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mercoledì 27 gennaio 2016

Steve Jobs

Regia: Danny Boyle
Origine: USA, UK
Anno: 2015
Durata: 122'






La trama (con parole mie): attraverso tre episodi chiave della sua carriera - la presentazione del Mac nell'ottantaquattro, quella di Next nell'ottantotto e dell'IMac nel novantotto - scopriamo l'uomo dietro la leggenda di Steve Jobs, creatore e direttore d'orchestra di una delle realtà industriali e di cultura pop più importanti dell'ultimo secolo, Apple.
Dall'ego smisurato ai complicati rapporti con i colleghi e la figlia, così come con il suo passato di bambino adottato, passando per i confronti che l'hanno portato sotto i riflettori sia da un punto di vista umano che lavorativo, scopriamo i fiumi di parole ed i rari, intensi silenzi di un innovatore che seppe sfruttare al meglio il suo talento di sfruttare ed organizzare il talento di altri.










Non sono mai stato un patito di tecnologia.
Ricordo i tempi delle cassette riavvolte con le Bic, il passaggio al lettore cd, internet visto come un mondo da scoprire la prima volta che lo provai in ufficio, quando ancora averlo in casa era quasi fantascienza, almeno in Italia, il primo cellulare, ma di fatto, niente che mi abbia fatto emozionare davvero.
Personalmente, ho memoria dell'IMac soltanto perchè, nei primi anni zero, tutti i disegnatori con i quali lavoravo ai tempi della mia scellerata avventura come sceneggiatore di fumetti l'avevano: e penso di avere totalmente ignorato la vita e le imprese di Steve Jobs - fatta eccezione per i riferimenti alla Pixar - fino alla sua morte.
Curioso, in questo senso, che io sia e sia stato un utente Apple, almeno in parte.
E che tutta l'intuitività dei prodotti della Mela non abbia fatto mai particolarmente breccia, qui al Saloon.
Non troppo tempo fa, nonostante i suoi palesi limiti ed una certa banalità di fondo, avevo finito perfino per sopportare, come fosse un film d'intrattenimento senza pretese, il primo biopic - piuttosto scialbo - dedicato a quella che è stata l'anima di un'azienda che ha cambiato a suo modo il mondo, il "direttore d'orchestra" di un gruppo di ragazzi che da un garage di Cupertino, in California, ha di fatto conquistato l'intero pianeta.
Ma è stato come non avere il polso della situazione, del personaggio, della quadratura del cerchio, fino alla visione dello Steve Jobs di Danny Boyle - per una volta imbrigliato e sobrio con la macchina da presa - ed Aaron Sorkin, che si conferma uno degli sceneggiatori più mostruosi che il Cinema americano abbia in forza attualmente: personalmente, le aspettative rispetto a questo anomalo biopic erano piuttosto basse, complici il recente fallimento del suo regista - al quale ho sempre voluto bene, sia chiaro -, In trance, e l'idea dell'inutilità di fondo di un secondo lungometraggio dedicato al guru dell'Apple nel giro di un paio di stagioni cinematografiche, dunque ho finito per approcciare la pellicola nel modo più distante e critico possibile.
E cosa orchestrano, sfruttando un cast in stato di grazia - dalla conferma Fassbender all'ormai veterano caratterista Jeff Daniels, passando per un sorprendente per il ruolo Seth Rogen e la garanzia Kate Winslet - i già citati Boyle e Sorkin?
Un vero e proprio tripudio di classe, una versione backstage di un biopic classico, che punta più a mostrare i fantasmi del personaggio che racconta che non il personaggio stesso - in questo senso, parliamoci chiaro, Steve Jobs era decisamente un sacco di merda -, una sorta di versione realistica e travolgente di Birdman che, spogliato dai manierismi e dalle lungaggini, interpreta una delle realtà più importanti della società attuale - e parlo in termini pop, non tecnologici - ed il suo fautore, un uomo che non ha avuto paura di farsi odiare finendo, di fatto, per costruire un impero e farsi amare da più generazioni di utenti che, di fatto, lo hanno consacrato quasi al livello di un'icona religiosa.
Ed è davvero un'impresa non da poco, inchiodare alla sedia con un ritmo forsennato il pubblico incentrando l'intera ossatura di un film su un personaggio che, in termini di empatia, non ha davvero nulla da dare, affidandosi esclusivamente a dialoghi serrati, montaggio ed una regia che è una rasoiata, più che a retorica o facili stratagemmi: ci si appella a meccanismi istintivi ed umani, al non detto che, nella vita di tutti i giorni di ognuno di noi, direttori d'orchestra o no, finisce per influenzare in modo definitivo anche tutte le parole che buttiamo su qualsiasi palco della nostra esistenza.
E questo è il vero miracolo di un film di questo genere, che sento già in molti considerare freddo, distaccato, verboso, noioso, lontano, egocentrico: un pò come il suo protagonista.
Onestamente, non mi è mai fregato un cazzo, di Steve Jobs, se non come monito che tutto lo status, i soldi e l'influenza possibili non riusciranno mai e poi mai a salvarci dal Destino almeno quanto l'ultimo dei poveri stronzi.
Eppure, nel corso di queste due ore, Steve Jobs l'ho sentito sulla pelle.
Più di quanto il Mac o l'IPod siano mai riusciti a fare.




MrFord





"Outside of the window
I was sticking with you
we were only kids then
I was staying at yours
sheltered in our own worlds."

The Maccabees - "Grew up at midnight" - 







lunedì 19 ottobre 2015

Sopravvissuto - The martian

Regia: Ridley Scott
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 141'





La trama (con parole mie): Mark Watney, astronauta membro del gruppo di scienziati della Missione Ares, destinati a rimanere su Marte per un mese circa, durante un'evacuazione del rifugio a causa di una violenta tempesta viene colpito da un detrito che lo lascia privo di sensi e distrugge il sensore biometrico della tuta. Creduto morto dai compagni che abbandonano la postazione e ripartono alla volta della Terra, Mark si risveglia ancora vivo e solo, costretto a razionare il cibo ed ingegnarsi in modo da approntare una coltivazione di fortuna e ripristinare le comunicazioni con la NASA.
Individuato dai suoi colleghi e capi sulla Terra, ha inizio un lungo percorso che prevede un piano di recupero che possa garantire la sopravvivenza dell'esule e, dunque, lo veda raggiunto da scorte sufficienti a coprire il tempo che lo separa da una nuova spedizione su Marte.
Questo, ovviamente, a meno di imprevisti.








Esistono pochi registi al mondo in grado di vantare un inizio di carriera fulminante come quello di Ridley Scott: I duellanti, Alien e Blade runner, infatti, non solo si imposero da subito come cult imprescindibili, ma ancora oggi - soprattutto i due sci-fi - vengono guardati e rispettati da appassionati ed addetti ai lavori come pietre miliari.
Peccato che, nonostante i successi ed i premi raccolti, il cineasta inglese non si sia più ripetuto a quei livelli, finendo per essere considerato - a tratti a ragione - come un tecnico impareggiabile che ormai, però, aveva fatto il suo tempo e detto tutto quello che aveva da dire: nonostante tutto, scivoloni compresi, non sono comunque mai riuscito a non volergli bene, e da robette come Un'ottima annata a troppo bistrattati colpi di testa trash come The counselor ho continuato a sostenerlo apprezzando opere artigianali ma efficaci come American gangster o Robin Hood.
Questo Sopravvissuto - The martian, trainato dalla fama di un romanzo - che non ho ancora letto, occorre sottolinearlo - considerato un must e sceneggiato da un giovane rampante come Drew Goddard - il genietto dietro lo splendido Quella casa nel bosco - è giunto in sala accolto dunque dal dubbio: avrebbe sancito una rinascita del vecchio leone Scott, o la sua definitiva cancellazione dalle liste dei nomi da seguire?
La risposta, visione alle spalle, pende senza dubbio più dalla parte della prima e più rosea ipotesi, e pur non avendo avuto lo stesso sconvolgimento dalla visione come fu per i già citati Alien e Blade Runner, The martian è risultato un solido, avvincente, ben equilibrato film di fantascienza old school, emozionante quanto basta per piacere al pubblico mainstream, curato nel minimo dettaglio con tanto di strizzate d'occhio agli appassionati ed introspettivo abbastanza da stimolare anche il pubblico più radical filosofeggiante: e dagli effetti speciali - splendida la ricostruzione della superficie di Marte - al cast - efficace Matt Damon, azzeccato ed all star il resto degli interpreti, seppur pesi un pò il sacrificio in termini di minutaggio di Jessica Chastain -, passando per lo script e l'equilibrio tra la versione marziana di Cast away e la missione di salvataggio, il risultato è quello di una sorta di fratello più pane e salame di Interstellar, all'interno del quale, più che perdersi per ritrovarsi, si finisce per specchiarsi nella volontà di portare a casa la pelle e nel desiderio estremo di vivere e resistere del protagonista, dalle scoperte ai fallimenti, fino alla preparazione per il tentativo di recupero che potrebbe anche costargli la vita - realizzato con un ottimo montaggio, firmato nientemeno che da Pietro Scalia, altro veterano del Cinema, che vede gli studi prodotti nei laboratori della NASA ed applicati da Mark su Marte -.
Uno sci-fi old school che funziona dunque in toto, e per quanto poco probabile risulti la fase finale dell'operazione di recupero importa relativamente: in fondo, la fantascienza esiste - come il Cinema stesso - anche e soprattutto per farci sognare, e guardare a quei momenti magici guidati dai sospiri quasi malinconici di chi ha provato sulla pelle l'adrenalina che nessun altro potrà mai provare e torna alla normalità per poterlo "solo" raccontare: un pò come se un supereroe appendesse il costume al chiodo e dovesse vivere a misura del mondo per tutto il resto della sua esistenza.
Eppure, anche così - ed è bellissima la panoramica sui membri della missione alla vigilia della Ares successiva alla loro, con le esistenze e le scelte che le hanno condizionate a fare da cornice -, nessun brivido e nessuna missione disperata o spazio siderale finisce per eguagliare la meraviglia della vita che avanza nel più semplice e naturale dei modi.




MrFord




"Hanno detto c'è un guasto banale , ma Mc Kenzie può ancora arrivare , ed intanto si è perso il contatto , c'è chi dice "C'è stato un impatto".
Son passati 2 anni a settembre, di Mc Kenzie non resta più niente, solo un nastro che ha registrato una voce di un uomo impaurito.
"Hel me, help me, help me !" . Poi silenzio non si sente niente più. Solo "Help me,help me, help me! Soccorso! Help me!". Poi silenzio e niente più."
Elio e Le Storie Tese - "Help me" - 





martedì 5 febbraio 2013

Looper

Regia: Rian Johnson
Origine: USA, Cina
Anno: 2012
Durata: 119'




La trama (con parole mie): nel 2074 i viaggi nel tempo verranno considerati fuorilegge, e le organizzazioni criminali non avranno più modo di sfruttarli per i loro traffici. Unica loro possibilità sarà quella di eliminare chi deve essere eliminato tramite un contatto tornato indietro al 2044 a capo di un gruppo di sicari chiamati Loopers, che si occupano di fare fuori i malcapitati che la mala del futuro spedisce loro per direttissima già incappucciati ed immobilizzati, nonchè carichi dell'argento che funge da pagamento per la commissione.
A volte può capitare che un Looper chiuda il suo stesso cerchio uccidendo il suo io del futuro, ed in quel caso ha diritto ad una sostanziosa liquidazione che gli permetta di vivere i suoi ultimi trent'anni nell'agio più estremo.
Quando Joe viene messo ko dalla sua versione anziana giunta nel presente per vendicare la moglie uccisa dagli uomini di un nuovo, potentissimo boss che pare pronto a chiudere i cerchi di tutti i Loopers, si ritrova alle costole l'organizzazione che ormai lo ha bollato come traditore e scopre di dover fermare la sua versione matura che pare intenzionata ad uccidere quello stesso boss ancora bambino.




I viaggi nel tempo sono senza dubbio una delle realtà cinematografiche che mi ha affascinato di più fin dai tempi dell'infanzia, quando strabuzzavo gli occhi di fronte alle meraviglie di gioiellini come Ritorno al futuro o Terminator, costruiti interamente sul concetto non soltanto dello spostamento temporale, ma anche e soprattutto sull'idea di cambiare il passato per poter di conseguenza modificare il futuro.
Con riferimenti di questo tipo di fronte, non dev'essere stato affatto facile per un regista cimentarsi in un genere decisamente ostico, che rischia di confondere il pubblico e diventare un castello di carte destinato, in un modo o nell'altro, a crollare inesorabilmente: Rian Johnson, giovane cineasta e sceneggiatore fino a questo momento praticamente sconosciuto - la cosa più importante che porta la sua firma è l'interessante episodio della terza stagione di Breaking bad tutto incentrato su una mosca - raccoglie la sfida e la gestisce decisamente bene, tanto da confezionare un lavoro che non sarà memorabile ma che rappresenta un più che discreto nuovo elemento per un ambito della sci-fi che la storia recente della settima arte pareva avere colpevolmente abbandonato.
Fatta eccezione di un paio di sbavature nello script, qualche minuto di troppo rispetto alla durata e per il trucco pessimo di Gordon-Levitt che non ho capito se applicato per indurirne i lineamenti o se per renderlo più credibile come versione giovane di Bruce Willis, il resto funziona e si lascia guardare in scioltezza, alternando momenti in cui è l'azione a farla da padrona - la sparatoria in pieno stile Die hard che vede il vecchio Joe contrapposto ad Abe ed i suoi pistoleri - ad altri decisamente più votati all'introspezione - tutta la parte ambientata nella fattoria e legata al rapporto tra il giovane Joe, la combattiva Sara ed il piccolo Cid -, a mio parere i migliori della pellicola.
Il doppio cammino narrativo, inoltre, permette ai protagonisti - ovvero le due versioni del Looper in fuga - di mantenere su differenti piani anche l'evolversi della vicenda, lasciando al vecchio Joe la parte più "terrena" della vicenda e a quello giovane i sentimenti ed i riferimenti all'eredità di un altro cult degli anni ottanta, quell'Akira nato dalle pagine del Capolavoro a fumetti di Otomo e divenuto poi film d'animazione ed oggetto di culto per i fan della generazione di Rian Johnson - e della mia, a dirla tutta -.
Il crescendo finale, tutto incentrato sui poteri del piccolo Cid, porta alla mente proprio l'appena citata opera nipponica, e sfodera il meglio sia per quanto riguarda gli effetti ed il tocco - splendida la carrellata laterale sulla fattoria sventrata dall'esplosione di rabbia telecinetica del bambino - che rispetto ai contenuti, tornando ad affrontare il cardine ed il senso dei viaggi nel tempo: cosa comporta la possibilità di tornare indietro per poter cambiare la Storia? E dove porta?
E' davvero possibile pensare che esista un futuro migliore, e che la via per trovarlo sia proprio quella percorsa? E' l'azione a giustificare i mezzi, o il contrario?
Ha più senso il desiderio di vendetta del vecchio Joe, che ha visto portarsi via la donna che l'aveva salvato, l'amore della sua vita, il significato del suo Tempo, oppure il futuro di un bambino dai poteri quasi divini, in grado di poter essere puro Bene o altrettanto terrificante Male?
L'amore cui rinuncia una persona ormai giunta all'ultima parte della sua vita o quello di una madre, che potrebbe cambiare il corso di un'esistenza ancora al principio?
Con queste carte si ritrova a dover fare i conti Joe, quello del presente, che non avrà più la vita che avrebbe avuto, e potrebbe pensare di costruirne una nuova da zero: una scelta che è tra il passato che è il suo futuro, ed il futuro che segnerebbe la fine di tutto quello che poteva essere, che è stato e non ha ancora vissuto.
Pare quasi di assistere al dilemma di una generazione posta di fronte a se stessa e alla successiva.
Quasi come se il giovane Joe fosse il padre del suo io futuro: sia esso un bambino, o un uomo che potrebbe essere suo padre, ma che altri non è se non lui stesso.
Voi cosa fareste, al suo posto? Quale grilletto dovrà essere premuto? E da quale Joe?
I viaggi nel tempo sono roba tosta.
E con tutti i limiti del caso, Rian Johnson pare averlo capito davvero bene.


MrFord


"So take the photographs, and still frames in your mind 
hang it on a shelf in good health and good time
tattoos of memories and dead skin on trial
for what it's worth it was worth all the while.
It's something unpredictable, but in the end is right.
I hope you had the time of your life."
Greenday - "Good riddance (Time of your life)" -



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