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lunedì 14 ottobre 2019

White Russian's Bulletin



Settimana ai minimi storici al Saloon, considerati gli impegni sociali - non ricordavo quanto fossero fisicamente devastanti i matrimoni -, la palestra, l'appuntamento mensile con il pay per view di wrestling, la clamorosa stanchezza che si accumula per poi esplodere come una bomba il venerdì sera, ormai noto per essere l'alimentatore del coma profondo da divano: solo un titolo, infatti, è passato su questi schermi, di quelli che in questi giorni hanno fatto il giro del web principalmente per l'opera incredibile dalla quale è stato originato.


MrFord



EL CAMINO: IL FILM DI BREAKING BAD (Vince Gilligan, USA, 2019, 122')

El Camino: Il film di Breaking Bad Poster


Breaking Bad è, parlando di piccolo schermo, una delle vette più alte che siano state mai raggiunte, nonchè una delle mie tre serie televisive preferite di tutti i tempi insieme a Lost e Twin Peaks.
Il lavoro che fece Vince Gilligan con Walter White e Jesse Pinkman resta ancora oggi insuperato anche e soprattutto per essere andato in crescendo, senza perdere un colpo ed aggiungendo anzi carichi sempre più importanti fino allo splendido finale.
A distanza di qualche anno e già da prima della sua "pubblicazione" chiacchierato in tutta la rete attraverso Netflix El Camino, vero e proprio film che riprende le fila a partire dagli ultimi episodi della serie per poi rivelarci cosa ne è stato di Pinkman, e dove lo porterà il futuro.
Il fan service è molto - anche se resta un'arma a doppio taglio -, la fotografia ottima, la scrittura ben strutturata - del resto Gilligan ha ampiamente dimostrato di essere uno sceneggiatore fenomenale -, la tensione a tratti in grado di bucare lo schermo - strepitosa la sequenza del "duello" in pieno stile western -: resta, come principale limite di questo lavoro, il fatto che a meno che non si sia finito ieri di guardare l'ultimo episodio dell'ultima stagione si rischia di restare spiazzati da situazioni e charachters che, nel frattempo, si erano dimenticati o quantomeno messi in secondo piano, tanto da dover correre ai ripari ricorrendo a riassunti e simili.
Da questo punto di vista, El Camino resta una pellicola ben realizzata ad uso e consumo dei soli fan di Breaking Bad più che dello spettatore occasionale - che probabilmente non capirebbe una beata mazza di molti degli scambi temporali di narrazione -, e che proprio per questo permette che il dubbio si potesse fare decisamente di più si faccia strada come, ai bei tempi, gli improbabili soci Walter White e Jesse Pinkman nel mondo del traffico della metanfetamina.


martedì 15 maggio 2018

Game night - Indovina chi muore stasera? (John Francis Daley/Jonathan Goldstein, USA, 2018, 100')








Nel corso degli anni sugli schermi di casa Ford sono passate decine - e forse centinaia - di pellicole da neuroni in vacanza perfette per la decompressione da stanchezza nel corso della settimana lavorativa, alcuni decisamente pessimi, altri completamente inutili ed altri ancora che certo non saranno destinati a fare la storia o costituire tasselli importanti della memoria ma che hanno finito per rendere al meglio il loro servizio: Game night - tralascio ogni commento a proposito dell'aggiunta voluta dalla distribuzione italiana - è senza ombra di dubbio parte di quest'ultimo gruppo.
Firmata - in parte - dallo stesso John Francis Daley del guilty pleasure trash personale di qualche anno fa Come ti rovino le vacanze, questa commedia finto nera pronta a ricongiungersi con tutti i voleri del Cinema a grande diffusione funziona nel suo genere dall'inizio alla fine, tiene un ritmo invidiabile e diverte non poco pur rimanendo nel totalmente implausibile e sopra le righe, sfrutta al meglio un gruppo di attori che senza ombra di dubbio si saranno divertiti un mondo a girarlo - è sempre un piacere vedere Rachel McAdams così come Kyle Chandler, indimenticato Coach Taylor di Friday Night Lights - e non porta sullo schermo alcuna pretesa di andare oltre quella che è la sua area di competenza.
In un certo senso, pare quasi di assistere ad una versione comedy di The Game - sopravvalutato film anni novanta per molti divenuto cult - zeppa di citazioni, momenti decisamente spassosi - l'estrazione del proiettile, tanto per citarne uno - ed una serie di situazioni perfette per adattarsi anche e soprattutto al pubblico delle coppie, unendo le speranze di norma maschili di confrontarsi con un pò di azione e quelle di norma femminili di un messaggio o un punto cui arrivare che non sia il semplice esibirsi in pirotecniche sequenze d'azione o gesti al limite dell'incredibile.
Fa il suo ritorno sullo schermo, inoltre, un altro ex grande protagonista del piccolo schermo, quel Michael C. Hall che prima del tracollo delle ultime due annate aveva fatto sognare i fan con Dexter, pronto a rendere ancora più vivace un finale giocato sui colpi di scena ed i continui cambi di prospettiva, degna conclusione di una pellicola senza pause che ha finito per sorprendermi in positivo soprattutto considerate le scarse aspettative che nutrivo fin dalla prima visione del trailer: certo, non aspettatevi qualcosa in grado di cambiare la vostra annata da cinefili, o che possa ispirare post di quelli che si scrivono con il cuore in mano, quanto più che altro uno di quei prodotti che pare una poltrona massaggiante o un piatto particolarmente buono al termine di una giornata non necessariamente andata male, ma che chiede il suo tributo in termini di stanchezza e voglia di staccare la spina da ogni responsabilità mentale.
In questo senso le vicende dei protagonisti fungono da catalizzatore d'attenzione, generatore di risate e antistress per chiunque si accomodi sul divano, aiutando l'audience a dimenticare - o quantomeno non fare troppo caso - a quello che li ha strapazzati durante tutto il giorno e farà lo stesso dalla mattina dopo: come spesso mi è capitato di sottolineare, il Cinema è anche questo, e quando l'idea del popcorn movie finisce per tradursi in intrattenimento senza pretese per quanto mi riguarda tutto fila liscio come l'olio, e pur senza grandi partecipazioni emotive, opere artistiche o colpi di genio, si finisce per crollare nel letto sereni.
E non è cosa da poco.
Anzi, direi che è proprio un bel gioco, come quelli che si fanno tra amici in quelle serate in cui ci si sente leggeri e liberi dai pensieri che si lasciano fuori dal tabellone.



MrFord



mercoledì 7 febbraio 2018

The Post (Steven Spielberg, UK/USA, 2017, 116')




Steven Spielberg è uno dei registi cui ho più voluto bene nel corso degli anni della mia formazione da cinefilo: emblema del Cinema americano nel senso più pieno e "meraviglioso" del termine, dalla fantascienza all'avventura, dalla malinconia alle risate, dal dramma alla commedia, il papà di E.T. è stato una delle certezze sulle quali ho costruito l'amore per la settima arte a stelle e strisce, in barba a tutti i radical che per partito preso ancora oggi la osteggiano.
Peccato che, nel corso degli anni, complici forse il compiacimento ed alcune scelte discutibili, anche lui sia incappato in una serie di pellicole davvero difficili da giudicare per chi l'ha amato: il primo passo lungo questo funesto cammino fu compiuto, per quanto mi riguarda, dal terribile La guerra dei mondi, girato al servizio del divismo di Cruise - che pur è uno dei miei favoriti - nella sua accezione peggiore, per continuare con produzioni di una retorica vomitevole - War Horse -, di una noia mortale - Lincoln - o, più semplicemente, brutte - Il GGG -.
Alle spalle la discreta prova de Il ponte delle spie e con all'orizzonte il potenziale cult che potrebbe essere Ready Player One, lo Stefanone porta in sala una pellicola dal sapore New Hollywood accolta molto bene in patria e pronta a dare battaglia su più di un fronte alla prossima Notte degli Oscar, contando su una solida base tecnica ed un gruppo di veterani decisamente nei favori dell'Academy, da Tom Hanks a Meryl Streep.
Come se non bastasse, sulla carta The Post tocca tematiche molto stimolanti per il sottoscritto, dall'indagine giornalistica alla storia vera, passando per la lotta per la libertà di stampa, uno dei diritti fondamentali della società civile: eppure, lo ammetto, sono uscito dalla visione, purtroppo, frastornato da una freddezza e da una noia di fondo decisamente troppo pesanti per poter considerare questo lavoro come una prosecuzione del cammino del già citato Il ponte delle spie.
Rispetto, infatti, ad un'opera come L'ora più buia - ascrivibile alla stessa tipologia di prodotti quasi pensati per l'Academy -, l'apporto emozionale di The Post è paragonabile a quello di una lastra di ghiaccio sulla quale organizzare un bel giaciglio di fortuna in una serata d'inverno, non proprio il luogo più piacevole in cui si desidererebbe trascorrere una notte in questo periodo dell'anno: senza, dunque, mettere in discussione l'impianto tecnico e scenico, ho finito per considerare The Post come una sorta di versione molto in minore di pellicole di riferimento come Tutti gli uomini del Presidente, un tentativo fuori tempo massimo di presentare un Cinema "di denuncia" che risulta, però, anacronistico rispetto ai tempi e poco simpatico rispetto a tutto il pubblico nato dopo l'epoca in cui si sono svolti i fatti narrati, e forse perfino a quelli che l'hanno vissuta.
Certo, il cast pare un ingranaggio oliato in tutte le sue parti, montaggio, fotografia e ricostruzione sono impeccabili, la forma confezionata nel miglior modo possibile, eppure non solo manca una vera e propria escalation, o una scena madre che rappresenti l'apice della pellicola, ma il tutto assume i connotati della mera operazione stilistica priva di qualsiasi necessità di raccontare una storia che, anche a fronte di spunti interessanti, finisce per ammazzare la storia stessa.
Per essere, dunque, un racconto - o un resoconto, considerato che parliamo di reali accadimenti - costruito per esaltare la libertà di espressione, opinione, stampa e pensiero, l'impressione che ho avuto è stata quella di un esercizio di stile controllato e precisino - non nel senso buono -, di quelli che i secchioni della classe portano a termine per compiacere il professore di turno.
E questo non è certo combattere il Potere come fecero gli uomini e le donne mostrati in questo film.



MrFord



lunedì 2 ottobre 2017

Barry Seal - Una storia americana (Doug Liman, USA, 2017, 115')





C'è sempre stato qualcosa, nel ghigno piacione di Tom Cruise, che a prescindere dalle sue vicissitudini e follie personali ha reso l'attore come uno dei favoriti del sottoscritto, grazie anche alle scelte che l'hanno portato dal Cinema mainstream a quello autoriale, dalla profondità all'azione - senza controfigure -, dalla commedia al dramma, divenendo negli ultimi trent'anni un vero e proprio Peter Pan di Hollywood - sfido chiunque ad arrivare a superare i cinquanta nello stato di forma del buon Tommasino -.
Dunque, ad ogni nuova uscita che vede il suo nome sul cartellone, l'hype del sottoscritto sale inevitabilmente, a prescindere dal fatto che possa trattarsi di un lavoro di cassetta senza grosse pretese - come il recente La mummia - o un potenziale cult: questo Barry Seal - Una storia americana, come al solito pessimo adattamento dell'originale American Made, uscito, occorre dirlo, abbastanza in sordina, aveva dalla sua una serie di argomenti da sempre ben accolti qui al Saloon, dalla guasconeria alla storia vera ambientata nel mondo del crimine e della droga, fino all'ascesa dell'outsider che conduce inesorabilmente lo stesso alla caduta.
Del resto, il "personaggio" di Barry Seal era passato, nel corso degli ultimi anni, attraverso diverse produzioni grazie al suo legame con il ben più famoso Pablo Escobar, da The infiltrator a Narcos, e la sua vicenda era nota alle cronache, quantomeno per chi ha approfondito le questioni legate agli affari che tra gli anni ottanta e novanta legarono Colombia e Stati Uniti in modo particolare.
Peccato che, nonostante la presenza del mitico Tom, di una colonna sonora azzeccata, di un buon ritmo e di una vicenda che suona particolarmente nelle mie corde, Barry Seal risulti essere come tantissimi altri film che il genere abbia prodotto negli anni, da Blow a Scarface - senza fare ovviamente paragoni con quest'ultimo - passando per cose più romanzesche come Le belve.
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque, sia dal punto di vista dell'impatto che tecnico, o di narrazione, dalle valigie piene di soldi all'escalation che porta l'uomo della strada a scoprire i piaceri del crimine per poi ritrovarsi tra le mani la patata bollente che lo stesso porta in dote, dovendo scegliere - e spesso, in questi casi, le scelte sono sempre sbagliate - tra una ritirata strategica e meno remunerativa ed una permanenza lucrativa quanto ovviamente rischiosa.
Interessante il cast, buono il montaggio, eppure qualcosa manca all'intera proposta, davvero priva della personalità necessaria per rimanere impressa soprattutto al pubblico di appassionati di crime che in questi casi risulta particolarmente esigente: si guarda, ce la si gode, si colgono oppure no citazioni legate ad altre pellicole e serie che hanno portato sullo schermo questo tipo di storie vere, ma il giorno successivo alla visione tutto pare scemare come i ricordi confusi di una serata di eccessi.
Un pò come Barry Seal, che sarà stato un pilota fenomenale, ma che con il passaggio da squalo dell'aria a squalo tra squali, non mi pare abbia guadagnato più di tanto: e non parlo di denaro.




MrFord




 

venerdì 1 aprile 2016

The program

Regia: Stephen Frears
Origine: UK, Francia
Anno: 2015
Durata: 103'







La trama (con parole mie): David Walsh, giornalista sportivo del Sunday Times che intervistò Armstrong ai tempi dei suoi esordi e si convinse del suo talento, nel corso del primo Tour vinto dal ciclista americano tornato alle corse dopo la battaglia vinta contro il cancro comincia a coltivare il sospetto che, dietro l'incredibile successo di quello che è destinato a diventare uno degli sportivi più famosi e rispettati al mondo in realtà si celi l'utilizzo di sostanze illecite.
Inizia così per Walsh una sorta di sotterranea battaglia con Armstrong fatta di supposizioni, articoli, sospetti e lotte legali, che pare definitivamente perduta nel momento in cui viene effettivamente riconosciuto il fatto che il vincitore di sette Tour non sia mai risultato positivo ad un controllo ed imposto un risarcimento da parte del Sunday Times ed il ritiro dello stesso Armstrong.
Al ritorno alle competizioni di quest'ultimo nel duemilanove, però, la partita si riapre.







Considerati lo stretto contatto del sottoscritto con il ciclismo - che assocerò per sempre alla figura di mio padre -, la visione del documentario The Armstrong lie e l'opinione comune, avevo davvero molta paura di affrontare in maniera equilibrata la visione di The program: il rischio, infatti, che fosse un film con un'unica direzione pronto a ritrarre il ciclista texano come una sorta di diavolo in Terra, considerato il fatto che è stato tratto dal libro inchiesta realizzato da uno dei primi e suoi più grandi detrattori - il David Walsh che è anche narratore della vicenda -, era piuttosto alto, così come probabile, in quel caso, sarebbe stata l'ipotesi delle bottigliate.
Stephen Frears, invece, pur non realizzando il film sportivo del secolo, porta sullo schermo un prodotto solido ed in grado di raccontare la vicenda che ha visto trionfare prima e dunque cadere rovinosamente uno degli sportivi più idolatrati ed idealizzati di sempre, Lance Armstrong, senza per questo indulgere nella faziosità da un lato o nella retorica dall'altro: il campione texano è riportato fedelmente per quello che è - un drogato di vittorie e di potere, a prescindere dall'assunzione di farmaci proibiti, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per difendere la sua posizione ed il suo status, ma anche un lottatore estremo, in grado di fronteggiare il cancro ed uno scadalo che avrebbe seppellito molti altri ed uscirne tutto sommato indenne -, interpretato benissimo dal sempre troppo sottovalutato Ben Foster pronto a capitanare un cast ben assortito ed in parte, dall'ottimo Guillame Canet nel ruolo del medico italiano Michele Ferrari, per anni preparatore di Armstrong e del suo team a Jesse Plemons, quasi irriconoscibile rispetto alla seconda stagione di Fargo nel ruolo della "nemesi" di Armstrong Floyd Landis, tra i responsabili, con le loro testimonianze, della revoca delle vittorie al Tour dell'ex iridato statunitense.
Di fatto, Frears e gli autori riescono nell'intento di mostrare senza perdere troppo l'equilibrio i lati umani - in senso sia positivo che negativo - del loro protagonista e degli uomini che attorno a lui hanno ruotato in quegli anni, sfruttando l'onda del suo successo o, in alternativa, la mano pesante di un certo suo dispotismo - ottima la scelta di riportare fedelmente il faccia a faccia in corsa tra Armstrong e Simeoni, concluso con la quasi inquietante espressione dello stesso Armstrong che a favore di camera fece il gesto di chiudersi la bocca con una cerniera -: con questo The program, pur se in misura minore rispetto al già citato The Armstrong lie, è interessante notare come, a prescindere dalle colpe dell'egotico Lance, in conclusione risulti essere più forte la critica ad un sistema - quello del ciclismo - da sempre probabilmente segnato dalla questione doping che, di fatto, fino a quando continuerà a funzionare basandosi sulla spettacolarizzazione sempre maggiore dei grandi giri ed alla durezza di alcune competizioni - come il Tour -, difficilmente riuscirà a cambiare davvero strada, Armstrong squalificato a vita oppure no.
Senza dubbio, comunque, quella dell'ex sette volte trionfatore degli Champs Elysees è una vicenda clamorosamente cinematografica e vissuta al massimo dal suo protagonista: da giovane promessa pronta a gettarsi nel doping pur di colmare il gap con gli avversari che già ne facevano uso a vittima di un cancro terminale sconfitto quasi a sorpresa, dal ritorno in bicicletta ai trionfi al Tour, che mai nessuno aveva dominato in quel modo netto e perentorio, dal ritiro al secondo ritorno, dettato dall'ingordigia e dalla voglia di primeggiare sempre e comunque, che gli costò tutto quello che aveva costruito, fino alla confessione in diretta tv da Ophra - curioso, in questo senso, che con il documentario Alex Gibney decise di aprire il film proprio con l'appena citato faccia a faccia, mentre Frears sceglie, al contrario, di chiudere il suo lavoro con lo stesso passaggio - .
Probabilmente molti, nel mondo dello sport - anzi, forse quasi tutti - potranno solo sognare, nel corso di un'intera carriera, una serie di vittorie così clamorose ed una sconfitta senza appelli e su tutta la linea, eclatante quanto l'insieme di tutti i trionfi: ma del resto, doping o no, i migliori, i sopra le righe, quelli destinati a lasciare un segno, finiscono per lasciarlo.
Sempre e comunque.





MrFord





"You are the one that's creeping,
you are the one that's cheating,
but if your heart is beating,
bring it on, bring it to me."
John Newman - "Cheating" - 




lunedì 25 gennaio 2016

Fargo - Stagione 2

Produzione: FX
Origine: USA
Anno:
2015
Episodi: 10






La trama (con parole mie): siamo nel millenovecentosettantanove, in Minnesota. La famiglia Gerhardt, da tempo dominatrice della malavita locale, alle prese con la decadenza del suo leader Otto, si trova alle strette rispetto alla Mafia di Kansas City, pronta a mettere le mani sulla loro fetta di territorio a tutti i costi.
Quando Rye, il più giovane della dinastia, decide di imporre il proprio carattere tentando il colpo uccidendo un giudice locale finendo per causare un massacro in un caffè e la propria morte, il caos ha inizio: le forze di polizia locali, rappresentate da Hank Larsson e Lou Solverson, rispettivamente suocero e genero, i coniugi Ed e Peggy Blumquist, macellaio e parrucchiera, e gli stessi Gerhardt, si troveranno a giocare tutte le loro carte al cospetto di un Destino che pare sempre e comunque più grande di quanto potranno mai pensare.













Se si dovesse pensare alla giungla più selvaggia all'interno della quale giocarsi la propria esistenza, non avrei dubbi nel rispondere che si tratti di quella umana.
Allo stesso tempo, credo non ne esista un'altra in grado di smuovere emozioni così forti, o una partecipazione tale, nel bene e nel male, da cambiare una vita intera.
Nel corso della prima stagione di Fargo, avevamo assistito ad un delinearsi progressivo del prototipo del predatore organizzato e consapevole così come di quello pronto a formarsi passo dopo passo, nel pieno rispetto della pellicola che l'aveva ispirata e delle riflessioni che portarono la stessa season one a giocarsi lo scettro di migliore del duemilaquattordici con True Detective.
Con il passo indietro temporale di questo secondo giro di giostra, di fatto, assistiamo ad un approfondimento delle stesse tematiche reso ancor più coinvolgente e di pancia dall'amplificazione che avviene, di fatto, rispetto al concetto di Famiglia da una parte e dall'altra del confine tracciato dalla Legge.
Dai charachters assolutamente perfetti di Ed e Peggy Blumquist alla convinzione distorta della propria forza dei Gerhardt, passando attraverso l'approccio tutto d'un pezzo di Lou Solverson ed Hank Larsson, assistiamo ad un progressivo precipitare tratteggiato alla grande sia in termini di sceneggiatura che di ritmo, impreziosito da episodi destinati a diventare riferimenti del genere - in particolare il settimo e l'ottavo, protagonisti di uno scambio temporale perfetto - e spalle indimenticabili - Hanzee finisce, di fatto, per essere la pietra angolare del bad guy da tutti i punti di vista - pronte a fornire assist perfetti a protagonisti che dalla prima apparizione finiscono per diventare indimenticabili - Mike Milligan, da uomo di forza a uomo di sistema, parabola inquietante e quasi orrorifica del cambiamento legato al mondo del crimine organizzato in tutto il mondo -.
Con la seconda stagione, dunque, Fargo non solo finisce per battere la concorrenza del suo rivale più agguerrito - il già citato True detective -, ma anche per superarlo, trasportando lo spettatore in una provincia da Western profondo e noir sarcastico, quasi comico ed assolutamente grottesco, in grado di raccontare storie profondamente drammatiche e di sdrammatizzarne altre senza darsi alcun tono autoriale e supponente - splendidi, in questo senso, i due dialoghi che vedono protagonista la lettrice accanita addetta alla cassa in macelleria prima e dunque baby sitter dei Solverson confrontarsi con Ed e la moglie di Lou a proposito dell'appoccio "filosofico" alla morte -.
E i sogni californiati di Peggy incarnati da una baia che non si vedrà mai davvero e quelli di un linguaggio universale auspicato da Hank, che sogna per la figlia un futuro che superi il suo, fanno da contraltare a quelli materiali e senza perdono o ritorno dei Gerhardt e di Milligan, delle occasioni pronte a complicare la vita e delle casualità, degli approcci violenti e privi di empatia di chi non sa ancora dove andare, ma sa che si muoverà grazie alla forza come unica risposta.
Ed il fantasma della guerra che popola il tutto di sensi di colpa o tentativi di redenzione finisce per rendere questa seconda stagione di Fargo ancora più intensa e travolgente della prima, tanto da stuzzicare la curiosità non solo di noi spettatori, ma anche di alieni provenienti da chissà quale altro mondo.
Del resto, la passione miete sempre vittime.
C'è da sperare soltanto che, una volta o l'altra, siano quelle giuste, a poter vedere l'alba e sognare un mondo dove non sia necessario lottare per forza per sopravvivere ai predatori.





MrFord





"Up all night long
and there's something very wrong
and I know it must be late
been gone since yesterday
I'm not like you guys
I'm not like you."

Blink 182 - "Aliens exist" - 






giovedì 7 gennaio 2016

Il ponte delle spie

Regia: Steven Spielberg
Origine: USA, Germania, India
Anno:
2015
Durata:
141'






La trama (con parole mie): siamo sul finire degli anni cinquanta quando a New York viene catturata dai servizi segreti statunitensi la spia russa Rudolf Abel, da anni al servizio dell'Unione Sovietica e legata alle informazioni trapelate dagli USA a proposito dei progressi nella corsa agli armamenti.
L'avvocato assicurativo con passato da penalista James B. Donovan viene assegnato alla Difesa dell'uomo in tribunale dai soci più anziani del suo studio, per dimostrare che negli Stati Uniti è garantito il rispetto legale anche a fronte di casi di spionaggio straniero: nel corso della preparazione al processo, Donovan stringe un legame particolare con Abel, e forte della sua ferma convinzione di fornire all'assistito la migliore assistenza possibile riesce ad ottenere una pena che non preveda l'esecuzione capitale.
Questo successo tornerà utile agli States quando, quasi contemporaneamente a questi eventi, un pilota della marina abbattuto in territorio sovietico ed un giovane studente di economia arrestato dalla polizia della Germania Est diverranno pedine di scambio per la restituzione a Mosca di Abel: per reggere le fila delle negoziazioni a Berlino sarà dunque chiamato proprio Donovan.










Avevo davvero non pochi timori della vigilia, rispetto a questo Il ponte delle spie, ultimo lavoro del mostro sacro Steven Spielberg uscito in sordina poco prima di natale nel pieno del fervore pubblicitario legato all'approdo in sala del capitolo sette della saga di Star Wars: del resto, considerati gli ultimi, pessimi War Horse e Lincoln, le quotazioni qui al Saloon del vecchio Steven avevano subito un sostenuto tracollo, e l'idea di una spy story dal sapore fin troppo classico suonava stonata anche ad un fan sfegatato del Cinema made in USA come il sottoscritto.
Fortunatamente, e nonostante un soggetto old school, una narrazione che più classica non si potrebbe immaginare, un approccio che ricorda i film dell'epoca dei grandi Studios, il risultato finale dell'ultima fatica dell'autore di cult come Duel e Lo squalo - solo per citarne un paio a caso - è senza ombra di dubbio più che discreto, tecnicamente impeccabile - come sempre quando si tratta di Spielberg, del resto -, dal ritmo sostenuto nonostante, di fatto, di tutto si tratti tranne che di un prodotto d'azione, dall'ottima e funzionale atmosfera e dalla sincera voglia di riflettere e colpire la pancia ed il cuore dell'audience da parte non solo del regista, ma anche degli autori - tra i quali si fanno notare anche i Coen, che pizzicano in almeno un paio di punti della sceneggiatura con i loro guizzi grotteschi -.
La vicenda - ispirata alla storia vera - dell'avvocato James B. Donovan pare una di quelle vecchie storie che avrebbero potuto raccontare i nostri nonni, intrisa fino al midollo di stelle e strisce eppure allo stesso tempo mai davvero sguaiatamente retorica o eccessiva in questo senso: la caccia alle streghe subita dallo stesso protagonista a causa della sua fermezza nel voler esercitare la professione al meglio per difendere la spia russa Abel - ottima spalla, tra l'altro - ed il rapporto che si evolve tra i due anche quando, di fatto, il focus della pellicola si sposta completamente sull'avvocato letteralmente gettato in pasto al mondo dello spionaggio nel cuore di una Berlino straziata dalla costruzione del Muro, come se non bastasse, mostrano in più di un punto le falle di un Sistema che senza dubbio ha al suo attivo più successi che scivoloni ma che cela - e neppure troppo bene - ben più di un'ombra - e ovviamente parlo di quello statunitense, considerato che, ormai, i deprecabili approcci della Stasi nella Germania Est e dell'URSS sono di fatto consegnati alla Storia -.
Ed è proprio sull'equilibrio tra volontà e rispetto - in una certa misura non solo politica - dei due motori della vicenda - Abel e Donovan, per l'appunto - che si giocano tutte le carte vincenti del film, soprattutto dal punto di vista emotivo: paradossalmente per una pellicola che trasuda States, si finisce per empatizzare molto più con il tranquillo e distaccato agente sovietico rispetto al pilota americano finito dall'altra parte della Cortina di ferro, così come per Donovan a confronto con una sfilza di agenti senza scrupoli, comandanti dell'Esercito pronti a sacrificare i propri uomini ma non le informazioni delle quali sono a conoscenza, burocrati ed avvocati dell'Est al soldo del Regime e via discorrendo.
Di fatto, Spielberg sceglie di premiare, ancora prima del patriottismo e dell'acqua al proprio mulino, l'integrità di uomini "tutti d'un pezzo" che vivono di un'etica - lavorativa ed umana - ormai purtroppo d'altri tempi - se mai tempi di questo tipo si sono vissuti, sulla Terra -, per una volta premiati proprio per questa qualità: un Cinema d'altri tempi fondato su valori d'altri tempi, dunque, che, senza dubbio, è sempre un piacere vedere ed ascoltare, un pò come capiterebbe con un nonno senza dubbio burbero ma saggio e consapevole di come gira il mondo.
Anche quando gira nel modo sbagliato.




MrFord





"In Europe and America, there's a growing feeling of hysteria
conditioned to respond to all the threats
in the rhetorical speeches of the Soviets
Mr. Krushchev said we will bury you
I don't subscribe to this point of view
it would be such an ignorant thing to do
if the Russians love their children too."

Sting - "Russians" - 







mercoledì 21 ottobre 2015

Black mass - L'ultimo gangster

Regia: Scott Cooper
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 122'





La trama (con parole mie): a partire dalla seconda metà degli anni settanta James "Whitey" Bulger, piccolo boss di Boston, grazie ad un accordo con l'agente FBI nonchè suo amico d'infanzia John Connolly, conquista un potere sempre maggiore che finisce per andare ben oltre i confini della città.
Nonostante l'ascesa in politica del fratello Billy e le tragedie che colpiscono la sua famiglia, Bulger prosegue nella sua carriera alternando strategia e violenza efferata, costruendo un impero che l'FBI stessa impiegherà anni a smantellare e che avrà una parola fine soltanto quando, con gli Anni Zero ormai suonati, dopo oltre un decennio di latitanza, il vecchio Whitey verrà finalmente arrestato.
Ma la sua storia ha sfumature che ognuno dei suoi vecchi compagni e collaboratori finisce per rendere più ricche e terribili.









I crime movies, con le loro storie epiche, dolenti e terribili di ascese vertiginose ed inevitabili cadute sono stati una parte fondamentale della formazione del sottoscritto da cinefilo, dalle grandi epopee scorsesiane di Quei bravi ragazzi e Casinò ai cult Scarface e Carlito's Way, passando attraverso la saga de Il padrino, Melville e la produzione orientali: il fatto, forse, di aver sempre pensato che, se fossi nato in un contesto sociale differente, forse questa sarebbe stata la mia strada, ha sempre contribuito ad aumentare il fascino di figure controverse, oscure e senza dubbio ben oltre i confini della socialità per come la viviamo ogni giorno.
L'ultimo lavoro di Scott Cooper - da queste parti apprezzato sia per Crazy heart che per il successivo Out of the furnace - rientra perfettamente nel filone, è molto scorrevole e godibile, confezionato più che discretamente e vanta un cast importante ed il grande merito di aver riportato Johnny Depp a livelli quantomeno interessanti dopo i recenti, disastrosi exloit commerciali - Mortdecai su tutti -: racconta, inoltre, la vicenda di uno dei boss più tosti e terrificanti di South Boston, James "Whitey" Bulger, che per quasi un ventennio dominò la scena irlandese della città e fino a pochi anni fa risultava ancora latitante ed inserito nella lista dei criminali più pericolosi ricercati dall'FBI.
Peccato che, nonostante la confezione artigianalmente ben realizzata ed una vicenda che qui al Saloon, di fatto, gioca in casa, il risultato sia solo di medio livello, e Black Mass non manifesti la scintilla in grado di elevare un film allo status di cult o quantomeno di visione imperdibile per una stagione cinematografica: in particolare, ho trovato la sceneggiatura piuttosto elementare, lineare nel cercare di focalizzarsi sugli eventi principali della carriera di Bulger senza però, di fatto, approfondire nulla, rimanendo in superficie piuttosto che regalare al prodotto lo spessore necessario perchè lo stesso possa avere possibilità di rimanere davvero impresso nella memoria del pubblico: dall'appena accennata differenza tra il Bulger padre ed il Bulger boss al dramma della perdita dell'unico figlio, fino alle sfumature praticamente azzerate dei comprimari e co-protagonisti, molto spesso tagliati con l'accetta, si ha di fatto l'impressione di aver assistito ad un compitino molto ben svolto privo, però, del carattere e della grinta necessari per guadagnarsi un posto al sole.
Un passo indietro, dunque, per Cooper, che si conferma onesto artigiano ma poco più, e per il sempre celebratissimo Benedict Cumberbatch, appiattito come la pellicola, mentre oltre a Depp si difendono molto bene il giovane Jesse Plemons, la conferma Peter Sarsgaard e l'insospettabile Joel Edgerton, che ho sempre considerato un vero cane mentre in questo caso regala fisicità e spessore al personaggio forse più oscuro e viscido della pellicola, il bieco John Connolly, paradossalmente più detestabile del violento e pericolosissimo Bulger, che quantomeno resta fedele al suo ruolo ed a se stesso.
Solo qualche spunto, comunque, rispetto ad una potenzialità che, probabilmente, nelle mani di un regista e di uno sceneggiatore più consistenti avrebbe potuto trasformare Black Mass in una di quelle chicche destinate a formare una generazione di spettatori: visione alle spalle, invece, si ha soltanto l'impressione di aver assistito ad uno spettacolo buono come riempitivo da rispolverare di tanto in tanto per passare un pò di tempo con la sicurezza di cadere in piedi.
Troppo poco, però, per rendere davvero il concetto di "Black mass".
E secondo me, troppo poco anche per un personaggio come quello di James Bulger.
Che, dovesse mai assistere a questo spettacolo, potrebbe non essere così soddisfatto.
E non è mai un buon affare, scontentare il vecchio Whitey.




MrFord




"But in the end, baby
long towards the end of your road
don't reach out for me, babe
'cause I'm not gonna carry your load
but I'll live on and I'll be strong
'cause it just ain't my cross to bear."
The Allman Brothers Band - "It's not my cross to bear" - 





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