Ho sempre considerato Woody Allen un grande del Cinema USA, anche se, in qualche modo, il suo talento come sceneggiatore - soprattutto per quanto riguarda i dialoghi - per quanto mi riguarda ha sempre superato quello come regista, e ho amato alla follia molti dei suoi lavori, dai classici Io e Annie e Manhattan ai più recenti Accordi e disaccordi, Match point e Midnight in Paris.
Quello che non ho mai compreso, almeno a partire dalla metà degli anni novanta ad oggi, è la sua necessità di sfornare, quasi fosse un rito scaramantico, una pellicola a stagione, in barba alla volontà di molti cineasti di completare un'opera solo quando se ne sente intimamente il bisogno: sono molte, infatti, le delusioni cocenti che il regista newyorkese mi ha rifilato in questo senso, dal terribile e sopravvalutato Vicky Christina Barcelona all'orrido Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni, e a quanto pare - non ho ancora avuto il coraggio di recuperarlo - il penultimo Irrational man.
Dunque, come sempre negli ultimi anni, Cafè Society rappresentava una scommessa, l'ennesima ripetizione dell'ormai classica domanda "sarà l'Allen dell'anno buono?": il risultato, seppur non memorabile, quantomeno mi fa affermare che sì, si tratta dell'Allen dell'anno buono, forse confortato da un setting che ormai gli calza a pennello - quello della prima metà del Novecento - e dalla sua abilità di rendere quasi digeribili attori che non sopporto - Jesse Eisenberg - e quasi bravi altri che ritengo cani maledetti - Kristen Stewart -.
Cafè Society, dunque, si inserisce tranquillamente nel filone "carino" della sua produzione accanto a titoli come Magic in the moonlight o Scoop, racconta una storia a metà tra ironia e malinconia, e riesce a strappare risate così come sospiri legati alle opportunità non colte, o, più semplicemente, alle cose che il Destino non ha voluto andassero come avrebbero voluto i loro protagonisti, cui non resta che rifugiarsi nei sogni per accarezzare l'idea di come sarebbero state.
Probabilmente il vecchio Woody sa di giocare in casa, dalla consueta ma rispettosa ironia ebraica alla preferenza per la Grande Mela rispetto a Los Angeles - capisco meno quella per la già citata Kristen Stewart rispetto a Blake Lively, ma questa è un'altra storia -, dai riferimenti al mondo del Cinema dei tempi alle storie d'amore mai risolte, da un protagonista al limite dell'antipatico che si segue con partecipazione minore rispetto al fratello gangster portato sullo schermo come una macchietta grottesca alla capacità di raccontare l'amore - che finisca bene o male, poco importa - e tutte le sue sfumature assurde e quasi ridicole.
Tutto è scritto, diretto e confezionato senza sbavature, come un ingranaggio ben oliato, e forse è proprio per questo che, alla fine, il bello finisce quasi per risultare essere il finale che non vorremmo, in cui tutti - quantomeno i protagonisti - nascondono qualcosa e celano ombre, e finiscono per rifugiarsi nei sogni non tanto per evadere da una realtà che comunque soddisfa e rende felici quanto per pensare ad un'altra possibilità, un'altra vita, un'altra storia.
Un pò come quando, grazie al Cinema, per un'ora e mezza diventiamo qualcuno, visitiamo un'altra epoca, immaginiamo come sarebbero andate le cose se ci fossimo trovati in un altro posto, in un altro momento: del resto, "la materia di cui sono fatti i sogni" è alla base del cocktail che gustiamo grazie alla settima arte, che si tratti di un locale di lusso figlio della Cafè Society o dei loschi traffici dei gangsters dei bassifondi.
MrFord