto riguarda l’horror inteso come genere: le sempre più frequenti proposte riempitivo buone giusto per pareggiare i conti dei distributori ed una crisi di idee da record hanno progressivamente depauperato un panorama ed un immaginario che, a cavallo degli anni ottanta, erano tra i più ribollenti dell’intera settima arte, pronti a regalare al pubblico non solo pellicole di livello, ma icone ancora oggi considerate cult – da Freddy Krueger a Jason Vohoories, da Leatherface a Michael Myers -.
Oculus – titolo peraltro accolto discretamente dalla critica, a quanto ricordi -, purtroppo per i Ford, ha rappresentato l’ennesimo passo falso di un genere che, purtroppo, ha ormai fatto dell’annaspare una sorta di spiacevole consuetudine, partito con premesse se non buone almeno passabili e naufragato in tutti i luoghi comuni cui ormai gli spettatori più smaliziati sono tristemente abituati: a partire da un cast certamente non di primo livello fino ad un crescendo prevedibile e sacrificato nel finale per un ipotetico sequel – tendenza ormai rischiosissima per i film di paura -, Oculus rovina quanto – e non parliamo neppure di così tanto – di buono viene costruito nella prima parte, saggiamente orchestrata in un continuo palleggiarsi tra presente della narrazione e passato – così da motivare anche alcune scelte dei due giovani Russell, più o meno decisi a vedersela ancora una volta con lo strumento che ha provocato la morte dei genitori e tutti i loro incubi peggiori negli ultimi dieci anni – con un confronto banale, assolutamente non spaventoso e prevedibile della seconda parte, che sfrutta tutti i meccanismi classici del genere sperando di ottenere un effetto sorpresa rispetto all’audience che finisce per non essere neppure registrato, un po’ per abitudine e un po’ per un’effettiva mancanza di mordente che rende la minaccia dello specchio sempre più grottesca, e le scelte di logica dei due ragazzi assolutamente in linea con quelle assurde che vengono propinate al pubblico nelle occasioni peggiori offerte in questo campo.
Un peccato, per certi versi, perché la speranza del sottoscritto – specie osservando la prima parte – era quella di poter assistere ad un discreto spettacolo di terrore come fu il riuscito Sinister di un paio d’anni or sono, o il più recente The conjuring, che nel loro piccolo erano perlomeno riusciti a garantire almeno un paio di salti sulla sedia ed una sensazione di inquietudine non da poco: al contrario, in questo modo, si finisce per essere più delusi di quanto non si sarebbe da una pellicola fondamentalmente trash gettata allo sbaraglio nel corso della bella stagione dai distributori nella speranza di riempire la sala giusto con i teenagers speranzosi di sfruttare l’effetto della paura per strappare una limonata dura alla ragazza di turno.
Oculus, dunque, va ad aggiungersi ai numerosi recenti insuccessi di un genere che pare avere sempre più bisogno di un nuovo inizio, e di una sferzata di energia che possa garantire qualcosa che, quasi vi gravasse una maledizione, pare essere stata dimenticata dagli autori di questo tipo di prodotti: il fascino oscuro della paura.
Perché quando quel fascino è presente non contano più gli specchi, le piante morte o gli stratagemmi di bassa lega: il terrore è lì, al nostro fianco, e non possiamo neppure pensare di sfuggirgli.
E a quel punto è un piacere quasi perverso abbandonarsi a lui.




MrFord




"I'm starting with the man in
the mirror
I'm asking him to change
his ways
and no message could have
been any clearer."
Michael Jackson - "Man in the mirror" - 



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