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martedì 25 ottobre 2016

Cafè Society (Woody Allen, USA, 2016, 96')





Ho sempre considerato Woody Allen un grande del Cinema USA, anche se, in qualche modo, il suo talento come sceneggiatore - soprattutto per quanto riguarda i dialoghi - per quanto mi riguarda ha sempre superato quello come regista, e ho amato alla follia molti dei suoi lavori, dai classici Io e Annie e Manhattan ai più recenti Accordi e disaccordi, Match point e Midnight in Paris.
Quello che non ho mai compreso, almeno a partire dalla metà degli anni novanta ad oggi, è la sua necessità di sfornare, quasi fosse un rito scaramantico, una pellicola a stagione, in barba alla volontà di molti cineasti di completare un'opera solo quando se ne sente intimamente il bisogno: sono molte, infatti, le delusioni cocenti che il regista newyorkese mi ha rifilato in questo senso, dal terribile e sopravvalutato Vicky Christina Barcelona all'orrido Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni, e a quanto pare - non ho ancora avuto il coraggio di recuperarlo - il penultimo Irrational man.
Dunque, come sempre negli ultimi anni, Cafè Society rappresentava una scommessa, l'ennesima ripetizione dell'ormai classica domanda "sarà l'Allen dell'anno buono?": il risultato, seppur non memorabile, quantomeno mi fa affermare che sì, si tratta dell'Allen dell'anno buono, forse confortato da un setting che ormai gli calza a pennello - quello della prima metà del Novecento - e dalla sua abilità di rendere quasi digeribili attori che non sopporto - Jesse Eisenberg - e quasi bravi altri che ritengo cani maledetti - Kristen Stewart -.
Cafè Society, dunque, si inserisce tranquillamente nel filone "carino" della sua produzione accanto a titoli come Magic in the moonlight o Scoop, racconta una storia a metà tra ironia e malinconia, e riesce a strappare risate così come sospiri legati alle opportunità non colte, o, più semplicemente, alle cose che il Destino non ha voluto andassero come avrebbero voluto i loro protagonisti, cui non resta che rifugiarsi nei sogni per accarezzare l'idea di come sarebbero state.
Probabilmente il vecchio Woody sa di giocare in casa, dalla consueta ma rispettosa ironia ebraica alla preferenza per la Grande Mela rispetto a Los Angeles - capisco meno quella per la già citata Kristen Stewart rispetto a Blake Lively, ma questa è un'altra storia -, dai riferimenti al mondo del Cinema dei tempi alle storie d'amore mai risolte, da un protagonista al limite dell'antipatico che si segue con partecipazione minore rispetto al fratello gangster portato sullo schermo come una macchietta grottesca alla capacità di raccontare l'amore - che finisca bene o male, poco importa - e tutte le sue sfumature assurde e quasi ridicole.
Tutto è scritto, diretto e confezionato senza sbavature, come un ingranaggio ben oliato, e forse è proprio per questo che, alla fine, il bello finisce quasi per risultare essere il finale che non vorremmo, in cui tutti - quantomeno i protagonisti - nascondono qualcosa e celano ombre, e finiscono per rifugiarsi nei sogni non tanto per evadere da una realtà che comunque soddisfa e rende felici quanto per pensare ad un'altra possibilità, un'altra vita, un'altra storia.
Un pò come quando, grazie al Cinema, per un'ora e mezza diventiamo qualcuno, visitiamo un'altra epoca, immaginiamo come sarebbero andate le cose se ci fossimo trovati in un altro posto, in un altro momento: del resto, "la materia di cui sono fatti i sogni" è alla base del cocktail che gustiamo grazie alla settima arte, che si tratti di un locale di lusso figlio della Cafè Society o dei loschi traffici dei gangsters dei bassifondi.




MrFord



 

giovedì 23 luglio 2015

Indiana Jones e il tempio maledetto

Regia: Steven Spielberg
Origine: USA
Anno: 1984
Durata: 118'





La trama (con parole mie): siamo nel 1935, e Indiana Jones, celebre archeologo, insegnante ed avventuriero, dopo una rocambolesca fuga dalla Cina, finisce in India, in un piccolo villaggio dal quale sono state trafugate pietre sacre per la popolazione.
Alla ricerca delle pietre stesse, Indy, il piccolo Shorty e la cantante Willie si troveranno a scoprire i segreti dietro il palazzo del maraja locale, dominato da una setta dedita al culto della dea Kali e legato ad un complesso sistema di tunnel, miniere ed un vero e proprio tempio all'interno del quale si compiono sacrifici umani.
Riuscirà il dottor Jones a mettere le mani sulle pietre per riportarle ai legittimi proprietari, avere la meglio sul leader della setta, sedurre Willie e portare a casa la pelle?








Senza dubbio, uno dei personaggi fondamentali per la mia formazione di cinefilo e di bambino di fronte alla meraviglia offerta dalla settima arte, che ha finito per accompagnare innumerevoli visioni in compagnia di mio fratello nel corso di tutti gli anni ottanta e nella prima parte dei novanta è stato Indiana Jones: l'alter ego di maggior successo di Harrison Ford, avventuriero spaccone e ciarliero, donnaiolo e decisamente umano, fisicamente, rispetto agli altri action heroes targati eighties, negli anni non ha perso ai miei occhi lo smalto di allora, eppure non ha avuto grande fortuna o spazio qui al Saloon, limitando le sue apparizioni ad un recupero de I predatori dell'Arca perduta quando ancora White Russian muoveva i suoi primi passi.
Dunque, spinto dalla leggerezza dell'estate, ho deciso di ripescare i due capitoli che seguirono proprio quella prima, fantastica avventura, e che, paradossalmente, nel corso della mia vita ho finito per vedere e rivedere un numero di volte decisamente superiore all'esordio sul grande schermo del Dottor Jones, che ad oggi risulta ancora essere l'episodio qualitativamente migliore della saga: in particolare, Indiana Jones e il tempio maledetto, con i suoi improbabili voli da aerei lasciati senza piloti, gli insetti delle catacombe, il rituale della setta dedita a Kali con tanto di cuore estirpato a mani nude, è stato - ed è - un guilty pleasure tra i più amati dal sottoscritto, perfettamente in grado di funzionare ancora oggi e di parlare ad un pubblico di tutte le età divertendo clamorosamente e senza ritegno.
Nonostante, infatti, sia a livello critico forse il capitolo meno interessante tra i quattro realizzati fino ad ora, tutto funziona a meraviglia, dall'incipit cinese all'ambientazione indiana dal sapore di film di genere anni cinquanta, passando per un villain d'eccezione - lo stregone a capo della setta - e comprimari perfetti per spalleggiare il sempre pungente Jones - dal giovane Shorty, il Data dei Goonies, alla cantante Willie, che regala un'ottima dose di schermaglie amorose con il nostro archeologo preferito nella grande tradizione di questo franchise -: se, a tutto questo, si aggiungono poi sequenze action perfette per ritmo e tensione - l'inseguimento nella miniera sui vagoni è uno dei passaggi più belli che ricordi della mia infanzia di spettatore -, le consuete battute di Indy ed il mestiere di Spielberg e soci, il cocktail servito è quanto di meglio si potrebbe chiedere al Cinema d'intrattenimento, lo stesso in grado di far sognare i bambini e far tornare bambini gli adulti, oltre a delineare situazioni e charachters che, in un modo o nell'altro, hanno finito per entrare nella Storia della settima arte così come nella memoria di generazioni di spettatori.
Personalmente, non vedo già l'ora che il Fordino sia abbastanza grande per potergli proporre cult dei tempi del suo vecchio come questo, sperando di trasmettergli la stessa passione per il Cinema e l'avventura che nutro e rinnovo ad ogni giorno e visione: e quando la quotidianità o film troppo scarsi non me lo permettono, posso sempre evocare ricordi dell'epopea indiana di Indiana o, ancora meglio, pescare dalla libreria il dvd e gettarmi a capofitto in qualche inseguimento mozzafiato come se fossi io a portare il cappello e la frusta.




MrFord




"In the temple of love you hide together
believing pain and fear outside
but someone near you rides the weather
and the tears he cried will rain on walls
as wide as lovers eyes
in the temple of love, shine like thunder
in the temple of love, cry like rain
in the temple of love, hear my calling
in the temple of love, hear my name."
The Sisters of mercy - "Temple of love" - 






martedì 24 settembre 2013

The Grandmaster

Regia: Wong Kar Wai
Origine: Cina, Hong Kong, USA
Anno: 2013
Durata: 123'





La trama (con parole mie): nella Cina degli anni trenta, Ip Man, indiscusso Maestro di arti marziali, vive una vita tranquilla con la famiglia, godendosi non soltanto la sua posizione, ma anche le ricchezze ereditate dai suoi avi. Quando un conflitto in seno alla comunità del kung fu lo porta al confronto con la dinastia dei Gong, Ip Man decide di defilarsi nonostante l'attrazione provata per la figlia dello stesso Gong, Er, in lotta con l'ex allievo del padre Ma San.
Quando i giapponesi invadono la Cina ed Ip Man è costretto a rinunciare a tutto spostandosi ad Hong Kong, le vite dei protagonisti della scena del kung fu cambiano e si disperdono, ma il legame che tocca le esistenze dei tre esperti più importanti del continente pare non dissolversi, accompagnando ognuno di loro nella vita e nella morte come un dono o una maledizione.





Non è un mistero che Wong Kar Wai sia stato una delle più grandi passioni cinematografiche del sottoscritto nei primi anni del nuovo millennio, ovvero nel periodo in cui maggiormente mi concentrai sul solo Cinema d'autore senza preoccuparmi troppo di tutte le proposte tamarre che costellarono la mia infanzia e che tornai - fortunatamente - a recuperare qualche anno dopo.
Come se non bastassero, poi, perle assolute del calibro di In the mood for love o 2046, il buon Wong si rivelò responsabile di una delle folgorazioni più travolgenti della mia storia di spettatore, quell'Hong Kong Express che ancora oggi è senza dubbio parte dei miei dieci film della vita di tutti i tempi - o forse ci si avvicina, ma siamo comunque molto in alto nella graduatoria emotiva -.
Come molti altri registi, giunto all'apice del successo in patria e riconosciuto dai più importanti Festival internazionali, il cineasta di Shanghai finì per cedere alla corte degli States, firmando un'opera decisamente minore come My blueberry nights, fondamentalmente un condensato dei suoi lavori precedenti - tra i quali spicca anche lo splendido Happy together - preparato per tutti gli spettatori mai avvicinatisi al suo lavoro.
Dunque, il quasi silenzio.
Quando, praticamente a sorpresa, venni a sapere della realizzazione di un film legato alla figura di Ip Man, leggendario Maestro di arti marziali che fu anche tra i primi insegnanti di un giovanissimo Bruce Lee, già passato peraltro da queste parti a seguito del biopic action a lui dedicato - un prodotto niente male, tra l'altro -, fui molto felice del ritorno in patria di Wong, pronto a mettersi al lavoro insieme al suo attore feticcio Tony Leung su una materia profondamente cinese: non nascondo, dunque, una certa delusione a seguito della visione.
Senza dubbio la tecnica del regista in questione resta clamorosa ed indiscutibile, la confezione pressochè perfetta, la fotografia splendida, così come i movimenti di macchina, eppure The Grandmaster soffre delle stesse patologie che rendono il Cinema d'autore attuale piuttosto indigesto al sottoscritto: autoreferenzialità, cura eccessiva della confezione a scapito dell'impatto emotivo, una sterilità di fondo che spesso e volentieri, oltre alla noia, fa insorgere nello spettatore il dubbio di non trovarsi nel posto giusto, e che un parco, o qualche locale nell'ora dell'aperitivo sarebbe senza dubbio più divertente di un pippone sul grande schermo, per quanto di classe lo stesso sia.
Ed eccomi infatti annaspare sul divano di casa Ford cercando di aggrapparmi all'idolo e già citato Tony Leung o alla sempre splendida Zhang Ziyi per non rischiare di rimpiangere troppo le tempeste di legnate che l'Ip Man della versione action dispensa per una buona metà di pellicola rispetto a mezze frasi sussurrate sotto la pioggia inquadrata goccia per goccia in una cornice di ricostruzione d'epoca impeccabile, maledicendo il fatto che nell'ultimo periodo riesce davvero difficile a questo vecchio cowboy trovare un film di un certo spessore che coinvolga invece di sfracellare a morte i cosiddetti.
Fortunatamente per me - e per tutti quelli che sceglieranno di vederlo in sala - Wong Kar Wai è e resta un grande narratore delle storie d'amore irrelizzabili e struggenti, e a tre quarti di pellicola spesso dal sapore new age "alto" succede una parte conclusiva di bellezza disarmante, finalmente consacrata ai destini dei protagonisti e alle loro interiorità, in grado di emozionare e coinvolgere come avrebbe dovuto fare l'intero lavoro.
In qualche modo, per esecuzione ed eccessiva freddezza, questo The Grandmaster rappresenta una risposta orientale all'Anna Karenina di Joe Wright, che qui al Saloon subì lo stesso tipo di rimproveri ed osservazioni.
Onestamente spero che Wong possa tornare ad un approccio più naif e semplice, e alla freschezza di quelle che furono le sue prime, fulminanti opere: e poco importerà se dovrà essere sacrificata un pò di forma.


MrFord


"Everybody went kung fu fighting
those cats were fast as lighting
in fact it was a little bit frightning
but they fought with expert timing."
Foo Fighters - "Kung fu fighting" - 


sabato 6 luglio 2013

Oscar - Un fidanzato per due figlie

Regia: John Landis
Origine: USA
Anno:
1991
Durata: 109'




La trama (con parole mie): Angelo "Snaps" Provolone è un gangster di spicco divenuto uno dei boss incontrastati dei primi anni trenta, rispettato, ricco e temuto.
Quando incontra il vecchio padre sul letto di morte, quest'ultimo gli impone di promettere solennemente sulla sua memoria di ravvedersi, e così Angelo, da buon uomo all'antica, ripulisce i suoi modi e le attività, e pianifica di diventare socio di un'importante banca.
Il giorno dell'appuntamento con i suoi nuovi partners d'affari, però, Provolone scopre non solo di essere stato derubato dal suo giovane contabile, ma che quest'ultimo è pronto a chiedere la mano di sua figlia Teresa: peccato che lui non abbia una figlia di nome Teresa, e che la vera erede, Lisa, sia pronta a raccontare di essere rimasta incinta in modo da vendicarsi del padre che continua a tenerla rinchiusa in attesa di un matrimonio di comodo e che ha causato la fine della sua storia con l'autista Oscar.
Ma i guai della nuova vita "pulita" dell'ex "Snaps" sono appena cominciati: arrivare alla fine della giornata sarà più duro che ritagliarsi un posto nella mala a suon di colpi di pistola.




Questo post rappresenta la prima parte delle celebrazioni per il Sylvester Stallone Day, tramutato per l'occasione in Sylvester Stallone Weekend, alla facciazza di tutti quei radical chic che gli hanno preferito Kevin Spacey. Un ringraziamento speciale a Julez per il fantastico mosaico celebrativo.



Tutti gli avventori che si rispettano del Saloon sanno benissimo del culto che il sottoscritto continua ad alimentare rispetto ad una delle figure cardine della sua infanzia di appassionato cinefilo: parlo ovviamente di Sylvester Stallone, figura di spicco dell'action anni ottanta e non solo, icona della settima arte e del suo lato più fracassone e possessore del labbro più incredibile di Hollywood.
Nonostante il suddetto culto, alla mia lista personale di visioni mancava ancora Oscar, pellicola dei primi anni novanta firmata da un altro mito indiscusso, il John Landis di Blues Brothers e Una poltrona per due, capisaldi indiscutibili di ogni percorso di formazione che si rispetti.
Fortunatamente, il sessantasettesimo compleanno dello Stallone italiano - stessa età di mio padre, tra le altre cose - ha fornito l'occasione giusta per rimediare: perchè Oscar è uno spasso assoluto e totale, un divertentissimo divertissement all'interno del quale si fondono la commedia sguaiata e quella degli equivoci, la grana grossa e lo humour nero, la risata senza ritegno ed il ghigno sornione di chi la sa lunga.
In poche parole, il suo regista ed il protagonista.
Landis, che nel corso della sua carriera è sempre riuscito a regalare al pubblico un tocco pungente e molto più raffinato di quanto non possa apparire, tira fuori il meglio di Sly cucendogli addosso un personaggio che pare la sua trasposizione, gangster costretto a ravvedersi a seguito di una promessa fatta al padre sul letto di morte che pare un pesce fuor d'acqua almeno quanto uno abituato a menare le mani e scansare le esplosioni all'interno di un titolo che pare quasi un'escursione nell'autorialità nello stile del Woody Allen di Pallottole su Broadway o di frizzanti opere come L'importanza di chiamarsi Ernest.
La sequela di equivoci che mettono spalle al muro l'ormai ex gangster Angelo Provolone, infatti, è figlia della migliore tradizione del retaggio teatrale a partire dai titoli di testa - bellissimi, tra l'altro - sulle note di Rossini e del suo Il barbiere di Siviglia, come una danza senza requie tra figlie legittime e non, contabili con il vizio del furto, sicari tramutati in maggiordomi e borse che entrano ed escono da una villa che diviene palcoscenico quasi unico della vicenda nonchè motore dello stesso Snaps, intento a correre da un piano all'altro in modo da venire a capo di una matassa che pare più difficile da sbrogliare delle sue peggiori avventure da uomo della strada.
Benchè non si tratti d'altro se non di un susseguirsi di scambi di persona, di oggetti e battute apparentemente semplici, Oscar funziona a meraviglia, intrattiene e diverte grazie ad una squadra di attori tutti perfettamente in parte, una messa in scena da grandi studios dell'epoca d'oro ed un ritmo vertiginoso, reso ancor più funzionale da piccoli tormentoni già cult in casa Ford come lo schioccare delle dita di Provolone - e della figlia - ed i vezzi degli sgherri del boss, su tutti il patito di armi nonchè romantico sognatore Chazz Palminteri, perfetto nel ruolo del guardaspalle tutto muscoli e niente cervello.
Una sarabanda di situazioni, risate ed incastri che mi ha divertito dal primo all'ultimo minuto, e che nonostante una fama che non fa onore al lavoro di Landis e di Sly è stata per il sottoscritto una vera goduria che già non vedo l'ora di rivedere, perfetta per rivalutare il Rocky di noi tutti ed il suo ruolo cardine nella settima arte americana.
Almeno quella che, in barba a qualsiasi promessa, finisce sempre per preferire i muscoli alle buone maniere.


MrFord


"Tutti mi chiedono, tutti mi vogliono,
donne, ragazzi, vecchi, fanciulle:
qua la parrucca... Presto la barba...
Qua la sanguigna...
Presto il biglietto...
Tutti mi chiedono, tutti mi vogliono! 
Qua la parrucca, presto la barba,
presto il biglietto, ehi!"
Gioacchino Rossini - "Largo al factotum" - 


lunedì 3 dicembre 2012

Lawless

Regia: John Hillcoat
Origine: USA, Australia
Anno: 2012
Durata: 116'




La trama (con parole mie): Forrest, Howard e Jack Bondurant sono tre fratelli nati e cresciuti in Virginia nella prima metà del novecento, divenuti adulti nel pieno della Grande Depressione.
Sotto la guida del granitico Forrest, si occupano di distillati ormai fuorilegge e della loro distribuzione: la loro attività, tollerata dalle forze dell'ordine locali, cresce fino a giungere al limitare di Chicago, attirando l'attenzione del Governo che incarica lo spietato sceriffo Charlie Rakes di occuparsi della questione con ogni mezzo.
A questo punto le cose si complicano, e se uno ad uno tutti i distillatori chinano il capo sotto il pugno di ferro del rappresentante della Legge, Forrest rifiuta di obbedire perfino quando due sgherri gli tagliano la gola da un orecchio all'altro alimentando la leggenda che vuole i Bondurant invincibili ed in grado di sfuggire alla morte.
Jack, il più timido e meno adatto a ricoprire il ruolo di bandito della famiglia, dovrà fare i conti con se stesso e trovare la forza per decidere che strada prendere prima che il conflitto porti lui e i suoi fratelli alla distruzione.





Devo ammetterlo, il buon vecchio Lorant aveva proprio ragione: Lawless pare un film scritto, diretto e realizzato per alimentare la goduria estrema del sottoscritto, una di quelle cose da Frontiera - come concetto, più che come confine - all'interno della quale Bene e Male si mescolano, i nodi vengono al pettine, è forte la componente legata alla famiglia e alla fratellanza, e quello che viene comunemente considerato crimine assume le sembianze di uno strumento di ribellione pronto a scoppiare in pieno viso all'ordine costituito, quello che schiaccia sotto il suo tallone la gente della strada come noi.
Ambientato nel pieno della Grande Depressione - periodo profondamente drammatico già fotografato in molti romanzi da me amatissimi di Joe Lansdale e dal Capolavoro di John Ford, anch'esso tratto da un'altrettanto grande opera letteraria di John Steinbeck, Furore - e legato a doppio filo al Proibizionismo - uno dei momenti più oscuri della "giovane" Storia statunitense -, sceneggiato da un Nick Cave che pare aver trasmesso lo spirito delle sue canzoni ai protagonisti della vicenda - tratta da un libro che descrive effettivamente i fatti che riguardarono i fratelli Bondurant, redatto da un nipote in tempi più recenti -, impreziosito da un cast stellare ed in forma smagliante - un plauso, soprattutto, a Tom Hardy e Guy Pierce, impressionante per la cattiveria che riesce a mettere nella sua interpretazione di Charlie Rakes -, Lawless pesca a piene mani dalla materia che un paio d'anni fa Michael Mann portò con una classe incalcolabile sullo schermo nel suo Nemico pubblico divenendone, di fatto, una sorta di fratello minore.
La vicenda dei tre fratelli protagonisti, che potrebbe essere vista e vissuta come una sorta di cronaca di un gruppo di ribelli, più che di criminali, pronti a vivere "succhiando il midollo della vita" fino a quando non giungerà il momento per loro di appendere le pistole al chiodo ed invecchiare in pace e tranquillità, seduti sul portico osservando i figli giocare scoprendo che il Tempo è un nemico inesorabile che nessuna leggenda o invincibilità potrà sconfiggere, è in realtà uno splendido ritratto del concetto di Famiglia e del sentimento di fratellanza, di quei legami di sangue che non possiamo e non potremo mai spiegare, e che capiremo sempre e soltanto noi che li viviamo.
Osservando l'imperturbabile ed "invincibile" Forrest, il selvaggio Howard e l'impacciato Jack ho pensato spesso a mio fratello, a quello che ci ha uniti fin da quando, poco più che ragazzini, ci picchiavamo regolarmente e che è cresciuto fino ad ora, con i nostri aperitivi selvaggi consumati con il terrore di genitori e compagne: il rapporto tra i Bondurant è qualcosa che potranno comprendere soltanto loro stessi, nel profondo, e non avranno mai bisogno di tradurre con altro che non sia un complice silenzio.
In particolare, nonostante il ruolo di leader affidato ad un ringhiante Tom Hardy, ho trovato il personaggio di Shia Le Beouf quello più interessante: scritto con una profondità da fare spavento, il piccolo Jack mostra il fianco come i suoi fratelli non farebbero mai, scambia le imprudenze per furbizia e coraggio, cercando in tutti i modi di dimostrare a Forrest e Howard di valere quanto loro, di portare la stessa indomita furia che anima i loro animi selvaggi.
Eppure nelle macchine e nei vestiti di lusso, negli affari e nella corte alla figlia del pastore - una sempre eterea Mia Wasikowska -, c'è un cucciolo che non ha ancora trovato la strada che lo farà crescere e diventare uomo: la cosa interessante è che quella strada, che passerà attraverso il sangue, la vendetta, i colpi di pistola e le lacrime, in realtà sarà mutuata da una vita tranquilla, quella dell'uomo comune che lavora e vede la sua famiglia crescere, e che in un certo senso è molto più difficile e complessa di quella del fuorilegge che vive ogni giorno come fosse l'ultimo.
Perchè ogni giorno potrebbe essere l'ultimo, sempre, ma non è detto che sia come Forrest si aspetta. 
O non si aspetta, che poi è la stessa cosa.
Clint Eastwood nel suo Gli spietati ricordò al pubblico che "non esistono meriti, in queste cose".
Eppure, se c'è qualcosa di cui andare fieri, nonostante la Legge, e l'essere al di fuori di essa, è la sensazione che quel legame di sangue non possa essere spezzato.
Quello che stringe l'uno all'altro Forrest, Howard e Jack, i loro destini, le loro donne, i loro figli.
E non esistono whisky, completi all'ultima moda, macchine di grossa cilindrata o leggende che possano giustificare il fatto che si possa varcare il confine dell'ordine costituito per crearne uno proprio. 
Forse neppure la vendetta.
L'unica cosa che possa giustificarlo è proprio quello stesso legame: e chi lo vive.


MrFord


"One, two, three.
White light
I like going, listen up my mind
white light
don’t you know it’s gonna make me go blind?
White heat
oh, white heat, it take me deep down to my toe
white light
Lord, have mercy while that goodness, no."
The Bootleggers featuring Mark Lanegan - "White light, white heat" -


 


sabato 2 giugno 2012

Ip Man

Regia: Wilson Yip
Origine: Cina
Anno: 2008
Durata: 106'



La trama (con parole mie): siamo sul finire degli anni trenta a Foshan, una città di provincia nel Sud della Cina. Ip Man, Maestro indiscusso di Kung fu e sviluppatore dell'arte del Wing Chun, si rifiuta di prendere allievi e continua a mietere successi sconfiggendo qualsiasi avversario lo sfidi.
La vita è tranquilla, e l'uomo vive tra gli agi con la moglie ed il figlio.
Con l'invasione giapponese, però, la realtà cambia: le scuole di arti marziali vengono chiuse, la popolazione della città sterminata, gli esperti di Kung fu costretti ai lavori più umili e agli scontri con i loro equivalenti nipponici per un sacco di riso a vittoria: quando i soprusi divengono insostenibili, Ip Man, fino a quel momento equilibrato, metterà la sua abilità al servizio dei suoi connazionali divenendo un simbolo di rivolta contro l'occupazione.





Come ben sapranno gli avventori abituali del saloon, il sottoscritto è da sempre - anche se nel mio periodo da finto radical chic dedito alle sole visioni d'autore cercavo di nasconderlo - un grandissimo fan dei film di botte, specie se ben realizzati e coreografati come si conviene.
Dai cult del trash come Kickboxer o Senza esclusione di colpi alle pellicole storiche con protagonista Bruce Lee - sto preparando una full immersion con un recupero dei suoi film più noti -, fino ai recenti Undisputed 2 e 3 con l'incredibile Scott Adkins/Boyka , mi sono sempre divertito come un bambino quando si trattava di stare stravaccato sul divano con gli occhi sgranati di fronte a colpi che paiono quasi impossibili da eseguire o lotte all'ultimo respiro - che, a ben guardare, è quello che succede anche quando mi dedico all'adorato wrestling -: grazie al mio fratellino Dembo, che per farsi perdonare dell'agghiacciante Ong Bak si è presentato a casa Ford omaggiandomi del bluray di questa pellicola firmata Wilson Yip, ho aggiunto un altro tassello al grande mosaico dei titoli di questo genere. E, devo ammetterlo, un tassello di tutto rispetto.
Ambientato nell'affascinante cornice della Cina degli anni trenta, Ip man racconta la storia molto romanzata dell'omonimo Maestro di Kung fu cui si deve la diffusione mondiale dello stile Wing Chun, che divenne celebre anche per aver fatto da mentore ad un giovanissimo Bruce Lee nel periodo 1954/1957: la pellicola di Wilson Yip, oltre a mostrare duelli e scontri ottimamente realizzati, si concentra sul patriottismo mostrando la fiamma della ribellione che lo stesso Ip Man contribuì ad accendere nei cuori dei cinesi oppressi dall'invasione giapponese che impegnò i nipponici su due fronti anche durante lo svolgimento della Seconda Guerra Mondiale.
Il passaggio dagli agi mostrati nella prima parte agli stenti della seconda - così come i valori granitici del Maestro - ricordano molto l'approccio che ebbe Ron Howard nel portare in scena le vicende di James Braddock nel suo Cinderella man, e culminano in una delle sequenze di lotta più impressionanti che mi sia capitato di vedere negli ultimi anni - nonchè una delle migliori della pellicola -, che vede Ip Man fronteggiare dieci esponenti della scuola di Kung Fu giapponese spinto dalla rabbia per aver assistito all'uccisione di un altro Maestro avvenuta proprio dinanzi ai suoi occhi: un passaggio esemplare anche per chiarire a quale livello di controllo giungano esperti di questo calibro, che nel corso delle loro sfide tendono ad accompagnare o mimare i colpi più devastanti portati all'indirizzo dell'avversario.
Clamorosa, tra l'altro, la velocità d'esecuzione di Donnie Yen, protagonista assolutamente in parte per un ruolo che, in Cina, ha un'aura mitica almeno quanto quella del ben più noto in Occidente Bruce Lee, e che regala scariche di pugni e parate da rimanere a bocca aperta.
Se, da un lato, la fotografia di un mondo che lentamente crolla e la volontà di ribellione contro il regime imposto dai nipponici risultano interessanti almeno quanto i combattimenti, il film scivola con il finale in una retorica di grana molto grossa che limita - e di molto - il suo potenziale, di fatto rendendo vana la costruzione al limite dell'ironia riferita al suo protagonista nella prima metà dell'opera: un vero peccato, perchè senza una chiusura che ha quasi il sapore della propaganda neanche fossimo ancora nel periodo in cui Eisensteijn si trovava a dover magnificare l'Unione Sovietica nascente Ip Man avrebbe avuto tutte le caratteristiche del cult, imponendosi come termine di paragone per tutti i titoli di genere.
Ad ogni modo, gli appassionati come il sottoscritto troveranno pane per i loro denti e finiranno per recuperare anche il sequel - che vedrà la scena spostarsi ad Hong Kong ed un riferimento conclusivo al legame tra Ip Man e Bruce Lee -, riscoprendo un'esaltazione che solo le migliori pellicole di combattimento sanno offrire: per i non avvezzi, invece, l'ambientazione storica potrebbe addirittura rivelarsi utile per superare lo scoglio delle botte da orbi.
Quello che conta sarà cercare di non badare troppo alla retorica e concentrarsi sulla sostanza: in fondo, per quanto crogiolarsi nel sentimentalismo sfrenato sia una pratica nel Cinema molto diffusa e di successo, qualche scarica di cazzotti ben assestata da sempre tutt'altra soddisfazione.


MrFord


"Broke your jaw once before
spilt your blood upon the floor
you broke my leg in return
so let's sit back and watch the bed burn
well love sticks sweat drips
break the lock if it don't fit
a kick in the teeth is good for some
a kiss with a fist is better than none
a-woah a kiss woth a fist is better than none."
Florence + The Machine - "Kiss with a fist" -


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