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martedì 25 ottobre 2016

Cafè Society (Woody Allen, USA, 2016, 96')





Ho sempre considerato Woody Allen un grande del Cinema USA, anche se, in qualche modo, il suo talento come sceneggiatore - soprattutto per quanto riguarda i dialoghi - per quanto mi riguarda ha sempre superato quello come regista, e ho amato alla follia molti dei suoi lavori, dai classici Io e Annie e Manhattan ai più recenti Accordi e disaccordi, Match point e Midnight in Paris.
Quello che non ho mai compreso, almeno a partire dalla metà degli anni novanta ad oggi, è la sua necessità di sfornare, quasi fosse un rito scaramantico, una pellicola a stagione, in barba alla volontà di molti cineasti di completare un'opera solo quando se ne sente intimamente il bisogno: sono molte, infatti, le delusioni cocenti che il regista newyorkese mi ha rifilato in questo senso, dal terribile e sopravvalutato Vicky Christina Barcelona all'orrido Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni, e a quanto pare - non ho ancora avuto il coraggio di recuperarlo - il penultimo Irrational man.
Dunque, come sempre negli ultimi anni, Cafè Society rappresentava una scommessa, l'ennesima ripetizione dell'ormai classica domanda "sarà l'Allen dell'anno buono?": il risultato, seppur non memorabile, quantomeno mi fa affermare che sì, si tratta dell'Allen dell'anno buono, forse confortato da un setting che ormai gli calza a pennello - quello della prima metà del Novecento - e dalla sua abilità di rendere quasi digeribili attori che non sopporto - Jesse Eisenberg - e quasi bravi altri che ritengo cani maledetti - Kristen Stewart -.
Cafè Society, dunque, si inserisce tranquillamente nel filone "carino" della sua produzione accanto a titoli come Magic in the moonlight o Scoop, racconta una storia a metà tra ironia e malinconia, e riesce a strappare risate così come sospiri legati alle opportunità non colte, o, più semplicemente, alle cose che il Destino non ha voluto andassero come avrebbero voluto i loro protagonisti, cui non resta che rifugiarsi nei sogni per accarezzare l'idea di come sarebbero state.
Probabilmente il vecchio Woody sa di giocare in casa, dalla consueta ma rispettosa ironia ebraica alla preferenza per la Grande Mela rispetto a Los Angeles - capisco meno quella per la già citata Kristen Stewart rispetto a Blake Lively, ma questa è un'altra storia -, dai riferimenti al mondo del Cinema dei tempi alle storie d'amore mai risolte, da un protagonista al limite dell'antipatico che si segue con partecipazione minore rispetto al fratello gangster portato sullo schermo come una macchietta grottesca alla capacità di raccontare l'amore - che finisca bene o male, poco importa - e tutte le sue sfumature assurde e quasi ridicole.
Tutto è scritto, diretto e confezionato senza sbavature, come un ingranaggio ben oliato, e forse è proprio per questo che, alla fine, il bello finisce quasi per risultare essere il finale che non vorremmo, in cui tutti - quantomeno i protagonisti - nascondono qualcosa e celano ombre, e finiscono per rifugiarsi nei sogni non tanto per evadere da una realtà che comunque soddisfa e rende felici quanto per pensare ad un'altra possibilità, un'altra vita, un'altra storia.
Un pò come quando, grazie al Cinema, per un'ora e mezza diventiamo qualcuno, visitiamo un'altra epoca, immaginiamo come sarebbero andate le cose se ci fossimo trovati in un altro posto, in un altro momento: del resto, "la materia di cui sono fatti i sogni" è alla base del cocktail che gustiamo grazie alla settima arte, che si tratti di un locale di lusso figlio della Cafè Society o dei loschi traffici dei gangsters dei bassifondi.




MrFord



 

mercoledì 6 marzo 2013

Gangster squad

Regia: Ruben Fleischer
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 113'




La trama (con parole mie): Los Angeles, 1949. Il gangster "importato" da Chicago Mickey Cohen, ex pugile, è il dominatore della scena criminale e non solo della Città degli angeli, e tiene sotto scacco gran parte degli organi di giustizia e degli uomini politici grazie ad un impero basato sulla corruzione e l'intimidazione. Parker, uno degli incorruttibili vertici delle forze dell'ordine, incarica l'altrettanto retto Sergente O'Mara di costituire una squadra di agenti che possa muoversi ben oltre i limiti della legalità per mettere all'angolo il gangster.
Aiutato dalla moglie, il reduce della Seconda Guerra Mondiale assembla una squadra solo apparentemente male assortita che pezzo dopo pezzo e pallottola dopo pallottola riuscirà a mettere in difficoltà l'uomo che tutti ormai reputavano il sovrano incontrastato di L.A., rischiando la vita e anche l'anima.
Riuscirà questo manipolo di folli sostenitori della Legge a completare la sua impresa? O alla fine Mickey avrà la sua vendetta?





I film di stampo derivativo finiscono sempre per caricarsi sulle spalle un bagaglio troppo pesante che finisce per limitarne, di fatto, la portata e l'effetto sugli spettatori: Gangster squad, pompatissima e superpatinata pellicola già ovunque associata a cult del genere gangsteristico come Gli intoccabili e L. A. Confidential - presto su questi schermi -, non è da meno.
Se, infatti, il lavoro di Ruben Fleischer - già noto da queste parti per Benvenuti a Zombieland e 30 minutes or less - appare curatissimo dal punto di vista estetico e tecnico e porta sullo schermo le giuste dosi di sparatorie, azione, dramma ed intrattenimento, l'operazione nel suo complesso risulta piuttosto vuota e posticcia, incapace di aggiungere qualsiasi elemento rispetto a quella che è, per l'appunto, la storia dei gangster-movies: restano una messa in scena elegantissima, rimandi videoludici legati a prodotti di nuova generazione - incredibile la somiglianza con il celebratissimo L. A. Noire, che in casa Ford furoreggiò un paio d'anni fa -, gigioneria a palate di tutto il cast - Sean Penn, sopra le righe e truccato in maniera quasi macchiettistica in primis - ed un pò di sano spara spara da distensione e poco impegno dei neuroni.
Nonostante l'assenza di spessore, comunque, Gangster squad si lascia guardare senza colpo ferire, con un'ora e quarantacinque ben distribuita nel ritmo che alterna momenti di azione serratissima ed altri giocati esclusivamente sull'atmosfera e sulla caratterizzazione dei personaggi, ben curati ma di nuovo - come lo stesso film - incapaci di entrare davvero nel cuore dell'audience.
Il cast è sicuramente di richiamo, dal già citato Penn a Josh Brolin nei panni dell'integerrimo sergente O'Mara, senza dimenticare la vecchia gloria Nick Nolte, gli ormai lanciatissimi Ryan Gosling ed Emma Stone e caratteristi di razza come Anthony Mackie, Michael Pena, Giovanni Ribisi e Robert Patrick - il suo personaggio, vecchio poliziotto cowboy di eastwoodiana memoria, è entrato subito nel cuore di questo cowboy da bancone -: altro elemento che contribuisce ad aumentare la patina esteriore di un titolo che, senza dubbio, non ha nella caratura il suo punto di forza, e che pur romanzando ampiamente le reali vicende del boss Mickey Cohen non riesce a far scattare la scintilla necessaria per compiere il salto di qualità che permette di passare dalla quasi anonima media allo status di piccolo o grande cult.
Nonostante tutto, in ogni caso, non credo valga la pena di gridare allo scandalo o all'occasione sprecata: in fondo rispetto a tante schifezze che girano in sala è sempre meglio avere a disposizione cose come questa, capaci di intrattenere senza pretese ma di essere allo stesso tempo convincenti dal punto di vista qualitativo: a questo proposito, segnalo anche i fantastici titoli di coda "vintage", una vera chicca d'altri tempi che ha riportato alla memoria del sottoscritto i lavori che, nel pieno della Golden Age, realizzava il Maestro Saul Bass.
Se, dunque, avete voglia di una serata che scorra liscia come l'olio e vi trascini come una giostra in un'epoca scintillante quanto pericolosa e senza dubbio traboccante dello charme che l'ha resa mitica, abbandonate ogni presupposto radical chic, armatevi di whisky - o birra - e patatine, e lanciatevi senza guardare indietro - e soprattutto, alle pietre miliari del genere - nella lotta che questo manipolo di poliziotti oltre le regole - tanto da manifestare dubbi loro stessi sulla somiglianza dei metodi applicati dalla squadra rispetto a quelli degli uomini di Mickey Cohen - ingaggia contro l'organizzazione di quello che è stato uno dei più grandi "padrini" della storia della Città degli angeli come se vi steste perdendo tra le pagine di un romanzo hard boiled in pieno stile Mike Hammer.
Se non altro, non ve ne pentirete.


MrFord


"Sometimes I feel like I don't have a partner
sometimes I feel like my only friend
is the city I live in, the city of angels
lonely as I am, together we cry."
Red Hot Chili Peppers - "Under the bridge" -


venerdì 11 maggio 2012

Anche i poeti uccidono

Autore: Victor Gischler
Origine: Usa
Anno: 2004 (2008 in Italia)
Editore: Meridiano Zero



La trama (con parole mie): Jay Morgan è un professore stagionale dell'Università dell'Oklahoma, non disdegna le nottate con le studentesse sfruttando il suo fascino di (ex) poeta, l'alcool e la vita da randagio.
Jenks è un piccolo criminale di St. Louis agli ordini di Red Zach, del quale sognava di percorrere la carriera, e che ora vede come una minaccia al suo futuro.
Attorno alle loro due storie, sogni infranti, aspirazioni letterarie e di letto, vite ancora da vivere ed altre destinate ad essere spezzate dalla crudeltà dell'Uomo, o semplicemente dal suo avido egoismo.
Una sarabanda di letteratura e piombo che metterà i suoi protagonisti a confronto con se stessi, ma soprattutto con una vita pronta a schiacciarli come scarafaggi nel caso considerassero l'eventualità di una resa.
Parola di vecchi lupi di mare come Fred Jones o il professor Valentine.




Chi frequenta il saloon da abbastanza tempo ben saprà del mio legame con Joe Lansdale, idolo totale del sottoscritto grazie alla meravigliosa saga dedicata a Hap e Leonard, persona squisita - ebbi l'occasione di fargli "da scorta" un anno e mezzo fa, quando presentò Devil red - nonchè simbolo di quel panesalamismo che tanto ha segnato la mia formazione degli ultimi anni, nella Letteratura come nel Cinema.
Victor Gischler, personaggio sicuramente più "costruito" del vecchio Joe, rappresenta in qualche modo il migliore allievo della sua scuola: graffiante, ruvido, ironico, lo sceneggiatore di fumetti e romanziere si era già distinto da queste parti grazie alle due convincenti prove di Notte di sangue a Coyote Crossing e La gabbia delle scimmie, pur senza raggiungere ai miei occhi il livello del suo "maestro".
Con Anche i poeti uccidono, però, mi sento di poter affermare che il salto di qualità si sia compiuto definitivamente - pur se, a livello temporale, non si tratti dell'ultimo lavoro dell'autore -: l'ambientazione universitaria e legata alla scrittura come mestiere ed "aspirazione", probabilmente molto in sintonia con l'esperienza di Gischler, l'aspetto fisico del protagonista Jay Morgan e la mescolanza con elementi tipicamente pulp rendono questo romanzo il più completo tra quelli tradotti in Italia del poco disciplinato Victor, una miscela esplosiva di azione, grottesco, noir e del buon melò da b-movie che tanto piacerebbe a Tarantino, il regista che vedrei meglio nel riproporre sul grande schermo uno script come questo.
In una cornice che sa di Frontiera e contaminazioni fortemente rednecks, eppure quasi interamente inserita nel contesto di un campus sonnolento e allucinato - bellissimi i passaggi tra i corridoi della Albatross Hall che celano il nascondiglio del professor Valentine - all'interno del quale le vicende politiche legate a reading di poesia ed eventi mondani si mescolano a storie di sesso e vita che fin troppo spesso inghiotte chi aveva pensato di viverla a fondo - si pensi ad Annie Walsh e al suo cadavere, che da inizio a tutta la storia, o quasi, e a Lancaster, vittima come la stessa Annie di qualcosa di ben più grande di lui -, quest'opera sforna momenti assolutamente cult praticamente ad ogni capitolo, giocando i suoi assi sfruttando personaggi splendidamente resi come Jenks - che da bad boy diviene in breve una sorta di cucciolo che si finge arrabbiato per trovare il proprio posto nel mondo -, Morgan - una via di mezzo tra Hank Moody ed un outsider lebowskiano -, Wayne DelPrego - charachter in perenne crescita dalla prima all'ultima pagina della sua presenza - e l'impagabile, roccioso, gracile e "grantorinesco" Fred Jones, mio idolo totale nonchè personaggio preferito del romanzo, in bilico tra un misterioso passato al soldo del governo, il desiderio dei suoi sigari preferiti, un talento sorprendente per la poesia e una schiera di uomini "che risolvono problemi" pronti a scattare al suo comando.
Molti i passaggi memorabili per un libro in grado di incollare alla pagina grazie ad un ritmo dal taglio clamorosamente cinematografico - soprattutto nel suo "montaggio" -, semplice e diretto come un cazzotto nello stomaco eppure in grado di far riflettere sulla grande possibilità del cambiamento, sulla vita e la voglia che dimostriamo di avere della stessa nel momento in cui mettiamo in gioco tutto per evitare di farci travolgere dagli eventi in cui ci butta senza troppi complimenti: una nuotata contro corrente in cui droga, sangue, morte, versi strampalati e mummie mescolano le carte e si giocano una mano contro il Destino, la colpa, il peccato, il perdono, gangsters dai vestiti appariscenti, detectives privati senza scrupoli e conventions dalle quali è difficile uscire indenni.
Eppure, proprio dall'happening di Houston Morgan imparerà che tirare fuori la testa dal proprio rifugio può significare prendere in mano la propria esistenza, soprattutto se, dopo averlo fatto, si trova la forza di rimanere con la testa alta contro il cielo, respirando profondamente, pronti ad essere sopraffatti eppure consci che quello che si deciderà di fare ci renderà leggeri e liberi rispetto a qualsiasi sconfitta.
In fondo, la poesia è anche questo: un modo davvero niente male per rialzarsi.
O come dice il Professor Keating, per rimorchiare le donne.


MrFord


"Now I'm naked, nothing but an animal
but can you fake it, for just one more show
and what do you want, I want change
and what have you got
when you feel the same
even though I know-I suppose I'll show
all my cool and cold-like old job."
Smashing Pumpkins - "Bullet with butterfly wings" -

 

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