- Per anni ho inseguito questo lavoro di Na, già apprezzatissimo da queste parti per il buon The yellow sea e lo strepitoso The Chaser, sponsorizzatissimo da mio fratello e da amici appassionati. Forse le aspettative sono una bestia più brutta di quanto abbia sempre pensato.
- Una premessa di questo tipo potrebbe far pensare che The Wailing non mi sia piaciuto, o si tratti di un'opera deludente: niente di più sbagliato. Questo film è una bomba che esplode progressivamente e si fa ripensare con il tempo, regala al pubblico almeno due sequenze pazzesche, quella del rito sciamanico che ricorda l'Herzog più visionario mescolato a Jodorowsky ed il confronto finale che ancora oggi mi fa venire la pelle d'oca, mescola alla grande terrore ed ironia. Eppure mi è parso sia giunto come "in ritardo".
- Considerato che sul mercato italiano e occidentale Na è praticamente un semisconosciuto rispetto a suoi conterranei più noti come Joon-ho Bong giunti qualche anno prima un'opera come questa, nonostante il suo innegabile valore, perde qualcosa per coinvolgimento ed originalità rispetto ad altre che trattano temi simili - come la Famiglia, la Paura, l'impossibilità di sapere quale sia davvero la verità -, su tutti The Host, che a più riprese mi è tornato alla mente nel corso della visione.
In un certo senso, e paradossalmente, mi pare che la stessa cosa che potrebbe far amare The Wailing, ovvero nascere per un pubblico che mastica di Cinema, sia la stessa che potrebbe penalizzarlo, perchè se si ha una certa familiarità con l'approccio coreano alla settima arte, risulterà certo poco "rivoluzionario".
- Nonostante l'apparente povertà della produzione, Na conferma comunque che la capacità di creare suggestione non è commisurata al denaro: il dialogo del detective protagonista con la figlia posseduta o passaggi come la comparsa della donna fuori dalla stazione di polizia sono degni di film horror in grado di far stringere le chiappe anche ai duri o presunti tali.
- Molto interessante in termini sociali e culturali è osservare la differenza incredibile tra la Corea che identifichiamo con Seoul, i treni ad alta velocità e la vita "all'occidentale" e quella delle realtà rurali che paiono lontane anni luce e decenni da tutto quanto appena elencato. Notevole anche la riflessione sul ruolo dello "straniero" e dello "sconosciuto", che si mescola alle sensazioni che la visione provoca rispetto ai concetti di sospetto e timore che serpeggiano minuto dopo minuto.
- Se, dunque, nonostante i sentieri lastricati d'oro che mi hanno accompagnato alla visione The Wailing mi sia parso "solo" un gran bel film, avete voglia di conoscere l'approccio coreano alla settima arte o più semplicemente trovarvi di fronte ad una pellicola ironica ma anche terrificante non abbiate paura: quello di Na è "solo" un gran bel film.
Una delle cose che mi ha sempre colpito del Cinema Orientale - che si tratti di pellicole d'autore o trash, o di generi borderline - è la capacità di raccontare storie senza alcun tipo di peli sulla lingua o remore morali che farebbero felici molti bigotti delle nostre parti, cresciuti a pane e casa e chiesa: l'approccio tenuto dai vari John Woo, Takeshi Kitano, Park Chan Wook, Kim Ki-Duk e soci è quasi sempre stato concettualmente pane e salame anche quando gli argomenti portati sullo schermo erano tutt'altro che piacevoli, nonchè spesso e volentieri pronti a mostrare che razza di bestia riesce ad essere, quando ci si mette, l'Uomo.
Quando The Chaser, pazzesco thriller firmato da Hong Jin Na, è giunto su questi schermi, ho avuto la stessa impressione provata sulla pelle nel corso delle visioni di cose come Old Boy, Sonatine, Bad guy e via discorrendo: di fronte ai miei occhi scorrevano le immagini di un'opera senza paura, pronta a portare l'audience in un mondo predatorio ed oscuro, ma non per questo a fare sconti, banalizzarne il Bene o il Male ed allettare con propositi buonisti.
Recuperato, spinto dall'entusiasmo di quella visione, The yellow sea, ho finito per aspettare l'occasione giusta per gustarmelo in tutta calma in una serata tranquilla lontana dai pomeriggi con film in sottofondo nel pieno della furia dei Fordini, ed ancora una volta mi sono trovato a confermare il dna cazzuto del Cinema d'Oriente, in questo caso ed una volta ancora coreano: a partire dall'interessante premessa legata alla regione "schiacciata" tra Cina, Corea del Nord e Russia dove non solo non ce la si passa troppo bene ma si rischia anche di vivere per sempre come emarginati, la vicenda del tassista Gu Nam, lasciato dalla moglie, indebitato e pronto a trovare l'occasione giusta per veicolare la rabbia contro la vita accumulata in anni di sconfitte ed umiliazioni, rappresenta alla grande l'approccio da pugno in faccia delle pellicole sopra citate, rimbalzando - come fu per The Chaser - tra vari generi, dal thriller all'action, dallo splatter al revenge movie, passando per il grottesco, mantenendo per tutta la sua durata una tensione costante ed un ottimo ritmo, e finendo per legare il pubblico ad un protagonista che non ha davvero nulla per farsi amare, nonostante si tratti di un outsider in cerca di rivincite che il sistema, il destino, la posizione nella "catena alimentare" sociale, il crimine e la moglie non hanno fatto altro che fregare senza possibilità d'appello.
Una vicenda amara e violenta, che non lascia spazio alla speranza e si regge sulla volontà di sopravvivenza e sul feroce desiderio di rivalsa del suo protagonista, pronto a dibattersi e lottare con tutto se stesso prima ancora che per raggiungere un "successo" che lo possa affrancare dallo status di perdente che lo avvolge fin dalle prime immagini per mostrare che nessuno tra tutti i responsabili della sua "caduta" è o sarà in grado di abbatterlo o sopravvivergli.
Una parabola dei bassifondi che mi ha riportato alla mente la musica e le storie "di porto" di De Andrè, e che senza dubbio ha avuto il merito di fortificare le fondamenta del lavoro di un regista tosto come Hong Hin Na, ennesimo nome da tenere d'occhio - e non per moda, come ai tempi della Trilogia della vendetta - nel panorama coreano, che da decenni offre titoli e produzioni che meriterebbero un richiamo decisamente maggiore non solo nel circolo ristretto dei cineforum o dei Festival "d'alto bordo".
The yellow sea non è un film facile o pronto a fare sconti, così come il suo autore, o il protagonista, eppure rappresenta - e alla grande - l'energia viscerale di cui è capace, quando è ben portata sullo schermo, la settima arte: non sono risparmiati i sentimenti o le riflessioni, ma neppure la ferocia, il sangue, la furia, l'espressione della pericolosità e della crudeltà dell'animale più crudele di tutti.
L'Uomo.
Nuova settimana molto, molto estiva per la distribuzione cinematografica italiana, con titoli decisamente poco convincenti che portano avanti un'annata che pare più stanca perfino della blogosfera. A dare un pò di brio al tutto ci pensano - più o meno - i vostri due bloggers nemici preferiti: Ford e Cannibal Kid.
"Ma che ci fai con quel bilanciere, Vincent? Credi di essere Ford!?"
Prima di domani
"Bravissima, hai fatto un'imitazione perfetta di Katniss Kid!"
Cannibal dice: Prima
di domani è un film che, da buon appassionato di robe teen, ho già
visto prima del suo arrivo nei cinema. Non prima di domani, ma nel giro
di pochi giorni, arriverà anche il mio post. Considerando i tempi di
Ford nel recuperare una pellicola (delle serie tv non parliamone
nemmeno), lui lo vedrà non prima del 2097. Anzi no, non lo guarderà mai,
perché lui con tutti i suoi pregiudizi figuriamoci se si avvicina a un
film adolescenziale.
Ford dice: i
film adolescenziali sono l'equivalente fordiano degli action per
Cannibal, ma dato che il sottoscritto non è soffocato dai pregiudizi
come il suo rivale, in un periodo di magra totale come questo potrei
perfino recuperarlo.
Potrei.
CHiPS
"Se presti di nuovo la mia moto a Ford giuro che ti colpisco con il casco!" "Che sarà mai! Non può guidare peggio di quel pericolo pubblico di Marco Goi!"
Cannibal dice: Avete presente la serie tv CHiPS?
Bravi,
io invece no. Nei primi anni '80, quando veniva trasmessa dalle nostre
parti, io ero troppo piccolo e guardavo solo i cartoni animati. E
comunque 'sta roba non me la sarei vista comunque. Ford invece, che con
queste porcate/tamarrate 80s c'è cresciuto, probabilmente se la ricorda
bene e sarà inorridito dal fatto che abbiano osato farne una nuova
versione, che si preannuncia perdibilissima sia per i vecchi fan
dell'originale, che per le nuove (più o meno) generazioni come la mia.
Ford dice: ai
tempi dei primi anni ottanta, quando le attuali serie televisive di
qualità quasi cinematografica erano solo un sogno, CHIPS era uno dei
telefilm che più mi divertiva guardare, insieme ad Arnold, Hazzard e
Super Vicky. Questa sorta di remake mi pare invece una porcata
micidiale, roba talmente trucida da far apparire anche le tamarrate più
trucide come produzioni radical. Nonostante sia estate, lo eviterò
neanche fosse piaciuto da matti a Cannibal.
USS Indianapolis
"Non possiamo permettere a Capitano Ford di mettersi al timone: finiremo dritti a fondo!"
Cannibal dice: Nicolas
Cage ormai gira così tanti film che non si fa in tempo a massacrarne
uno, che già la settimana dopo ne esce un altro. Se nello scorso weekend
arrivava Cane mangia cane, che a quanto pare a sorpresa potrebbe essere
parecchio interessante, adesso il suo parrucchino svetta in una nuova
produzione, che pare invece un war movie catastrofico di qualità così
infima che giusto Ford potrebbe spacciarlo per un Capolavoro d'altri
tempi. E poi ancora...
Ford dice: avevo
recuperato questo film mesi fa, ma lette un paio di recensioni e data
un'occhiata ad altrettante sequenze, ho deciso che, nonostante la
presenza di Cage e del suo parrucchino, avrei desistito. E non ho alcuna
intenzione di tornare sui miei passi, neppure se nel farlo dovessi
calpestare il Cucciolo Eroico.
Operation Chromite
"Cannibal Kid, sei in arresto per crimini contro il Cinema."
Cannibal dice: Una schifezza fotonica action come quella con Nicolas Cage non è abbastanza?
E
allora ecco che ne arriva pure una dalla Corea del Sud che di questo
passo, se continua a sfornare pellicole del genere, rischia di diventare
più spaventosa della Corea del Nord.
Ford dice: c'è
stato un tempo in cui qualsiasi produzione proveniente dalla Corea
significava visione quasi obbligatoria. Poi, anche da quelle parti è
arrivato Liam Neeson. E le cose sono cambiate.
Savva
E per la prima volta in esclusiva per White Russian, una foto del Cucciolo Eroico.
Cannibal dice: Fiaba
bambinesca animata proveniente dalla Russia che non augurerei di vedere
manco al presidente della Russia Putin. Al presidente di White Russian
Ford però sì... ;)
Ford dice: tipico film d'animazione buttato in sala giusto perché ogni settimana occorre il film d'animazione.
Considerato
che siamo nel pieno dell'estate, direi che attenderò l'inverno per
pensare alla Russia. A Cannibal, invece, cerco di non pensare mai.
La trama (con parole mie): Joong Ho Eom, ex detective della polizia divenuto protettore di un gruppo di prostitute al suo servizio, è inquieto per la scomparsa di una delle sue ragazze, che crede possa essere fuggita rubandogli dei soldi. Quando capisce che la stessa non è affatto fuggita, ma finita nelle mani di un serial killer efferato che nel corso del tempo si è fatto notare per il suo approccio anche con altre donne, e che una di loro potrebbe essere ancora salvata per tornare a riabbracciare la figlia, l'uomo pare tornare al suo passato da investigatore per dare la caccia allo spietato omicida.
Una volta rintracciato Young Min Jee, che subito risulterà coinvolto nei fatti collaborando addirittura con le forze dell'ordine, per Joong inizierà una vera e propria lotta contro il tempo nella speranza di riuscire a trarre in salvo la donna della quale finisce per sentirsi responsabile come se la figlia di quest'ultima fosse sua.
Riuscirà nell'impresa, o quello che si trova di fronte, pur se sconfitto, è un predatore troppo grosso perfino per un coriaceo uomo della strada come lui?
La linea di demarcazione oltre la quale i registi - ma non solo - riescono a spingersi nel raccontare una storia sfidando, di fatto, i limiti sociali e le convenzioni, cambia a seconda delle culture e delle latitudini: ricordo bene quando vidi per la prima volta in sala Old Boy, e pensai che un finale come quello, con la scoperta da parte di Oh Dae Soo dell'identità della ragazza che aveva conosciuto, qui nel Vecchio Continente non si avrebbero avute le palle per presentarlo.
Lo stesso Kitano, che nello splendido L'estate di Kikujiro gioca con ironia nerissima a ridicolizzare un pedofilo, dalle nostre parti sarebbe risultato quantomeno fuori luogo, soprattutto all'inizio degli anni novanta.
Sono solo due esempi di quante e quanto affascinanti siano le differenze tra Europa e Asia, e quanto potente possa ancora essere - anche grazie alla sua diversità dal nostro - il Cinema venuto da Oriente.
The Chaser, sponsorizzato con grande partecipazione da mio fratello e recensito spesso e volentieri ottimamente anche qui nella blogosfera, è un perfetto esempio di quanto scritto sopra: il lavoro di Hong Jin Na, impeccabile dal punto di vista tecnico, pare incrociare senza guardare in faccia a nessuno I saw the devil, Il cattivo tenente e Big Bad Wolves, prendendo per il collo lo spettatore e trascinandolo in una vera e propria corsa di due ore piene nel corso della quale non viene risparmiato nulla, ed in termini di tensione non abbiamo una sola pausa dallo sviluppo iniziale alla drammatica conclusione.
Joong Ho Eom, antieroe alla scoperta di un'oscurità profonda ben più della sua, alla ricerca dapprima del responsabile delle sparizioni delle sue ragazze e dunque impegnato in una corsa contro il tempo per smascherarlo senza possibilità di appello, regala all'audience uno dei ritratti più vitali, imperfetti e combattivi che ricordi del Cinema recente, e la determinazione nel combattere la sua nemesi - l'inquietante Young Min Jee, degno di cult del genere come Se7en -, cresciuta di pari passo con l'affezione per la giovanissima figlia della ragazza che cerca disperatamente di ritrovare, rappresentano un vero e proprio inno all'umanità, seppur messa all'angolo - ed anche di più - da una realtà all'interno della quale si muovono predatori terrificanti che, spesso, finiscono per sfruttare la Legge che infrangono per tornare a cacciare una volta dopo l'altra.
Il duello a distanza tra i due rivali, risolto all'apparenza dopo neppure mezzora di visione - non mi era mai capitato di incontrare un thriller che prevedesse la cattura del colpevole ad un quarto di pellicola -, è una continua sfida, una rivelazione, una disperata lotta all'ultimo sangue.
Come per il gioiellino made in Hong Kong Expect the unexpected, anche qui, quando ci si aspetta che non possa accadere altro più di quanto non è già accaduto, ecco un nuovo sconvolgimento nella trama pronto a prendere le nostre certezze e farne letteralmente polpette: e dalla terrificante abitazione di Young Min Jee, degna di uno slasher anni settanta, al commissariato di polizia, passando per l'auto di Joong e quella sequenza maledetta scandita dai colpi di martello nel retro del negozio, quasi non si può credere quanto dura possa essere la mano del regista, e quanto a fondo possa colpire il pubblico.
The Chaser è un viaggio allucinante nella mente di un serial killer - da brividi il confronto con il vecchio incaricato delle forze dell'ordine nella stanza degli interrogatori -, il percorso di crescita di un protagonista assolutamente caotico e negativo che riscopre la sua umanità di fronte a qualcuno che pare, al contrario, aver rinunciato volontariamente alla stessa.
In mezzo, la Legge e l'Ordine, criticate aspramente quasi fossero pedine di un gioco sempre più grande di loro, incapaci di seguire, oltre al fiuto, anche la pancia e le sensazioni come per l'indomito Joong, che non risparmia colpi bassi sia con le parole - il suo "braccio destro" continuamente vessato - che con i fatti - i confronti fisici con l'assassino -: e se l'epilogo lascia intravedere quantomeno un barlume di speranza, nello stomaco oscuro di questo angolo di Corea e dell'animo umano, tutto pare essere digerito da appetiti troppo grandi e spaventosi per essere affrontati, che si parli di lupi solitari ormai disillusi o bambine aggrappate alla speranza con tutte le forze.
E allora non resta che stare gli uni accanto alle altre, e sperare di potercela fare insieme.
MrFord
"You don't waste no time at all
don't hear the bell but you answer the call
it comes to you as to us all
we're just waiting for the hammer to fall."
La trama (con parole mie): Bae Soo Mi e Bae Soo Yeon sono due sorelle alle prese con problemi psicologici trovatesi a convivere con il padre e la nuova compagna di quest'ultimo, la crudele matrigna sempre pronta a metterle spalle al muro Eun Joo.
Quando il ritorno dalla clinica di igiene mentale di una delle due ragazze nella casa di campagna della famiglia riapre vecchie ferite, ed apparizioni misteriose segnano nel profondo ogni occupante della stessa, il conflitto tra le sorelle e la "dolce" metà del padre si inasprisce, incrinando i rapporti che le due mantengono con il genitore rimasto, per quanto labili gli stessi siano.
Ma cosa nasconde la dimora dell'improvvisato focolare domestico? Quali segreti si celano dietro l'instabilità delle ragazze e di Eun Joo? E quale ruolo hanno rispetto alla stessa il padre e gli ospiti che la famiglia accoglie?
Soprattutto, chi tra le giovani sorelle e la loro acquisita genitrice avrà davvero la ragione dalla sua parte?
Questo post partecipa all'iniziativa K-Horror Day.
Da che mi ricordi, e da quando ero bambino, il Cinema è sempre stato parte integrante della mia vita e del quotidiano di casa Ford, dai tempi in cui con mio fratello guardavamo una ventina di minuti de I Goonies o qualche altro cult mentre facevamo colazione prima di andare a scuola alla scoperta e riscoperta dei Classici, o dei nuovi autori: all'inizio degli anni zero, per un buon lustro ho attraversato la mia fase più radical chic come spettatore, concedendomi soltanto proposte d'essai ed approfittando della ricerca per scoprire aree geografiche che, cinematograficamente e culturalmente, conoscevo poco o per nulla.
Una delle più gradite tra le suddette scoperte fu la settima arte coreana, che da Kim Ki Duk a Bong Joon Ho riservò chicche davvero notevoli, ed è rimasta, anche dopo il mio risveglio tamarro, nel cuore del sottoscritto: da tanto tempo, però, mancava sugli schermi di casa Ford un ritorno di questo Cinema, ed approfittando della giornata dedicata al K-horror organizzata da Obsidian Mirror ho finito per approfittare ed unire due amori del mio passato di spettatore in un unica visione.
Peccato che, a parte l'eleganza - che già ben conoscevo - di Jee Woon Kim e dei suoi movimenti di macchina ed inquadrature, così come della ricercata fotografia, non mi sia rimasto, di fatto, praticamente nulla da una visione poco incisiva, a tratti decisamente noiosa e prevedibile rispetto alle influenze, recitata quel tanto sopra le righe da scadere, in alcuni passaggi, perfino nel ridicolo involontario: non che Two sisters sia oggettivamente un brutto film, o che sia privo della capacità di spaventare o quantomeno turbare lo spettatore - anche se, sarà l'età o il fatto di aver ormai alle spalle una carriera da veterano del genere, ormai trovo davvero difficile rimanere colpito da fantasmi, apparizioni e squilibri di vario genere -, eppure è come rimbalzato sbattendo forte contro la corazza di questo vecchio cowboy, assumendo i connotati dell'occasione sprecata e della classica pellicola che quasi dispiace di aver buttato sullo schermo, un pò come un appuntamento andato male o due ore tentenzialmente sprecate.
Evidentemente il momento di riavvicinamento al Cinema coreano per il sottoscritto doveva farsi attendere - o approfittare di qualche pezzo da novanta come fu I saw the devil, ad esempio -, così come alla sua componente - molto marcata, del resto - horror, che ha subito agli occhi del vecchio Ford una rovinosa caduta rispetto all'idea di tentare il recupero di qualche altro titolo che negli anni mi sono perso legato alla produzione coreana dei cari, amati film d'orrore.
Certo, a discolpa di Jee Woon Kim andrebbe segnalato che, a ben guardare, Two sisters rappresenta più un ibrido tra un dramma in famiglia legato a rancori e disfunzioni ed il noto cult giapponese The ring, e dunque non sarebbe sulla carta ascrivibile ad un genere fisso ed impostato, ma non basta una certa elasticità per trasmettere la vitalità che necessiterebbe una pellicola che passa e va senza colpo ferire - nonostante, lo ripeto, un grande gusto nella parte tecnica di regia e messa in scena - nonostante si proponga, almeno sulla carta, di lasciare un segno profondo in chi si trova dall'altra parte dello schermo.
Personalmente, con i titoli di coda, ho pensato più ad una liberazione, che non alle cicatrici - positive o negative che possano essere - che quest'opera poteva avermi lasciato negli occhi o nell'anima: e non è davvero mai una buona cosa.
Anzi, dovrebbe seminare il terrore più di qualsiasi horror.
La trama (con parole mie): sommerso dai debiti e messo all'angolo dalla vita, un uomo decide di abbandonare questo mondo crudele gettandosi da un ponte. Una volta travolto dalle acque, però, l'agognata fine non giunge come avrebbe dovuto: il potenziale suicida, infatti, finisce sulle rive di un'isola deserta che si trova al centro del fiume, e proprio in quel luogo così vicino alla civiltà eppure immerso nella Natura e perfetto per l'isolamento ricomincia a vivere appoggiandosi ad una speranza tanto assurda quanto meravigliosamente semplice. Dall'altra parte della città, in un palazzo anonimo e gigantesco, una ragazza vittima di una deformità fisica vive da anni la realtà della rete, confinata nella sua stanza, concedendosi soltanto la luna nella notte e due momenti nel corso dell'anno in cui, a seguito di un'esercitazione, le strade finiscono per svuotarsi. Quando il suo telescopio incontra l'uomo sull'isola, le vite di entrambi cambiano.
Da parecchio tempo il Cinema d'autore di matrice orientale che tanto era stato importante per il sottoscritto al principio degli anni zero mancava sugli schermi di casa Ford, e complice la recensione entusiastica di Poison si è deciso di ricominciare a partire da Castaway on the moon, pellicola coreana di qualche stagione fa ovviamente ignorata dalla distribuzione nostrana: il risultato è stato da un lato una piacevole conferma della sensibilità e della magia che soltanto gli autori venuti dall'Est riescono a regalare e dall'altro una parziale - anche se contenuta - delusione dovuta alle aspettative così come all'approccio fin troppo grottesco e "fumettoso" della prima parte, che ha richiesto per l'appunto metà della visione per abituarsi alla poetica del regista senza che la stessa potesse suonare ridicola o in qualche modo fuori luogo rispetto ai temi trattati.
A complicare le cose, sempre considerato il primo "spicchio" del lavoro di Hey Jun Lee, è l'impronta didascalica che la voce off del protagonista cuce addosso all'opera, appesantendola ed insinuando il dubbio, nel pubblico, di essersi trovati di fronte ad una delle tante sòle d'autore che spesso e volentieri finiscono per alimentare il sacro fuoco delle mie bottigliate.
Fortunatamente Castaway on the moon non è una sòla, quanto più che altro un titolo che non esprime tutte le sue potenzialità ma è in grado di lasciare a bocca aperta con alcune sequenze di profonda sensibilità e ribaltare ogni possibile parere negativo grazie ad un crescendo toccante e meraviglioso che vede i due protagonisti, vittime di solitudini ed emarginazioni diverse ma ugualmente drammatiche trovare la forza di reinventarsi l'uno grazie all'altra, riscoprendo il loro essere se stessi in rapporto con un mondo che pare averli definitivamente rifiutati e dal quale entrambi sono fuggiti, il primo con il tentato suicidio e l'isolamento in mezzo alla Natura e la seconda ritagliandosi uno spazio oscuro e fittizio in cui poter essere quello che lei - o il mondo stesso - crede di volere.
Al loro rapporto epistolare a distanza sono legati i momenti migliori di una storia d'amore unica, che trascende i generi - si passa dal già citato grottesco alla commedia, dalle atmosfere di un manga all'attesa estatica da film pienamente autoriale al dramma - e guida il pubblico alla scoperta di due personaggi che nascono come caricature di se stessi e finiscono per diventare eroi in un sistema e di fronte ad una società in cui l'estraniamento pare essere un comune denominatore fin troppo comune.
I due esuli Romeo e Giulietta coreani, a fronte di un progressivo impoverimento esterno, oppongono così la loro speranza fatta di spaghetti fatti in casa - se così si possono definire -, sogni di fuga e dialoghi in una lingua straniera, quasi come se il Paese che li ha condotti fino a quel punto li costringesse a trovare addirittura un altro modo per interagire, vivere, in una certa misura partire: si potrebbe quasi pensare ad un'assonanza che vede molte coppie qui nella Terra dei cachi ed in questo momento di profonda instabilità sperare in un futuro costruito lontano dalla terra natìa, in cui un "hello" può cambiare un destino anche e semplicemente perchè ci sarà qualcuno pronto a condividerlo con noi, a bagnarlo ogni giorno e vederlo crescere, facendo fronte ai tifoni, all'incertezza e all'inesperienza, alla paura del proprio io - interiore ed esteriore - e agli autobus che paiono portare proprio quella persona così lontana da farla apparire irraggiungibile.
Fino a quel giorno, quel momento preciso dell'anno, quella presentazione timida a mezza voce.
Il momento decisivo.
Quello in cui nascono le nuove stagioni, e si ha l'impressione che le cose possano cambiare davvero.
MrFord
"I say high, you say low
you say why and I say I don't know, oh no
you say goodbye and I say hello
(Hello Goodbye Hello Goodbye) hello hello
(Hello Goodbye) I don't know why you say goodbye, I say hello
(Hello Goodbye Hello Goodbye) hello hello
(Hello Goodbye) I don't know why you say goodbye
(Hello Goodbye) I say hello."
La trama (con parole mie): Kim Soo Yeon è un agente dei Servizi segreti coreani in procinto di sposarsi con la figlia di un poliziotto in pensione che ancora deve comunicare al futuro marito di essere rimasta incinta.
Quando una sera la macchina della ragazza ha un guasto in aperta campagna, la stessa finisce preda dello spietato serial killer Kyung Chul, che le toglie la vita incurante delle sue preghiere di risparmiarla proprio per il bambino che porta in grembo: Kim Soo Yeon, deciso a scoprire il colpevole, si mette sulle tracce dell'assassino indagando da solo ed anticipando la polizia.
Quando Kyung Chul finisce tra le sue mani, l'agente giura allo psicopatico di essere soltanto all'inizio della sua vendetta: comincia così una persecuzione destinata a diventare una lotta tra i due uomini che segnerà non soltanto l'esistenza di Kim Soo Yeon, ma anche quella della famiglia della sua defunta donna.
Che il Cinema coreano fosse un punto di riferimento in fatto di materia tosta come la vendetta è un dato di fatto ormai universalmente noto - che si sia cinefili oppure no - fin dai tempi dell'esplosione del fenomeno Park Chan Wook, che con Old boy sdoganò, di fatto, una corrente che ha vissuto negli ultimi anni una fortuna decisamente invidiabile, in grado di regalare al pubblico perle di qualità altissima come Memories of murder - cui questo I saw the devil è molto legato - e The mother firmate da Bong Ho Joon, divertissement d'autore e stile come Bittersweet life - sempre ad opera di Jee Woon Kim o La samaritana di Kim Ki Duk.
In realtà l'argomento è sempre stato uno dei cardini di quello che ora è considerato uno dei Paesi più importanti dal punto di vista dell'influenza sul mondo della settima arte - in particolare nell'ambito dei grandi Festival - fin dai tempi in cui cineasti ora celebrati ad ogni latitudine speravano di riuscire a portarsi a casa qualche premio secondario che potesse aprire loro le porte della grande distribuzione internazionale: I saw the devil, nerissimo titolo ormai non più recente e, purtroppo, mai arrivato nelle nostre sale, si inserisce alla perfezione in questa tradizione violenta e spietata, e afferrando lo spettatore fin dal terrificante incipit lo guida in un viaggio attraverso i lati oscuri della mente e del cuore così profondo e d'impatto da far apparire cult come Se7en fondamentalmente versioni da parental guidance di vere pellicole "da grandi" come questa.
Partito sfiorando addirittura l'horror per avviarsi su binari che ricordano l'hard boiled prima di esplodere in un crescendo finale che danza sulla tensione del thriller per scoperchiare vasi di Pandora ancestrali e decisamente scomodi che ogni uomo porta ben nascosti nel cuore, il lavoro di Jee Woon Kim è costruito sulle spalle dei due straordinari protagonisti, l'algido Byung Hun Lee - che prestò il volto principale anche nel già citato Bittersweet life - nel ruolo di Kim Soo Yeon e l'incredibile Min Sic Choi - che il pubblico occidentale conobbe per la prima volta proprio con Old Boy -, entrambi autori di una prestazione da antologia e brividi: il rapporto che si costruisce tra lo spietato serial killer Kyung Chul e l'agente Kim Soo Yeon rappresenta senza dubbio uno dei più complessi e stratificati delle ultime stagioni cinematografiche, pronto a stupire e sconvolgere l'audience ad ogni suo passaggio ed evoluzione, dalla terrificante uccisione della fidanzata di Kim che apre la vicenda - che ha riportato alla mente del sottoscritto la forza di cult di genere come Il silenzio degli innocenti - fino ai ripetuti incontri dei due uomini, atti a ridefinire i loro ruoli ed esplorare lati delle rispettive personalità fino a quel momento sconosciuti.
La progressiva evoluzione di Kim da tutore dell'ordine a predatore accecato dalla furia e quella di Kyung da spietato assassino a vittima designata, come se non bastasse, si evolve attraverso sfumature sempre più complesse, e benchè non si rischi neppure per un secondo - drammatico finale compreso - ad empatizzare con una bestia della risma di Kyung - clamoroso come lo stesso, rimesso in libertà una prima volta da Kim, non ci pensi due volte a ricominciare ad uccidere, o tentare di farlo -, la portata delle azioni dell'agente muove a riflessioni sempre più profonde, legate al fatto che il contatto con l'oscurità liberata per dare la caccia all'uomo che ha ucciso la sua compagna, finiscono per condurlo su sentieri pericolosi e soprattutto destinati a generare altro dolore, altra morte e disperazione, neanche ci trovassimo all'interno di una tragedia greca dell'antichità, di quelle che non risparmiano nulla e nessuno, e più ci si avvicina al cuore e più profonde saranno le ferite.
Lasciandomi trascinare da questa terrificante meraviglia ho avuto anche modo di riflettere a proposito della figura del serial killer, da sempre tra le più affascinanti che la cronaca e la storia potessero presentare al sottoscritto: ai tempi della mia adolescenza, le vite di personaggi come potrebbe essere Kyung riuscivano ad alimentare una curiosità oscura che, in alcuni casi, finiva per creare una sorta di empatia, eppure con il passare del tempo - e, probabilmente, l'età e la formazione di una Famiglia - ogni legame di questo tipo pare essere scomparso, e per quanto drammatiche siano le ripercussioni delle azioni di Kim - di cui lo stesso agente è assolutamente responsabile - non c'è nulla che l'assassino subisce per mano del suo cacciatore che non meriti, perfino - e di nuovo lo cito indirettamente, per quanto stia cercando di non rivelare nulla - il trattamento riservatogli alla fine della storia.
Certo, il protagonista dovrà accettare il fatto che, una volta aperto il proprio cuore ai compromessi della violenza e della vendetta, la vita non sarà mai più la stessa: un pò come per noi, da questa parte dello schermo, ogni volta che decideremo di affrontare una visione come quella di I saw the devil.
Perchè quel diavolo, quel mostro, quell'abisso, ricambieranno sempre il nostro sguardo.
E la cosa più terribile è che potremmo scoprire di somigliargli perfino troppo.
MrFord
"And she says,
I swear I'm not the devil
though you think I am.
I swear I'm not the devil.
And she says,
I swear I'm not the devil
Though you think I am.
I swear I'm not the devil."
La trama (con parole mie): dietro l'assalto ad un treno che pare proprio una comune rapina si cela un intrigo che coinvolge uomini d'affari, banditi, truffatori e addirittura l'esercito giapponese in Manciuria in un periodo non identificato che potrebbe stare tra i due conflitti mondiali.
Ad incrociare i loro cammini nel corso dell'assalto ci sono il Buono, il Matto e il Cattivo: il primo è un cacciatore di taglie alla ricerca di Manciuria Kid e la sua banda e del misterioso Mozza pollici, il secondo è un trafficone sempre pronto ad arricchirsi e a scoprire nuovi tesori mentre il terzo è proprio il Kid più ricercato dell'Asia, un assassino lucido e spietato con qualche problema di ego.
Quando dal caos che genera l'assalto esce il Matto in possesso di una misteriosa mappa che tutti paiono volere nelle loro mani, i tre pistoleri si ritroveranno ad inseguirsi e darsi la caccia senza sapere che, a loro volta, si ritroveranno nel mirino di bande e soldati.
L'unica speranza di dare un senso a tutto pare proprio essere quella di scoprire la verità sul tesoro.
E sopravvivere per goderselo, ovviamente.
Come ormai tutti quanti ben sapete, qui al saloon in Western è sempre tenuto in palmo di mano, ed un film che omaggi uno dei cult più amati della sua storia - qui da noi e non solo - parte già con più di un punto a suo favore.
Quando, a questo, si aggiungono un rispetto in grado di mantenere l'equilibrio tra citazionismo ed originalità, un comparto tecnico di tutto rispetto - produzione e regia sono effettivamente notevoli, la prima curata fin nei minimi dettagli, la seconda assolutamente in linea con gli standard autoriali asiatici, sempre alti - ed una commistione di generi che parte indubbiamente dal suddetto Western ma si ritrova segnata anche dal mondo del fumetto, dalle arti marziali, dall'epica delle grandi avventure ed anche da una certa dose di casereccio steampunk le credenziali per tirare fuori un piccolo cult ci sono proprio tutte.
Eppure Il buono il matto il cattivo non mi ha convinto fino in fondo, arrivando a tratti quasi ad annoiarmi, e pur riconoscendo molte buone idee ed una messa in scena notevole mi sono ritrovato a paragonare il lavoro di Jee Woon Kim all'americano Cowboys&aliens, altra operazione di ripescaggio e mescolanza di generi portata sugli schermi con perizia ma assolutamente priva anche della più piccola traccia di anima.
Certo non aiuta la resa complessiva il paragone naturale che passa tra Eastwood, Van Cleef ed il mitico Eli Wallach con il terzetto di pistoleri scelti per questa nuova interpretazione del trio: fatta eccezione, infatti, per Kang Ho Song - già visto all'opera sia con Park Chan Wook che con Joon Ho Bong -, che come di consueto interpreta il personaggio più sopra le righe, sia il Buono che il Cattivo mostrano il fianco ad una complessiva mancanza di carisma che si traduce in una sorta di "invisibilità" del primo e di una deformazione a macchietta da cartoon del secondo.
Non vorrei però generalizzare troppo, o ridurre ai minimi termini l'opera di Jee Woon Kim continuando a paragonarla al supercult di Sergio Leone, così vi consiglio, nel caso decideste di buttarvi nella visione, di non pensare affatto al titolo e ai suoi rimandi, alla colonna sonora assolutamente non all'altezza dell'originale di Ennio Morricone e agli attori non sempre adatti a sostenere il peso di personaggi tanto abbozzati quanto clamorosamente mitici: godetevi questa bella avventura e basta, come fosse una sorta di film wu xia con le pistole al posto delle spade, le panoramiche mozzafiato, gli ottimi movimenti di macchina e la sottotrama legata all'esercito giapponese, la più interessante tra quelle raccontate dallo script e senza dubbio la miccia accesa e pronta ad esplodere nel confronto finale, non eclatante in sè - e purtroppo, tornano i paragoni con l'opera di Leone, pur cercando di tenerli lontani - quanto assolutamente interessante nella chiusura, decisamente più originale e coraggiosa - ma il tempo, da questo punto di vista, è dalla parte del regista coreano - di quella de Il buono il brutto il cattivo.
La reinterpretazione del concetto di tesoro, infatti, rappresenta l'idea migliore di questo film, certamente interessante per chi ama il genere e coltiva sogni da regista ma un pò troppo insipida per raggiungere un pubblico particolarmente ampio o strappare consensi entusiastici all'appassionato.
E a stare così, nel mezzo - parola del Maestro Miyagi -, si finisce "schiacciati come grappolo d'uva".
MrFord
"Please go after him
cause he delayed them there
I see the proud man
he delayed to see them all."
La trama (con parole mie): a seguito del trauma di un incidente occorso ad un'attrice durante le riprese di Dream e della delusione cocente rispetto agli ambienti cinematografici, Kim Ki Duk, regista di fama mondiale, dal 2008 si ritira in montagna, in una baita priva anche del bagno, vivendo in solitudine e, colto da una sorta di "blocco del regista", ridotto a filmarsi per potersi sentire vivo.
Il risultato è una sorta di ibrido tra dramma esistenziale e documentario in cui il cineasta mette a nudo parte della sua vita, delle sue aspirazioni e dei successi, autocelebrandosi eppure mostrando tutti i punti deboli di una persona ferita quasi una storia importante fosse finita improvvisamente.
A volte, partire con il freno a mano tirato può essere utile, in merito alle aspettative più o meno rispettate di una visione: nonostante la sua fama ed i fan da una parte e dall'altra della barricata del Cinema d'autore - spartiacque fornito, nel caso del regista coreano, da "Primavera, estate, autunno, inverno... E ancora primavera" -, quest'ultima fatica di Kim Ki Duk era stata accolta tiepidamente, apparendo troppo autocelebrativa agli appassionati e decisamente ostica per il pubblico occasionale.
Dunque, pronto ad una visione che si sarebbe potuta rivelare irritante - le bottiglie scalpitavano già nel fodero -, ho approcciato ad Arirang pensando che sarebbe stato il primo titolo dell'autore di Ferro 3 e Bad guy ad essere stroncato dal sottoscritto, nel pieno spirito di questo ottobre in cui spesso e volentieri mi sono cimentato nel bottigliamento selvaggio di nomi altisonanti.
Al contrario di quanto mi aspettassi, però, nonostante le mie più battagliere intenzioni, mi sono ritrovato ad apprezzare - e molto, in alcuni passaggi - quest'anomala fatica di Kim Ki Duk, che ancora una volta dimostra di essere un vero e proprio fenomeno del montaggio - da manuale dall'inizio alla fine - nonchè un uomo dalle mille risorse - vederlo assemblare una macchina per il caffè fatta in casa memore del suo passato in fabbrica rende bene l'idea di quanto possa essere importante, come regista, avere un'ottima manualità - e, perchè no, con tutti i limiti, le idiosincrasie e gli sbalzi d'umore che caratterizzano anche tutti noi che non siamo certo cineasti di fama mondiale.
Se, dunque, a tratti il tono appare effettivamente autocelebrativo - l'insistita inquadratura dei talloni segnati, il dialogo con l'ombra, le locandine dei film appese nella baita accanto ai premi ricevuti a Venezia e Berlino -, nel complesso questo tentativo risulta genuino ed interessante, specialmente nel momento in cui, fornendo un'interpretazione di quelle che sono le sue paure, esperienze e domande rispetto al futuro nel corso di un dialogo che mi ha riportato alla mente i deliri di Gollum e Smeagol - e anche qui, montaggio da fuoriclasse -, Kim Ki Duk indaga sul suo disagio cercando di portare alla luce tutto quello che, nel corso degli anni e della sua ascesa come icona del Cinema mondiale, pare essersi perduto lungo la strada.
I riferimenti ai collaboratori e produttori scomparsi di colpo - andati dove c'era garanzia di più denaro, con ammissione di avere, a volte, fatto lo stesso - o agli organi statali che conferiscono medaglie legate alla fama conquistata nel mondo senza neppure preoccuparsi di vedere film che criticano la società che loro stessi rappresentano appaiono assolutamente sinceri ed attuali, e se meno interessanti sono gli attimi di commozione del regista nel riscoprire proprio il già citato "Primavera, estate, autunno, inverno... E ancora primavera" le sue invettive da ubriaco - quel "figli di puttana" neanche fossimo al saloon è stato assolutamente mitico -, la cacca all'aperto il mattino, la cucina, i racconti del passato ed il cibo al gatto randagio aggiungono spessore ad un personaggio sfuggente e a suo dire - e non solo - solitario, che ha trovato nella regia uno scopo ed una strada in grado di strapparlo da una vita di stenti alla quale ora torna ad avvicinarsi per trovare uno stimolo a ricominciare.
Un'opera certo non per tutti - ed intendo anche gli stessi fan del regista -, ma in grado di portare ad un altro livello il discorso autobiografico tentato da Joaquin Phoenix e Casey Affleck con I'm still here, fornendo un ritratto a suo modo unico che gli studenti di Cinema e gli aspiranti registi - e montatori - non dovrebbero perdersi per nulla al mondo.
In fondo, passi falsi o no, look da senzatetto o Mac di ultima generazione, abbiamo di fronte uno dei talenti più incredibili prodotti dalla settima arte negli ultimi vent'anni.
MrFord
"Oh dancing with myself
oh dancing with myself
well there's nothing to lose
and there's nothing to prove
I'll be dancing with myself."
Billy Idol - "Dancing with myself" -
La trama (con parole mie): Do-Joon è un ragazzo con problemi mentali che vive con la madre un rapporto praticamente simbiotico, e che ha nel deciso e sprezzante Jin-Tae l'unico amico. Quando una ragazza che ha seguito una sera viene ritrovata morta la polizia pare non avere dubbi a proposito della sua colpevolezza, e si profila per lui l'agonia del carcere: la madre, convinta dell'innocenza del giovane, inizierà un'indagine in solitaria che la porterà a diffidare anche dello stesso Jin-Tae e a scontrarsi con la polizia pur di arrivare a dimostrare che suo figlio è innocente. Tutti i suoi sospetti condurranno ad un unico, sfuggente personaggio, ma quando verrà il momento del confronto decisivo la donna scoprirà che ci sono verità ben peggiori di quelle che pensava di dover essere preparata ad affrontare.
Si potrebbero dire molte cose, di un film come Mother. Per esempio, si potrebbero tessere le lodi di Joon-Ho Bong, già autore degli strepitosi The Host e Memories of murder: un regista in grado di unire uno stile asciutto eppure spettacolare ad un'intensità emotiva quasi insostenibile, capace di spaziare dal disaster movie al dramma intimista, dalle atmosfere che da noi in Occidente si sono respirate negli splendidi Seven e Zodiac all'indagine psicologica sui rapporti tra genitori e figli senza mai perdere neppure per un istante il filo delle sue sceneggiature ad orologeria. Oppure ci si potrebbe soffermare sul fatto che, indiscutibilmente, Mother rappresenta uno dei ritratti più intensi e profondi del rapporto tra genitrice e figlio mai visti sul grande schermo, secondo, a mia memoria, soltanto all'indimenticabile Madre e figlio di Sokurov. O ancora, si potrebbe spendere tempo elogiando tutta la parte tecnica, dalla fotografia al montaggio, fino, come detto, alla sceneggiatura o all'interpretazione clamorosa dei due protagonisti. Eppure, tutte le parole spese parrebbero superflue rispetto all'esperienza che la visione è in grado di regalare, una delle più potenti che mi sia capitato di vivere, come spettatore, quest'anno: Bong traccia con mano leggera - eppure tagliente - una vicenda torbida e terribile, sconvolgente e così nera da lasciare come unica possibilità di sopravviverle l'oblio - della mente per il giovane Do-Joon, della coscienza per sua madre -, che scava a fondo alla ricerca di un istinto primordiale - quello della protezione dei propri figli - insito in ogni donna - e non solo - ed in grado di rendere una piccola signora apparentemente ai margini della società una macchina quasi inarrestabile di giustizia, da qualunque punto la stessa si possa vedere o considerare. La capacità, inoltre, del regista di procedere come un vero e proprio illusionista nel mostrare gli snodi della trama - l'incedere dello script mi ha ricordato l'approccio di Jo Nesbo per i suoi romanzi dedicati al detective Harry Hole, mio nuovo idolo letterario - è clamorosa, e spesso e volentieri ci si trova ad immedesimarsi nella madre di Do-Joon nel corso della sua insolita indagine, ben più complessa di quanto non possa sembrare e legata a doppio filo al momento in cui il giovane decide di seguire la futura vittima, in una scena ripresa più volte nel corso della pellicola e degna del miglior DePalma. In particolare, l'ellissi che permette di scoprire la verità su quanto accaduto la fatidica notte dell'omicidio assume una dimensione unica nel viaggio che la madre - e lo spettatore - intraprendono nel corso di quest'esperienza cinematografica, e diviene un drammatico passaggio obbligato per una delle sequenze più potenti che gli ultimi mesi mi abbiano riservato. Ma attenzione, a sottovalutare Bong, e pensare che tutto finisca con un'esplosione: molta della sua forza sta nei silenzi, e l'epilogo, in questo senso, rappresenta uno dei momenti più drammatici che mi sia capitato di vivere rispetto ad una pellicola. La scelta della madre, disperata ed estrema, è un atto d'amore e di estremo egoismo ad un tempo, un gesto condivisibile eppure criticabile, una tempesta di sentimenti ed emozioni come solo i legami indissolubili sanno essere. Come dicevo, si potrebbero dire molte cose, di un film come Mother. Oppure, semplicemente, perdersi nella sua visione. Sarà come indagare accanto ad una madre, e perdersi negli occhi di un figlio.
MrFord
"Per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce."