venerdì 2 marzo 2012

Dietro la maschera

Regia: Peter Bogdanovich
Origine: Usa
Anno: 1985
Durata: 120'



La trama (con parole mie): Rocky Dennis è un adolescente affetto da una rarissima malattia che lo ha portato, fin dalla tenera età, a fronteggiare terribili mal di testa legati alla deformazione delle ossa del suo cranio. Nonostante il suo aspetto e le difficoltà di salute, però, il ragazzo è curioso ed intelligente, spesso e volentieri pronto a responsabilizzare una madre non sempre stabile emotivamente ed impegnato a coltivare il sogno di un lungo viaggio in moto attraverso l'Europa con il suo migliore amico una volta conseguito il diploma.
La vita nella provincia americana, la voglia di cavalcare la libertà, il primo amore per una ragazza e la passione per le figurine del baseball sono fotografate con affetto quasi si facesse parte dell'inconsueta famiglia di Rocky, fatta di motociclisti, tanto cuore ed una certa irriverente schiettezza.




Peter Bogdanovich è uno di quei registi che possono essere considerati fordiani ad honorem: legato a doppio filo alla vita di provincia e agli outsiders, con un gusto pronunciato per una certa malinconia di fondo, abituato a girare quasi scavando nei suoi personaggi, più che preoccuparsi delle esibizioni di stile, è entrato prepotentemente nel cuore del sottoscritto anni fa, alla mia prima visione dello splendido L'ultimo spettacolo, ritratto perfetto di tutte queste cose insieme, e da allora non l'ha più lasciato.
Non conoscevo ancora, però, questo suo Dietro la maschera, biopic anomalo - è, infatti, più ispirato che non effettivamente legato alla cronaca della vita di Rocky Dennis - girato con mano esperta e giocato sui rapporti tra i protagonisti nel pieno della tradizione di un certo tipo di Cinema made in Usa sviluppatosi nel corso degli anni settanta, da Cinque pezzi facili ad Alice non abita più qui, che questa pellicola di Bogdanovich mi ha molto ricordato.
Infatti, più che rimandare ad Elephant man - uno dei vertici creativi di David Lynch, decisamente più visionario e potente - questo più che onesto film richiama le atmosfere dell'appena citato lavoro di Scorsese, e la condizione del giovane Rocky, più che lo specchio di un'epoca e di un isolamento - come fu per il John Merrick del creatore di Twin Peaks -, pare essere il simbolo di un percorso di crescita, quello stesso che coinvolge praticamente ognuno di noi nel corso dell'adolescenza e forma il nostro carattere in attesa dell'inizio della vita da adulti.
La scelta di regista e sceneggiatrice, infatti, non è quella di incentrare lo script sui problemi di integrazione di Rocky - affrontati soltanto in alcuni passaggi isolati della pellicola -, quanto sul suo rapporto con la crescita - la storia d'amore con la giovane non vedente Diana, il progressivo successo a scuola - e la famiglia - dalla grintosa e non sempre equilibrata madre, ai nonni, fino a Gar, figura paterna di riferimento per il ragazzo: proprio attorno alla seconda si sviluppano le scene più interessanti della pellicola, dalla toccante cerimonia del diploma di Rocky al legame con l'appena citato Gar - un ottimo Sam Elliott - fino agli incontri e scontri con la madre - un'altrettanto convincente Cher -.
Sempre rimanendo nell'ambito dell'azzeccato cast, sarebbe assurdo non citare anche l'allora quasi sconosciuto Eric Stoltz, celato sotto il pesante trucco di Rocky e futuro attore, sceneggiatore e regista - da Killing Zoe a Pulp fiction, passando per la regia di episodi di Grey's anatomy e Glee -, che seppur non attestandosi ai livelli di John Hurt - e torniamo ad Elephant man - si difende bene risultando credibile ed espressivo sfruttando quasi esclusivamente la mimica del corpo e lo sguardo.
Siamo dunque di fronte ad una pellicola che, seppur lontana dall'essere un Capolavoro, appare solida e sincera come il suo regista, e sfruttando adeguatamente una buona abilità a livello narrativo, il cast e la giusta dose di sentimento è senza dubbio in grado di avvicinarsi a diversi tipi di pubblico, raccontando di fatto i drammi della crescita e della formazione attraverso quello della malattia senza che il suo fardello diventi invasivo, pesante o - e questa sarebbe stata la cosa peggiore - retorico.


MrFord


"I'm starting with the man in the mirror
I'm asking him to change his ways
and no message could have been any clearer
if you wanna make the world a better place
take a look at yourself,
and then make a change."
Michael Jackson - "Man in the mirror" -


10 commenti:

  1. Questo l'ho visto, un paio di volte a distanza di anni. Mi era piaciuto ma mi aveva anche intristito.

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    1. Spicy, a volte è così, con i film che ci piacciono.
      Dobbiamo versare la lacrima. ;)

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  2. L'ho visto tanti anni fa ed ho sempre pensato che se ne sia parlato troppo poco perchè, se pure non sia un capolavoro, su questo non ci piove, racconta una storia piuttosto triste con molto garbo e delicatezza e, soprattutto, senza l'enfasi che spesso viene dedicata ai film sulla malattia e la disabilità.

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    1. Gae, concordo in pieno.
      Non è facile toccare certi temi senza uscire troppo dal seminato.
      Bogdanovich ci riesce benissimo.

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  3. James, tu non lo sai, ma questo è uno dei film al quale lego più la mia infanzia (avevo 8 anni quando lo vidi). Non sai quante volte mi è tornato in mente, la cosa incredibile è che malgrado siano passati 25 anni mi ricordo ancora moltissime scene, su tutte lui che insegna i colori a lei e il drammatico finale. Non so se fosse un bel film, sembra di sì leggendoti, ma è un pezzo della mia vita.

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    1. Dae, quando un film è parte della nostra vita per questioni che vanno oltre la sua componente strettamente cinematografica, va rispettato sempre e comunque.
      Se poi, come in questo caso, il film è anche buono, tanto meglio. ;)

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  4. vabbè, rubiamo i film dalla parte più mitica - quella cannibale - delle blog wars! :)

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    1. Cannibale, già è tanto che abbia aspettato mesi a pubblicarlo! ;)

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  5. Bogdanovich è molto amato anche dalle mie parti, lui e i suoi polverosi outsider di provincia.
    Questo è un film equilibratissimo e solido. E non era facile con un tema del genere. La commozione viene spontanea, non è mai ricattatoria.

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    1. Bogdanovich è un fordiano ad honorem, sempre amato anche qui.
      Concordo in pieno, comunque.
      Anche se per me il suo meglio resta L'ultimo spettacolo.

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