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mercoledì 29 aprile 2015

Black sea

Regia: Kevin MacDonald
Origine: USA, Russia, UK
Anno: 2014
Durata: 114'





La trama (con parole mie): Robinson, esperto capitano di sottomarini lasciato a casa dalla multinazionale per la quale ha lavorato negli ultimi undici anni, cerca un finanziatore a seguito della scoperta di un ex collega che collocherebbe nelle profondità del Mar Nero un U-Boot tedesco ancora carico di lingotti d'oro frutto di un accordo finito male tra Hitler e Stalin.
Scelto l'equipaggio, diviso tra russi ed anglosassoni, ed acquistato un vecchio sottomarino, Robinson guida i suoi nell'oscurità degli abissi, senza sapere che dietro il denaro che ha permesso la loro rischiosa missione si cela proprio la multinazionale responsabile della sua disoccupazione, e che le differenze culturali tra i membri della spedizione finiranno per minare dall'interno la riuscita dell'impresa.
Chi, alla fine, riuscirà a tornare a galla? Ed esisterà davvero, questo mitico U-Boot carico d'oro?







Senza dubbio una delle esperienze più importanti per capire se si potrà mai davvero avere un legame unico con una persona è quella del viaggio, spartiacque fondamentale in grado di cementare rapporti destinati a durare una vita o far naufragare amicizie o amori che si credevano più che solidi: una sorta di versione "dopata" del viaggio stesso risulta essere senza dubbio la convivenza forzata, sia essa legata ad una realtà casuale - i naufraghi di Lost, per citare un esempio fondamentale di fiction -, a trascorsi di vita - il carcere - o scelte - il lavoro a bordo di una nave, o un sottomarino -.
Black sea, ultimo lavoro del discontinuo ma decisamente capace Kevin MacDonald, mostra - e molto bene - proprio questo: sfruttando meccanismi che rimbalzano dal film d'azione al thriller senza disdegnare il quasi horror, il regista scozzese consegna tra le mani del pubblico un cocktail artigianale ma ottimamente riuscito che rievoca tanto The descent - almeno rispetto al fatto che sia l'Uomo, il mostro più temibile che si può avere la sfortuna di incontrare - quanto The Abyss o il semisconociuto ma decisamente interessante Below, senza dimenticare in tutto questo la mitologia marinaresca ed appoggiandosi sulle spalle di un Jude Law che pare non aver dimenticato la lezione dell'ottimo Dom Hemingway, portando sullo schermo un personaggio che lo allontana dal suo status precedente di sex symbol mostrandolo al contrario decisamente più maturo e ruvido, quasi fosse una versione action degli antieroi sociali di Ken Loach.
Un prodotto non particolarmente originale, dunque, ma in grado di funzionare dal primo all'ultimo minuto, di tenere alta la tensione e risultare credibile anche nei momenti decisamente più legati alla fiction, dotato di un grande fascino vintage - e non solo per il sottomarino "d'altro tempi" sfruttato come location dal regista e come mezzo per giungere allo scopo della missione dai protagonisti - e capace di portare sullo schermo sia riflessioni legate al mondo del lavoro ed alla condizione di disperati di molti professionisti rimasti "a piedi" da un giorno all'altro sia il tipico crescendo adrenalinico che una ventina d'anni or sono rappresentava uno standard per titoli di questo genere che ambissero a diventare quantomeno dei piccoli cult: l'ambientazione sottomarina, inoltre, che si parli del claustrofobico interno del sommergibile o delle oscure profondità degli abissi - ci si riferisce spesso, soprattutto in termini cinematografici, allo spazio profondo, ma l'ignoto offerto dalle fosse dei nostri oceani è assolutamente all'altezza delle vastità siderali - conferisce ad una vicenda che, di fatto, è legata all'avidità ed alla voglia di riscatto tutte umane una cornice dal fascino del vecchio film d'avventura, quasi l'impresa praticamente impossibile di Robinson e soci fosse intrisa di quello spirito piratesco che diede origine ad una serie di leggende immortali della Letteratura come del Cinema.
In questo senso, l'aura survival del lavoro di MacDonald unita ai suoi tratti decisamente più umani - dalla stupidità del conflitto tra le due fazioni dei membri dell'equipaggio da piena Guerra Fredda al rapporto tra Robinson e Liam pronto a colmare il vuoto di quello lasciato dal figlio cresciuto da un altro uomo del primo e la futura paternità del secondo - rende Black sea una visione solida e di carattere, destinata probabilmente a non fare la Storia della settima arte ma non per questo non meritevole di attenzioni: in un certo senso, infatti, Black sea è uno di noi.
Uno qualunque, con i suoi pregi ed i suoi difetti, forse non geniale, ma di pancia, diretto e sincero, nel bene e nel male. Qualcuno presente. In qualsiasi termine lo vogliate interpretare.
Considerato che io per primo diffidavo di questa visione neanche mi avessero chiesto di prendere parte ad una missione pressochè suicida nelle profondità del Mar Nero, direi che neppure un finale con una qualche concessione di troppo sia riuscito a fermarmi: e sapete che vi dico?
Che con gente come MacDonald, o Robinson, mi imbarcherei tutti i giorni.




MrFord




"And I could write it down
or spread it all around
get lost and then get found
or swallowed in the sea."
Coldplay - "Swallowed in the sea" - 




mercoledì 2 gennaio 2013

Ford Awards 2012: i film (N° 30-21)

La trama (con parole mie): la scalata verso la vetta della classifica prosegue con la seconda decina dedicata al meglio dei film distribuiti nelle sale della Terra dei cachi nel corso del 2012. 
Una decina solida e molto variegata, all'interno della quale spicca il primo degli unici due film italiani presenti nella classifica in un anno che non ha visto brillare - purtroppo - il Cinema nostrano.
State dunque pronti ad averne per tutti i gusti, dal documentario al thriller, passando per l'animazione, il fantasy ed il sociale.
Come al solito, qui al Saloon ce n'è proprio per tutti.




 N° 30: Cogan – Killing them softly di Andrew Dominik


Il regista degli ottimi Chopper e L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford torna alla ribalta con un thriller d’azione verbale più che fisica, un ritratto profondamente noir degli States attuali, con un paio di sequenze ad impatto, dialoghi fiume in cui perdersi ed un finale che è una vera e propria coltellata.
Perfetto Johnny Cash inserito nella colonna sonora, ottimo il cast.





N° 29: Brave - Ribelle di Mark Andrews, Brenda Chapman, Bill Purcell


I Pixar Studios, dopo la mezza delusione che fu Cars 2, tornano a confezionare un prodotto eccellente non solo dal punto di vista tecnico, che fotografa alla grandissima le problematiche dei rapporti tra madri e figlie – adolescenti – e le dinamiche di una normale famiglia come ce n’erano ai tempi dei clan delle Highlands e come ce ne sono ora.
Realizzato da dio, divertente, ritmato, e preceduto da un corto che è uno spettacolo.


N° 28: The Avengers di Joss Whedon
 
 
Il miglior film di supereroi dai tempi de Il cavaliere oscuro, senza se e senza ma.
Fracassone, tamarro, autoironico, impreziosito dai botta e risposta che Robert Downey Jr/Iron man sfodera nel confronto con ogni altro personaggio e dal migliore Hulk mai apparso sullo schermo.
Almeno una manciata di sequenze memorabili – il “sono sempre arrabbiato” di Banner, il pugno di Hulk a Thor e il bellissimo confronto Hulk/Loki a proposito dello status di divinità – e divertimento assicurato per grandi e piccini.


N° 27: Marley di Kevin MacDonald


Il regista degli ottimi One day in september e La morte sospesa torna al documentario e lo fa alla grandissima, con il ritratto di uno dei simboli della musica moderna nonché personaggio unico nel suo genere: dalle strade di Kingston ai palcoscenici internazionali, dalla religione rastafariana alle sue numerose donne, dai figli al successo, fino alla morte, il Bob Marley uomo prima che popstar internazionale. Emozionante, sentito, profondo. Get up, stand up.


N° 26: Red lights di Rodrigo Cortes


Il regista del bottigliatissimo Buried trova il suo riscatto con un thriller sovrannaturale che mescola Il sesto senso e The prestige, avvince ed incanta riuscendo addirittura nell’impresa di far risorgere, almeno in parte, il dato per perduto Robert De Niro.
Scienza e Fede a confronto in un dramma che inchioda alla poltrona dal primo all’ultimo minuto, sorretto da un ottimo Cillian Murphy e giocato sul filo senza mai eccedere da una parte o dall’altra. Una delle sorprese più interessanti dell’anno.


N° 25: Diaz – Don't clean up this blood di Daniele Vicari


Rispetto allo scorso anno e nonostante una media qualitativa disastrosa, il Cinema italiano riesce comunque a piazzare due titoli nella top 40: il primo è questa potentissima ricostruzione degli scandalosi avvenimenti che durante lo sciagurato G8 di Genova del luglio 2001 accaddero nel corso dell’assalto alla scuola Diaz e nei successivi interrogatori avvenuti nella caserma di Bolzaneto.
Un film non perfetto, ma necessario che è impossibile guardare rimanendo indifferenti.



N° 24: Another Earth di Mike Cahill


Messa da parte la compilation di bottigliate rifilata a Melancholia, ecco giungere al Saloon un prodotto intelligente e profondo realizzato sul tema dei corpi celesti “in rotta di collisione”: due solitudini che si incontrano nell’attesa di scoprire cosa accadrà a due mondi “allo specchio” quando la distanza si farà troppo breve per fare finta di nulla.
Forse non per tutti, ma un’esperienza che resta dentro.


N° 23: Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato di Peter Jackson


Approcciato con il dubbio che non potesse raggiungere il livello della trilogia de Il signore degli anelli, il nuovo film firmato da Peter Jackson dedicato al mondo tolkeniano è una piccola perla di stupore e meraviglia, un omaggio al Cinema d’avventura che conquistava i bambini nel pieno dei favolosi anni ottanta che più passano i giorni dalla visione e più mi pare clamorosamente centrata.
Se l’inizio è di questo livello, c’è da sperare che il regista neozelandese superi se stesso con i prossimi due capitoli.


N° 22: Argo di Ben Affleck


Come l’ormai leggendario Clint Eastwood quarant’anni or sono, anche nel caso dell’ex bisteccone Ben Affleck abbiamo scoperto che l’uomo dietro la macchina da presa è di tutt’altro livello rispetto a quello davanti alla stessa.
Dopo il discreto Gone baby gone ed il buon The town, Ben si scopre autore garanzia con un film tesissimo eppure divertente, omaggio alla Hollywood delle grandi produzioni e delle bugie nonché cronaca di un avvenimento realmente accaduto che ricorda molto il Cinema impegnato targato Pakula. Già cult.



N° 21: Margin call di J. C. Chandor


Una delle migliori sceneggiature dell’anno racconta i tempi della crisi economica e delle imprevedibilità della borsa trasformandole in una sorta di thriller all’ultimo respiro, con un cast stellare ed un crescendo che ricorda l’ottimo Americani più che i due Wall Street.
Squali a nuoto in un acquario di pesci rossi ed un futuro sempre più oscuro per tutti quelli che non sono i grandi burattinai dell’economia mondiale. A suo modo profetico.


MrFord


lunedì 10 dicembre 2012

Marley

Regia: Kevin MacDonald
Origine: UK, USA
Anno: 2012
Durata: 144'




La trama (con parole mie): dalle origini rurali al ghetto di Trench Town fino agli stadi gremiti in tutto il mondo, uno sguardo approfondito sulla vicenda umana e musicale di una delle icone pop del ventesimo secolo, l'artista che ha segnato il successo del reggae ed ispirato generazioni intere di ascoltatori, musicisti ed appassionati.
Una fotografia traboccante emozione e musica che passa attraverso le testimonianze di compagni, parenti, figli, donne, produttori e filmati di repertorio tratti da concerti ed interviste in grado di dare uno spessore nuovo non solo al personaggio, ma soprattutto alla persona Bob Marley: non soltanto, dunque, l'idolo delle masse, ma anche il padre, il convinto rastafariano, l'amico, l'amante, l'Uomo.
Dall'Africa agli States, dalla Giamaica all'Inghilterra, l'ascesa e la morte di uno dei più grandi comunicatori che la Musica abbia mai conosciuto.





Kevin MacDonald è da parecchio tempo, ormai, una piccola certezza di casa Ford, soprattutto per quanto riguarda il documentario: il giovane regista nativo di Glasgow, infatti, più noto per i lungometraggi State of play, The eagle e L'ultimo re di Scozia, dalle mie parti si è fatto notare per gli splendidi La morte sospesa e One day in September, incentrato sulle drammatiche vicende che turbarono il clima di festa nel villaggio olimpico a Monaco '70.
Con Marley si segna il suo ritorno al format che gli è più congeniale, e che fin dalle prime battute si conferma come una scelta quanto mai azzeccata per il cineasta in ottica di un suo ritorno ufficiale nelle schiere del lato più "autoriale" della settima arte: le panoramiche a volo d'uccello sugli splendidi paesaggi giamaicani, così come le interviste per le strade del minuscolo borgo di St. Anne - luogo di nascita del meticcio Robert Marley, padre vecchio soldato anglosassone, madre giovanissima e nativa del luogo, fino al momento del successo spesso e volentieri rifiutato proprio per la sua diversità di "mezzosangue" - fanno intendere da subito che il buon Kevin ha intenzione di portare a casa - e nei cuori degli spettatori - un lavoro con tutti gli attributi al loro posto, regalando una vera e propria perla non soltanto ai fan del più grande interprete della storia della musica reggae o della musica in genere, ma anche agli appassionati di Cinema e a chi, per quanto difficile possa suonare, dell'autore della celeberrima No woman no cry conosce poco o nulla.
La cosa interessante - oltre ai numerosissimi filmati di repertorio recuperati da concerti, interviste, servizi dell'epoca - è l'intenzione di MacDonald di presentare non soltanto il Bob Marley personaggio, cantante ed icona della scena musicale internazionale, ma anche la sua storia, dall'infanzia alla morte, il legame con i precetti rastafari, il rapporto con la moglie Rita e tutte le altre donne della sua vita - undici eredi da sette unioni diverse, di sicuro non era il tipo da farsi troppi problemi in questo senso -, il legame con i figli - in particolare Ziggy, cantante anch'egli pur se non noto quanto il padre, e Cedella -, i viaggi e la scoperta del mondo nonchè la condotta rispetto alla scena politica giamaicana, complessa e molto violenta soprattutto sul finire degli anni settanta.
Con un tocco assolutamente leggero che mi ha ricordato quello di Jonathan Demme nel meraviglioso The agronomist - e le due sequenze legate alla visita giamaicana di Hailè Selassiè, icona del rastafarianesimo, e del ritorno dello stesso Marley in patria dopo il suo "esilio" ricordano non poco quella che vide protagonista ad Haiti Jean Dominique -, MacDonald prende per mano l'audience per le strade di Kingston così come nei più gremiti degli stadi europei - alcuni tra noi ricorderanno, e avranno avuto la fortuna di assistere, alla sua storica performance a Milano, nello stadio di S. Siro, il 27 giugno del 1980 - senza risparmiarsi nulla a proposito del carismatico leader dei Wailers, dall'infanzia nel ghetto fino al complicato rapporto con i suoi primi compagni di band, dai successi locali all'affermazione planetaria che lo vide sconvolgere la scena musicale globale come pochi altri avevano fatto - e faranno -: personalmente, malgrado le mie influenze siano sicuramente più rock, ho sempre amato la musica reggae e ska pur non condividendo praticamente per nulla i rigidi precetti rastafari e la visione piuttosto impostata rispetto alle donne e alla religione, eppure nonostante l'importanza politica e mediatica del personaggio, ho trovato innovativa ed assolutamente potente la parte di questo film dedicata al Bob Marley uomo e padre, appena accennata eppure clamorosamente profonda e complessa.
Le parole di Ziggy - che racconta di quanto il genitore fosse rigido, o di come, nelle gare di corsa con loro sulla spiaggia se ne fregasse del fatto di vedersela con dei bambini mettendo tutto se stesso in modo da arrivare alla vittoria - e di Cedella - che si chiede come sia stato possibile per sua madre Rita accettare di buon grado tutte le infedeltà del marito considerandole parte del loro rapporto, o di quanto le sia mancato un padre presente anche quando, di fronte al suo letto di morte, capì che sarebbe stato impossibile trovare un momento che fosse soltanto loro - rendono vivida e credibile una figura forse più nota come simbolo su bandiere e t-shirt, passata alla Storia - almeno in Occidente - come fosse fondamentale nella crociata per la liberalizzazione delle droghe leggere - crociata che condivido, ma che appare superficiale rispetto alla vita e alla cultura dell'uomo e dell'artista in questione -.
Bob Marley non era perfetto, anzi: accanto alla sua ferrea volontà di ricerca di un mondo all'interno del quale potesse essere possibile la pacifica coestistenza tra le razze e le culture vi era un ragazzo estremamente ambizioso - nonostante lui stesso dichiarasse il contrario -, dall'incontenibile voglia di vincere ed arrivare al successo, fianco a fianco con la passione sfrenata per la vita - la musica, le donne, il calcio, l'erba - un distacco quasi glaciale dai figli, dalle compagne più importanti, dagli amici e dai musicisti, quasi fosse promesso a qualcosa di più grande, dalla necessità di lottare accanto al suo pubblico alla scelta di trascurare una ferita che avrebbe potuto salvargli la vita dal tumore che l'ha portato via, combattuto troppo tardi e troppo frettolosamente.
Ma il bello è proprio questo: perchè - e non me ne vogliano il vecchio Bob ed i suoi compagni rastafariani - l'ideale fatto uomo, la divinità, l'icona, non esiste.
Esiste l'umanità profonda di quello che è stato a suo modo un profeta, e senza dubbio uno dei più grandi comunicatori che la Musica abbia mai conosciuto.
Get up, stand up, Bob.
Don't give up to fight.
E qui dalle mie parti non si smette mai di lottare. E di Resistere.


MrFord


"Emancipate yourselves from mental slavery;
none but ourselves can free our minds.
Have no fear for atomic energy,
'cause none of them can stop the time.
How long shall they kill our prophets,
while we stand aside and look? Ooh!
Some say it's just a part of it:
we've got to fulfill the Book.
Won't you help to sing
These songs of freedom?
'Cause all I ever have:
Redemption songs,
redemption songs,
redemption songs."
Bob Marley - "Redemption song" -


 

sabato 18 giugno 2011

The eagle

La trama (con parole mie): Marcus è il figlio di Flavius Aquila, comandante della famigerata Nona legione dell'esercito romano, scomparsa con le sue insegne mentre era in piena avanzata alla conquista della Britannia. Vent'anni dopo la disonorevole vicenda che vide coinvolto il padre, il giovane prende servizio come comandante di un forte tra i più vicini al Vallo di Adriano, valico voluto dall'Imperatore come segno tangibile della fine del mondo conosciuto.
Grazie al valore in battaglia saprà guadagnare il rispetto dei suoi uomini, ma le ferite riportate lo costringeranno ad abbandonare la carriera militare: così, per trovare pace rispetto al ricordo del genitore, il centurione si imbarcherà in un'avventura che potrebbe significare morte certa accanto allo schiavo nativo di quei luoghi Esca, destinato a divenire più di un compagno di viaggio per il protagonista.

In principio, era Centurion, guidato dalla mano ferma e violenta di Neil Marshall.
Dunque venne Kevin MacDonald, scozzese anch'egli, cresciuto a pane e documentari - ottimi, recuperate One day in september e La morte sospesa -, che torna ad occuparsi delle vicende della misteriosa Nona legione prendendole alla larga, e ripartendo vent'anni dopo la sua scomparsa per fornire un suo personale epilogo di una vicenda ancora misteriosa per storici, archeologi e romanzieri.
Il regista de L'ultimo re di Scozia non ha certo, almeno per quanto riguarda la fiction, gli attributi del cineasta di The Descent, e non si prefissa di certo come obiettivo primario quello di tracciare una linea tra gli accadimenti storici ed il mito, quanto di narrare una storia di solida amicizia virile nel pieno stile dei film d'avventura in grado di pescare a mani basse da pellicole note quali Il gladiatore, Braveheart o L'ultimo dei Mohicani, riflettendo al contempo sulla natura del diverso e le difficoltà di costruzione di un rapporto nato come una rivalità e divenuto progressivamente un patto, prima d'onore e doveri, dunque di vera e propria fedeltà.
Non una pellicola indimenticabile - ma del resto non lo erano neanche il già citato L'ultimo re di Scozia o il più discreto State of play -, ma comunque un buon intrattenimento nel pieno spirito del genere in grado di risvegliare passioni ormai sepolte - come quella del sottoscritto per la Storia antica - ed in grado di gettare, quasi fossero sassate improvvise, ottime idee accanto a più numerosi scivoloni nel territorio del già visto e sentito, soprattutto a livello di sceneggiatura.
Se dovessi essere maligno, affermerei che si tratta del tipico film che maschera il blockbusterismo con massicce dosi di finta autorialità, di quelli della razza peggiore, responsabili delle più basse dichiarazioni da lunedì dopo un weekend di divano e film dei colleghi normalmente a digiuno da grande schermo che dipingono anche le peggiori porcate come Capolavori.
Al contrario, ho deciso di seguire l'istinto ed il cuore, in una certa misura - in fondo il Cinema di questo genere, volente o nolente, tocca alcune corde di autoesaltazione assolutamente incontrollabili -, affermando che Kevin MacDonald ha fatto il meglio che poteva rispetto ai suoi mezzi - decisamente più limitati quando si tratta di fiction e non di documentari, per l'appunto - trasformando un potenziale polpettone retorico filo ridleyscottiano in un più che discreto lavoro di formazione come avrebbero voluto gli anni ottanta, in grado di allontanarsi dalle più becere situazioni da film di grande distribuzione - almeno in parte - strizzando l'occhio addirittura ad opere assolutamente anticommerciali come Valhalla rising, assolutamente lontano dalla materia qui trattata eppure in qualche modo richiamato dallo spirito desolato e desolante delle Highlands pronte ad inghiottire chiunque le sfidi, quasi fossero espressione di una Natura ben più grande e pericolosa dei giochi degli uomini e delle loro piccole, piccole regole d'onore.
Unica vera pecca, ben più grave rispetto allo spirito decisamente più leggero se confrontato al succitato Centurion, il crescendo finale, poco coraggioso rispetto alle possibilità di scelta a disposizione del regista, e decisamente legato ad un Cinema per tutti che, in fondo, per tutti non è, perchè delude le aspettative del pubblico occasionale come di quello di nicchia.
Molto più incisive le parti dedicate alla convalescenza di Marcus dallo zio - un sempre carismatico Donald Sutherland - e al viaggio di Esca e dello stesso Marcus attraverso i territori brumosi ed apparentemente sconfinati del profondo Nord dei tempi.
Ad ogni modo, liberatisi da quel piglio da so tutto io tipico dei cinefili, opere come questa risultano ampiamente fruibili nonchè palesemente superiori - nonostante, in questo caso, un montaggio ed uno script non impeccabili - ai comuni prodotti da grande distribuzione, ovvero il meglio che si possa chiedere per non sentirsi attanagliati dalla spiacevole sensazione di aver perso quasi due ore della propria vita e, al contempo, aver alimentato emozioni e curiosità parallele - l'interesse per la Storia, ad esempio, anche questo già citato - che sarà sempre possibile sviluppare a visione terminata.


MrFord


"And I hear the cry of an eagle
out in the heavens he will not obey
I hear the cry of an eagle
riding on wings of tomorrow
that take me away."

Gammaray - "Eagle" -
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