Nuova settimana di visioni ed una leggera ripresa in termini di interesse e tempo dedicato al grande e piccolo schermo da parte dei Ford, nonostante gli impegni lavorativi, di gioco - Red Dead Redemption II imperversa - e via discorrendo: è partita la cavalcata con Making a murderer - della quale penso parlerò settimana prossima a prima stagione conclusa - e sono passati dal Saloon due titoli interessanti pur se non riusciti come speravo.
Considerati gli ultimi mesi, dunque, segnali positivi.
MrFord
APOSTOLO (Gareth Evans, UK/USA, 2018, 130')
Da queste parti, Gareth Evans avrà sempre un debito di riconoscenza per i due straordinari The Raid, girati in Oriente con lo spirito delle grandi pellicole action di botte ed una profondità dei bei tempi del primo John Woo: Apostolo, dunque, arrivava su questi schermi con tutte le premesse migliori del caso. Peccato che, dopo una partenza ottima ed atmosfere che parevano mescolare The Village ai film anni settanta, la carne al fuoco risulti troppa ed alcuni passaggi forzati.
Dan Stevens, inoltre, dopo aver convinto con l'ottimo The Guest, alle spalle il terribile Legion ora appare davvero troppo sopra le righe per un charachter che avrebbe richiesto, forse, un tono più sommesso essendo, di fatto, in "missione segreta", anche se in questo caso forse non è completamente colpa sua, ma di una sceneggiatura che pare voler spingere su tutto per ritrovarsi, alla fine, con il solito thriller legato alle sette e compagnia danzante.
Peccato, poteva essere molto, molto di più.
7 SCONOSCIUTI A EL ROYALE (Drew Goddard, USA, 2018, 141')
Mescolando un'atmosfera che ricorda i tarantiniani Four Rooms e The Hateful Eight, Drew Goddard, sceneggiatore di cose grosse come Lost e regista dell'ottimo Quella casa nel bosco torna sul grande schermo con un thriller teatrale e corale che, come Apostolo qui sopra, parte alla grande e finisce per rivelarsi, nel finale, un mezzo fuoco di paglia nonostante un cast ottimo - da Jeff Bridges a John Hamm passando per un'insolitamente brava Dakota Johnson ed un Chris Hemsworth nel ruolo forse più interessante della sua carriera - ed un setting affascinante: a giocare contro il lavoro di Goddard, probabilmente, il fatto che il tutto risulti decisamente derivativo e non troppo originale così come la volontà dell'uomo dietro la macchina da presa di mettere, come il collega Gareth Evans, fin troppa carne al fuoco nel tentativo di trasformare in un cult una pellicola che dai cult pesca a piene mani.
Peccato che i cult nascano da soli, e davvero molto difficilmente a tavolino.
Resta comunque un film godibile e perfetto per le serate con la pioggia fuori ed il desiderio di mettersi sul divano con i rifornimenti necessari ed una bella coperta in attesa di scoprire come andrà a finire neanche si stesse giocando a Cluedo, ma, ed è un rammarico affermarlo, anche qui avrebbe potuto essere molto di più.
La trama (con parole mie): Yuda, giovane indonesiano cresciuto in campagna e divenuto con gli anni un maestro di Silat, arte marziale locale, intraprende lasciando la famiglia e trasferendosi senza nulla a Jakarta il percorso del Merantau, che dovrebbe traghettarlo dalla giovinezza all'età adulta.
Spinto dal sogno di aprire una scuola proprio di Silat, Yuda vaga i primi giorni per le strade della città imbattendosi in Astri e nel suo fratellino Adit, che vivono di espedienti come meglio possono.
Quando alcuni misteriosi trafficanti di esseri umani europei stringono un accordo con il padrone del club dove Astri si esibisce che prevede il traffico di alcune ragazze - Astri compresa - Yuda si mette in gioco per difendere i suoi unici amici, quasi una famiglia per le strade di quel luogo violento e sconosciuto.
La lotta contro i trafficanti ed i loro uomini sancirà la crescita che Yuda cercava e la consacrazione del suo Merantau: ma a quale prezzo?
Chi bazzica il Saloon da un pò di tempo, sa bene del debole che il sottoscritto nutre per i film di botte in generale, complice una formazione infantile a suon di Stallone, Schwarzy, Van Damme e chi più ne ha, più ne metta - mi piacerebbe che qualcuno tra voi ricordasse anche Don "The Dragon" Wilson, in quest'ambito -: tolto l'esperimento più che riuscito degli Expendables, però, gli Anni Zero non hanno fornito particolari emozioni - purtroppo - in quest'ambito, se non grazie ad autentici lampi come il secondo e il terzo capitolo di Undisputed e The Raid - Redemption, probabilmente l'action movie definitivo parlando di sequenze al limite dell'impossibile e concentrazione di tematiche note a tutti i fan di questo tipo di Cinema dai tempi di Bruce Lee in poi.
Prima che potesse lasciare a bocca aperta il pubblico in tutto il mondo, però, Gareth Evans era "solo" un ragazzone gallese trapiantato in Oriente dalla grandissima tecnica ma ancora grezzo, di quelli che devono farsi le ossa prima del definitivo salto di qualità e della consacrazione - sacrosanta -: Merantau è l'espressione proprio di questo.
Iko Uwais, che sarà protagonista anche dei lavori successivi del regista, asso del Silat - arte marziale indonesiana - e viso che ricorda quello degli sfigati e degli outsiders della mitologia dei film di botte anni ottanta, presta benissimo fisicità a Yuda, candido eroe positivo che, nei meandri di una Jakarta fotografata alla grandissima - tanto da ricordare il successivo Solo dio perdona -, finisce per trasformare l'esperienza del suo passaggio all'età adulta in uno scontro all'ultimo sangue con una banda di trafficanti di donne pronta a concentrare le sue attenzioni sulla sorella di un bambino che vive di espedienti fin dal primo incontro e, di fatto, spalla dello stesso protagonista.
Senza dubbio siamo di fronte ad un prodotto nettamente inferiore a quello che diverrà lo standard di Evans, decisamente troppo lungo, doppiato malissimo nella versione italiana - agghiacciante soprattutto la resa di Astri, per non parlare dell'adattamento - e scritto neanche fosse una sorta di soap televisiva condita di botte da orbi: eppure la classe dell'uomo dietro la macchina da presa ed il suo talento, così come l'occhio per le coreografie pressochè perfette degli scontri - bellissimo quello sul cavalcavia - sono evidenti, e insieme alla già citata fotografia da urlo e al destino di Yuda - per una volta almeno in parte differente da quello dei classici eroi positivi - contribuiscono a rendere comunque e a suo modo interessante la visione, almeno per chi, con il tempo, ha imparato ad adorare il lavoro del buon Gareth, che sfoggia un piglio assolutamente da "Far East" neanche fosse più orientale degli orientali stessi.
I radical chic di ogni taglio e colore, comunque - tradotto in termini di uso comune, Cannibal Kid e soci -, farebbero meglio ad astenersi almeno quanto i non avvezzi al genere, che potrebbero trovare quella che, di fatto, è stata la palestra di Evans un vero e proprio polpettone di dubbio gusto all'interno del quale si alternano legnate da record ed atmosfere al limite della fiction televisiva sentimental-drammatica: Merantau è stato il Merantau del regista, e proprio per questo è un prodotto destinato principalmente ai suoi fan, magari in modo da sfruttarlo come antipasto per il recente e clamoroso The Raid 2, o come un contenuto extra da bluray o dvd.
E se anche doveste annoiarvi un pò, tra un pestaggio e l'altro, fatevi forza: bastano un paio di colpi ben assestati per far tornare pericolosamente alto il livello dell'attenzione.
E dell'esaltazione che il genere garantisce.
MrFord
"I told 'em all where to stick it
I left town with a dime to my name
I said, I'm done with all of my fake friends
self-righteous pawns in a losing game."
La trama (con parole mie): Rama, sopravvissuto a stento alla missione che lo vide affrontare uno dei boss locali di Jakarta e ritrovare suo fratello, viene reclutato da un ufficiale della polizia che lo vorrebbe come infiltrato per una missione ad altissimo rischio che ha come obiettivo quello di smascherare i dirigenti delle forze dell'ordine in accordo con i boss criminali della città ed assicurare alla Giustizia - in un modo o nell'altro - gli stessi boss.
Rama, inizialmente refrattario all'idea, accetta convinto dalla promessa di una protezione per sua moglie e suo figlio garantita dalla polizia e per vendicare il fratello, nel frattempo ucciso da uno degli astri nascenti della criminalità di Jakarta.
Incarcerato sotto falso nome, il combattivo tutore dell'ordine dovrà trovare il modo di guadagnarsi la fiducia di Uco, figlio di uno dei più importanti padrini della malavita, e partire proprio da lui per cominciare a costruire la vittoria ed il completamento della missione stessa: peccato che la strada sarà lastricata di cadaveri e continui cambi di prospettiva.
Si può dire che fosse dai tempi del magnifico The Raid - Redemption, che i fan in tutto il mondo di Gareth Evans e del Cinema di botte ed action attendevano il secondo capitolo delle avventure di Rama: io stesso, dopo essere rimasto a bocca aperta di fronte al meraviglioso sfoggio di tecnica e di sprezzo del pericolo degli stuntmen nella prima pellicola, non vedevo l'ora di potermi mettere comodo e tuffarmi nell'allora solo annunciato The Raid 2.
In questi casi, la prima domanda è sempre la stessa: il regista sarà stato in grado di mantenere il livello della sua opera o la stessa sarà crollata miseramente sotto il suo stesso peso?
E subito dopo: il talento sarà all'altezza delle ambizioni?
Nel caso di questo titolo in particolare, la risposta è senza dubbio sì.
Non che il lavoro di Evans sia privo di difetti - soprattutto in fase di scrittura, considerato che le coreografie degli scontri, la fotografia, il montaggio e l'eleganza dei movimenti di macchina sono indiscutibili -, o che non si senta la mancanza della naturalezza del primo film, decisamente meno pretenzioso e più pane e salame, ma questo Berandal rappresenta, di fatto, uno di quei pugni nello stomaco in grado di trascendere un genere e renderlo oggetto di culto, mescolando la perizia di un Michael Mann al gusto per l'eccesso che le arti marziali e l'approccio orientale - benchè l'uomo dietro la macchina da presa sia un ragazzone gallese di nascita - hanno fatto loro fin dagli esordi, in Occidente e non.
Due ore e mezza di furia raccontata con un gusto estetico da fotografo d'elite, come se la pittura delle gallerie d'arte d'alto bordo incontrasse le nocche consumate a furia di pugni delle palestre di strada: la seconda impresa di Rama - un grandissimo Iko Uwais, già protagonista del capitolo precedente e dell'esordio del regista Merantau - riesce nell'impresa di ricordare ad un tempo le epopee di Bruce Lee e di tutti i suoi emuli - non solo orientali, si pensi a Van Damme - e la magia poetica di un Johnnie To, con quel gusto crepuscolare ripreso di recente anche da Refn in Solo dio perdona.
Lo script - certamente non il punto forte della pellicola - recupera a piene mani da tutta la mitologia dell'infiltrazione poliziesca, da Infernal affairs a I padroni della notte, mentre le parti dedicate alla lotta sono tra le migliori mai girate, dallo scontro a partire dal bagno del carcere con protagonista Rama all'inseguimento in macchina, senza contare il duello che precede l'epilogo - davvero degno di rivaleggiare con quello che chiuse Redemption - e soprattutto la prodigiosa sequenza con al centro la figura del sicario Prakoso, tradito dalla sua organizzazione e lasciato in balìa di un'orda di avversari decisi a fargli la pelle: il percorso che dal locale porta lo scatenato Yayan Ruhian - già interprete dell'indimenticabile Mad Dog nel film precedente - sulla strada è vera e propria poesia del Cinema di botte, una lezione indimenticabile con la quale tutti i titoli che usciranno da qui in avanti dovranno, volenti o nolenti, confrontarsi se vorranno assurgere al ruolo di cult.
Devo comunque ammettere che, personalmente e nonostante il livello di esaltazione assoluto provato nel corso di questa visione dal primo minuto alla strepitosa chiusura - non vedo già l'ora del terzo capitolo -, il mio cuore è e resta con The Raid - Redemption, un prodotto forse più grezzo eppure privo di quell'aura di autorialità a tutti i costi cercata - giustamente, considerato il talento visivo - da Evans per questo Berandal.
Senza dubbio, il buon Gareth è riuscito a rompere ogni schema e confine che divideva questo tipo di Cinema e proposte dall'Occidente tamarro e dozzinale all'Oriente esagerato e dalla profonda malinconia - si pensi a tutta la prima produzione di John Woo, o allo stesso e già citato Bruce Lee -: per un figlio della nostra cultura, già questo è sinonimo di un successo senza precedenti, reso ancora più clamoroso dalle evoluzioni che Uwais e tutti gli atleti, attori e comparse riescono a fornire per la gioa del pubblico in quest'occasione.
The Raid 2 è una nuova pietra miliare per il suo genere, e forse non solo.
Di fatto, è come se fosse iniziato un nuovo, strepitoso e senza confini geografici capitolo della Storia dell'action dalle ripercussioni enormi sulla settima arte intera: uno tsunami venuto dall'Estremo Oriente a suon di calci, pugni e colpi proibiti - con ogni tipo di arma ed oggetto - orchestrato da un direttore decisamente unico, venuto dalle brughiere di un Galles che con Jakarta pare non avere nulla a che fare.
Evidentamente, a volte, si sbaglia.
Qui non contano geografia o cultura.
Conta il Cinema.
E The Raid 2 - Berandal è senza dubbio grande Cinema.
MrFord
"Mother Nature's quite a Lady
but you're the one I need
flesh and blood need flesh and blood
and you're the one I need."
La trama (con parole mie): una squadra Swat agli ordini del sergente Jaka viene guidata da un tenente della polizia all'interno del palazzo che funge da base operativa di un pericolosissimo boss della droga, asserragliato nella fortezza urbana e protetto dai suoi uomini e dagli occupanti dello stesso edificio.
Una volta entrati e messi allo scoperto, gli uomini delle forze dell'ordine scopriranno di essere soli e allo sbaraglio, complici la corruzione del tenente e la potenza dell'organizzazione criminale: Rama, esperto di arti marziali con una moglie in procinto di partorire a casa ad attenderlo, dovrà lottare fino allo stremo per sopravvivere, tornare dalla sua famiglia e riuscire a rintracciare il fratello, divenuto uno degli uomini di fiducia del boss.
Negli ultimi tempi, in rete, è rimbalzata come un'eco impazzita la voce di entusiasmi che riguardavano un nuovo supercult dell'azione in grado di lasciare gli spettatori a bocca aperta e settare uno standard come non capitava dai tempi di Die hard o dei classici delle legnate d'autore come I tre dell'Operazione Drago.
Inutile dire che, soprattutto dopo aver letto la recensione entusiastica del buon Frank Manila, l'aspettativa in proposito in casa Ford era assolutamente alle stelle: aspettativa che non è stata per nulla tradita, e che, anzi, è risultata rispettata in un crescendo che continua ad aumentare d'intensità con il passare dei giorni dalla visione, neanche ci trovassimo di fronte ad uno di quei film d'autore in grado di colpire dritti nel profondo e tornare a galla un pezzo per volta.
Questo principalmente perchè The raid - Redemption è un film d'autore di quelli in grado di trascendere il genere che più genere non si può di appartenenza, di sfoderare scene d'azione serratissime, di violenza inaudita e clamorosamente esaltanti per il pubblico abituato ai botte movies senza dimenticare di portare avanti - tra l'altro con una sobrietà decisamente d'essai - una serie di riflessioni che toccano la famiglia, il senso di appartenenza, la ricerca di un proprio posto nel mondo, il disagio sociale di alcuni paesi governati all'interno da boss del crimine in grado di tenere in pugno le più alte sfere del governo e dei suoi organismi di controllo: una sorta di cocktail selvaggio dell'eredità di Bruce Lee mescolata a I guerrieri della notte, Distretto 13 e Nido di vespe, servito da un più che promettente Gareth Evans, che dirige e monta mantenendo altissimo il livello di adrenalina e riuscendo nell'impresa di ricordare Johnnie To nonostante il divario tecnico che separa il regista di Hong Kong dalla maggior parte dei comuni mortali.
Così, alla storia di Rama e del fratello perduto - finale perfetto, in pieno rispetto del melò che rese celebri pellicole come The killer - si mescolano la determinazione di Jaka ed il quotidiano dell'inquilino con la moglie malata, intruso in un palazzo che pare un enorme alveare popolato da tagliagole, trafficanti di droga, assassini e quanto di più selvaggio si possa pensare possa annidarsi nella giungla urbana: e al ritmo di una colonna sonora in grado di ricordarmi l'utilizzo di Battle without honor or humanity di Tomoyasu Hotei in Kill Bill l'azione assume proporzioni quasi epiche per l'intensità messa in campo da attori e stuntmen, protagonisti di alcune sequenze davvero clamorose - in particolare, ho ancora davanti agli occhi il volo di uno degli assalitori di Rama e compagni che, lanciato attraverso la tromba delle scale, si rigira e finisce di schiena contro la base del balcone al piano sottostante: pauroso solo al pensiero - e duelli incredibili - quello di Jaka opposto al pazzo braccio destro del boss, che lo stesso riesce a replicare aumentando ulteriormente l'intensità nella lotta che lo vede opposto a Rama e al fratello -.
Come se tutto questo non bastasse - e, vi assicuro, basta eccome, divenendo un circo all'interno del quale i protagonisti lottano per la propria sopravvivenza in grado di conquistare i veterani dell'action così come il pubblico non avvezzo al genere ma ugualmente trascinato dall'energia dirompente della pellicola -, il confronto tra i due fratelli, anime delle fazioni opposte, è uno tra i più interessanti giunto sul grande schermo nel passato recente, raccontato con grande profondità ed ugualmente mai eccessivo trasporto o retorica di grana grossa: quel botta e risposta sul cambio d'abito rifiutato perchè la divisa "calza a pennello" visto da entrambi i lati del confine dato da un cancello che si apre e si chiude sull'inferno del palazzo obiettivo della missione della squadra swat è già di diritto un piccolo cult, reso ancora più potente dal rinnovato legame dei futuri padre e zio e divenuto, di fatto, il simbolo di qualcosa in grado di andare ben oltre la lotta,il sangue, le morti, il concetto stesso di polizia e crimine.
Il legame tra due individui in grado di proteggere le persone che stanno loro accanto, anche se solo ed esclusivamente nel proprio mondo: ad ognuno il suo vestito, il suo destino, la sua via verso la conquista o la libertà.
Ad ognuno il suo, senza alcun bisogno di spiegare.
Il bello di essere fratelli.
Sempre, nonostante tutto.
Fino alla fine.
MrFord
"We the people fight for our existence
we don't claim to be perfect but we're free
we dream our dreams alone with no resistance
fading like the stars we wish to be
you know I didn't mean what I just said
but my God woke up on the wrong side of his bed
and it just don't matter now."
Oasis - "Little by little" -