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sabato 4 febbraio 2017

Sing Street (John Carney, Irlanda/UK/USA, 2016, 106')




Penso non esista un popolo che ami più degli irlandesi.
Se già gli abitanti dell'Isola di smeraldo mi erano simpatici grazie ad anni di piccoli e grandi cult - The Commitments, tanto per citarne uno -, dopo aver viaggiato per quelle strade con il mio amico Emiliano un posto nel mio cuore per tutti loro ci sarà per sempre: non riesco ad immaginare, infatti, un luogo tra quelli in cui ho viaggiato fino ad ora, in cui mi sono sentito meno "straniero" che in Irlanda, dalle sbronze e situazioni più assurde legate alle stesse - le scene che si vivono per locali nel weekend sono leggendarie, oltre che molto cinematografiche - alla cordialità genuina praticamente di chiunque, in barba alla cultura del sospetto che ha segnato questo Nuovo Millennio.
Anche John Carney un posto d'onore al Saloon l'avrà sempre, non fosse altro che per quel gioiellino di Once, ed ora anche e soprattutto per Sing Street, che non solo è riuscito a riportarmi indietro nel tempo - nonostante dichiaratamente "futurista" - a quando ero anch'io un ragazzino pieno di sogni in cerca della sua strada ed al già citato The Commitments, non solo mi ha fatto pensare che Emiliano avrebbe adorato alla follia questo film, non solo tocca un tema - quello della fratellanza - a me molto caro, e si chiude con una dedica splendida e commovente - "To brothers everywhere" -, ma riesce con freschezza ed energia a raccontare un'epoca non facile per gli irlandesi e per ogni essere umano: l'adolescenza.
La vicenda di Conor, pronto a mettere su una band non fosse altro che per conquistare una misteriosa ragazza - del resto, come era solito ammettere anche il Professor Keating de L'attimo fuggente, la poesia serve "per rimorchiare le donne" - grazie all'aiuto di un gruppetto che pare uscito dritto dritto da I Goonies ed alla presenza del fratello maggiore Brendan, appassionato di musica ormai troppo grande - ma quando, in fondo, lo si è davvero? - per cavalcare l'onda dell'emotività come quella sua piccola ancora di salvezza domestica, è una delle più sincere e travolgenti narrate sul grande schermo di recente, tanto da avermi fatto pentire di essermi perso questo gioiellino in tempi utili per la composizione delle classifiche dei Ford Awards 2016, perchè avrebbe avuto un ruolo senza dubbio di tutto rispetto nella Top 40 dedicata ai film usciti nel corso dell'anno appena trascorso.
Sing Street è un viaggio attraverso un decennio mitico, un flipper di grandi classici - dai Duran Duran di Rio ai Cure, passando attraverso gli A-Ah - e brani composti per l'occasione pronti a conquistare perfino una come Julez, che di norma vive musicalmente agli antipodi di un rocker esterofilo come il sottoscritto, ma soprattutto è una riflessione coinvolgente e magica sulle fragilità della nostra emotività nel percorso di crescita, dall'emancipazione dai genitori al desiderio di mostrarci per quello che siamo, che proviamo, quasi salire sul palco possa essere una metafora del gridare quello che abbiamo dentro, che esistiamo, per quanto ai margini o strambi si possa essere agli occhi degli altri - splendida la "rivolta musicale" contro il rigido prelato direttore della scuola durante il concerto -.
Potrei continuare parlando di brani, leggerezza, divertimento e commozione, scrittura e coinvolgimento, ma penso che il modo migliore per godere di un film come Sing Street sia viverlo dal primo all'ultimo minuto, come un concerto che dall'apertura al bis ci tocca il cuore, fa saltare, venire voglia di sbronzarci e baciare quella ragazza che pare la più bella che abbia mai calpestato questa Terra che salta con lo stesso entusiasmo a qualche metro da noi, e prendersi per mano e partire per un posto in cui non si è mai stati appena usciti, decidendo all'ultimo secondo.
Sing Street fa venire voglia di vivere.
E questa è una magia così grande che forse non potrebbe essere contenuta neppure dalla magica Isola di smeraldo.



MrFord



martedì 22 marzo 2016

Brooklyn

Regia: John Crowley
Origine: Irlanda, UK, Canada
Anno: 2015
Durata:
111'







La trama (con parole mie): siamo all'inizio degli anni cinquanta quando la giovane Eilis, senza prospettive nella natia Irlanda, coglie l'opportunità tramite amicizie della sorella maggiore Rose di emigrare negli Stati Uniti, a New York, stabilendosi presso una donna che affitta camere a ragazze giunte in cerca di fortuna nella Grande Mela a Brooklyn, mantenendo come contatto un prete di origini irlandesi.
I primi tempi sono difficili, resi ancora più amari dalle difficoltà di adattamento e dalla nostalgia di casa, ma quando il lavoro comincia ad ingranare, un corso da contabile le porta i primi riscontri anche in termini di riconoscimenti ed un ragazzo di origini italiane, Tony, la corteggia, le cose cambiano ed Eilis finisce per sentirsi felice come mai le era capitato prima.
Quando, però, un avvenimento terribile la costringe a tornare in Irlanda per qualche tempo, la ragazza scopre di avere la possibilità di sfruttare tutte le occasioni mai avute prima della sua partenza: basteranno, a questo punto, il legame con Tony e la promessa fattagli prima di separarsi da lui per farla tornare negli USA?












Da spettatore ormai navigato, è curioso quanto, a volte, sia allo stesso tempo confortante e poco stimolante imbattersi in visioni come quella di Brooklyn.
La pellicola firmata da John Crowley, di recente candidata - tra le altre cose - all'Oscar per il miglior film, è a tutti gli effetti la tipica proposta hollywoodiana - anche se, per una volta, la produzione non è a stelle e strisce - buona per questo periodo dell'anno, patinata il giusto, emozionante quanto basta, perfetta come una sorta di favola da grande schermo pronta a fare contenti tutti senza, di fatto, far gridare nessuno al miracolo.
Eppure, nonostante i limiti che di norma soprattutto i radical più hardcore ed i cinefili in generale finiscono per detestare, occorre ammettere che la visione risulti molto piacevole, in equilibrio perfetto tra il troppo da mainstream selvaggio ed una scintilla autoriale da Sundance europeo: la vicenda della Eilis di Saoirse Ronan - che, a livello attoriale così come fisicamente, continua a convincermi poco -, pronta a mostrare le difficoltà dell'emigrante pronte ad amplificarsi una volta che lo stesso torna a calpestare la terra natìa, colpisce in maniera diretta e genuina, senza particolari picchi in termini di potenza o resa ma neppure senza alcuna caduta, una storia semplice e "straight" di quelle che fanno bene al cuore ed accompagnano una visione anche discretamente realistica, per quanto legata a qualche concessione - l'epilogo con il ribaltamento del ruolo di Eilis sulla nave rispetto al suo primo viaggio - che appare quasi doverosa in casi come questo.
Il grande merito di Brooklyn - oltre al fatto di aver comunque guadagnato l'attenzione di Julez, partita con i peggiori propositi - è stato quello di rievocare alla memoria del sottoscritto le atmosfere di serie animate dal sapore d'infanzia come Candy Candy - anche se, in questo caso, non troviamo antagonisti crudeli e morti a raffica - e rappresentare in qualche modo un omaggio ad un Cinema d'altri tempi, rievocato in parte anche dallo stesso script nel momento in cui viene citato uno dei titoli più importanti realizzati dal Maestro John Ford, Un uomo tranquillo, tra le pellicole più stupefacenti legate alla semplicità ed ai "vecchi valori di una volta", uscita in sala proprio negli anni in cui sono ambientate le vicende di Eilis.
Certo, nulla che faccia gridare al miracolo, ma tutto sommato una pellicola pulita che fa tornare alla mente quando eravamo bambini ed andavamo dalla nonna timorosi di pomeriggi di noia salvo poi scoprire che, nei racconti o nelle sorprese, la vecchia signora in questione sapeva comunque quali tasti premere per ribaltare in positivo tutte le attese: in un certo senso, Brooklyn ha il sapore delle caramelle che passata una certa età paiono non avere più lo stesso gusto, o di un camino acceso nel pieno dell'inverno, sdraiati sul divano con un whisky e qualcuno accanto, o una spiaggia d'estate, carichi dell'energia che ancora non si è tramutata in nostalgia da fine delle vacanze.
Interessante, inoltre, l'analisi della doppia natura di un posto piccolo e della mentalità da paese - l'Irlanda, in questo caso - e quello del grande mondo della città - New York e gli States -, filtrati attraverso la storia di Eilis sia in positivo che in negativo: in fondo, a prescindere dal luogo in cui si decide di vivere la propria vita, ci troveremo sempre e comunque ad affrontare difficoltà, momenti più o meno bui, sconfitte e vittorie, pianti e sorrisi di speranza.
In un certo senso, vale lo stesso discorso per il Cinema: un titolo come Brooklyn, che mostra tratti da tipica favola di grana grossa per il pubblico mainstream, porta in dono anche la genuina voglia di raccontare una storia senza troppi fronzoli tipica dei titoli di nicchia ma non d'autore a tutti i costi.
A questo punto, saremo liberi di scegliere se vivere questo viaggio male, come una traversata in nave sotto coperta con la burrasca pronta a farci vomitare anche l'anima, o se evitare di appesantirci troppo, salire sul ponte e goderci il vento e la prospettiva di qualcosa che tanto male, in fondo, non farà.






MrFord






"Place where I rest is on my born day
bust it, sometimes I sit back and just reflect
watch the world go by and my thought connect
I think about the time past and the time to come."
Mos Def - "Brooklyn" -





mercoledì 15 luglio 2015

'71

Regia: Yann Demange
Origine: UK
Anno: 2014
Durata: 99'





La trama (con parole mie): Gary Hook, un giovane soldato britannico che con la sua unità è inviato a Belfast a causa dell'incremento degli scontri e della violenza nel pieno del settantuno, è accidentalmente abbandonato dai compagni nel corso dei tumulti seguiti ad una rivolta popolare per le strade della capitale nordirlandese, solo e alla mercè dei locali, che non aspettano altro che catturarlo per ucciderlo.
Lottando con le unghie e con i denti per la sopravvivenza, sfruttando l'aiuto di alcuni cittadini, i conflitti tra cattolici e protestanti e la speranza che i suoi superiori decidano di avviare una missione di recupero, Gary si trova ad esplorare il cuore nero e pulsante degli anni di sangue dell'Ulster.
Riuscirà il ragazzo a portare a casa la pelle?
E a quale prezzo?








Fin da ragazzino, sarà per il fascino dell'idea dell'Erasmus - poi mai sfruttata - o della musica, ho sempre adorato l'Irlanda. Prima ancora del viaggio nel duemilasei con Emiliano, del whisky e delle ragazze che conobbi in quel settembre clamorosamente clemente in termini di condizioni atmosferiche, di un'isola splendida abitata da gente splendida.
Eppure, per quanto strano anche a me possa sembrare, le strade dell'Irlanda ora così guascone e bagnate da birra e alcool di tutti i generi vissero - specialmente nel Nord - anni terribili e violenti in cui il sangue la faceva da padrone, dibattendosi tra cattolici, protestanti e soldati britannici inviati dal governo inglese a rendere la polveriera ancora più vicina all'esplosione.
'71, celebratissimo esordio dietro la macchina da presa - quantomeno per il grande schermo - del francese Yann Demange, proietta lo spettatore al centro dell'inferno che dovevano essere le strade di Belfast nei primi anni settanta, sfruttando il senso di smarrimento e di terrore del protagonista, il soldato Gary Hook, che quasi ci si trovasse al centro di un survival horror è costretto ad una notte di sofferenza e tensione altissima nella speranza di potersi ricongiungere con i propri commilitoni evitando di essere catturato ed ucciso dai giovani cattolici appartenenti alle più estreme frange delle nuove leve dell'IRA.
Sfruttando questo spunto, Demange segue non soltanto il percorso di Hook, ma riflette a proposito dei numerosi giochi di potere che, ad alti livelli - e non solo - si consumavano muovendo pedine come in partite di scacchi al pub senza preoccuparsi troppo di quale fine avrebbero incontrato i pedoni.
Senza dubbio il prodotto finito non è privo di sbavature così come di sequenze che difficilmente si dimenticheranno - dall'esecuzione sommaria del compagno di Hook al faccia a faccia finale con il giovane sicario dell'IRA, il charachter più sfaccettato ed interessante della pellicola -, si appoggia sulle spalle di un ottimo Jack O'Connell - che già aveva più che convinto in Starred Up - e tiene incollati alla poltrona dal primo all'ultimo minuto, di fatto non dando tregua neppure nei momenti di calma apparente - e torna subito davanti agli occhi l'esplosione al pub, impressionante per resa e realizzazione -, eppure ho trovato l'insieme comunque acerbo, incapace di emozionarmi e scuotermi come fece, ai tempi, Bloody Sunday.
Questo non significa, di fatto, sminuire il lavoro eccellente di Demange - peraltro fotografato alla grande -, quanto evitare di gridare al Capolavoro quando, in realtà, è giusto che il talento del regista cresca e si modifichi senza che lo stesso possa pensare di essere già arrivato al suo primo "colpo grosso": ben venga, dunque, un titolo come '71, potente e sanguigno nel bene e nel male, nella speranza che possa porre le basi per l'opera di un possibile futuro grande nome della settima arte europea - a tratti, mi è parso addirittura di vedere qualcosa dell'Audiard più sporco nelle immagini del viaggio allucinante di Hook attraverso le vie di Belfast -, così come di una vita per il giovane Gary lontana dall'orrore di una guerra fratricida che ha insanguinato per troppo tempo strappando troppe giovani vite le strade di un'isola meravigliosa che, a ben vedere, tutto il mondo ama.
E vuole vedere libera dalla lotta e dal sangue.



MrFord




"Woah, woah
she's the refugee
I see your face
I see you staring back at me."
U2 - "The refugee" -





martedì 2 aprile 2013

Grabbers

Regia: Jon Wright
Origine: Irlanda, UK
Anno: 2012
Durata: 94'




La trama (con parole mie): siamo ad Erin Island, al largo delle coste irlandesi, uno di quei luoghi dell'Isola di smeraldo equamente diviso tra pescatori e bevitori, tranquilla e priva di qualsiasi interesse per i poliziotti locali, due soltanto.
Quando uno dei suddetti decide di partire per una vacanza, una giovane agente di Dublino viene convocata per sostituirlo, trovandosi di fronte O'Shea, collega dedito all'alcool ancora scottato dal matrimonio naufragato: per lei si prospettano quindici giorni da incubo a tenere a bada il collega ubriacone e poco altro, quando l'incredibile avviene.
Dallo spazio - o da chissà dove altro - giunge una razza di strane creature assetate di sangue ed acqua che i locali scopriranno poter scacciare solo grazie all'utilizzo massiccio di alcool.
Riuscirà Lisa - questo il nome dell'agente "in visita" - a sopravvivere, debellare la minaccia ed affrontare O'Shea?





Se non fosse passato su questi schermi un paio di mesi fa La parte degli angeli, avrei senza dubbio pensato che questo film fosse stato creato per fare piacere al sottoscritto: quando, infatti, revival anni ottanta, un pò di sano horror vintage e fiumi di alcool vengono mescolati, difficilmente qui al Saloon si griderà allo scandalo portando mano alle bottiglie.
Grabbers, rimbalzato in rete e segnalato da numerosi colleghi di un certo livello - cito Frank Manila e Bradipo in quanto responsabili della curiosità suscitata nel vecchio Ford per questa piccola chicca irlandese -      è un prodotto che, con tutte le sue imperfezioni ed un'identità che si perde un pò tra il gusto per i mostri tipico del Cinema di genere sviluppatosi tra la fine degli anni settanta e la prima metà degli ottanta - Critters, Tremors, Gremlins sono esempi illuminanti di questo filone - e l'approccio da commedia tipico di Edgar Wright, riesce comunque a portare a casa un ottimo risultato sia a livello di intrattenimento che per quanto riguarda ritmo ed effetti, senza contare il fatto di aver azzeccato dei mostri giustamente kitsch ed affascinanti e l'idea strepitosa di trasformare la lotta degli abitanti di Erin Island in una sorta di crociata che mostri il lato positivo dell'essere irlandesi - e quindi tra le popolazioni con il tasso alcolico medio più alto d'Europa, e parlo per esperienza dato che quello nell'Isola di smeraldo è ancora oggi uno dei viaggi che ho più amato compiuti nella mia vita - ponendo i tentacolari alieni sotto scacco proprio grazie agli squilibri da sbronza presenti nel sangue, prelibatezza alla quale questi Grabbers paiono non poter proprio rinunciare.
Interessante anche la caratterizzazione degli stessi mostri, pensati come una sorta di colonia guidata da un maschio dominante - e decisamente ingombrante - che cerca l'accoppiamento con femmine dai fluidi in grado di calamitare l'attenzione del suddetto alfa del branco ed una marea di piccoli mostrini pronti come se niente fosse ad aggredire il primo malcapitato capitato a tiro.
Per il resto, la struttura risulta abbastanza canonica rispetto ai clichè di genere - arrivo dei mostri, prime vittime, attacchi letali che avvengono senza rivelare la fisicità degli alieni predatori, organizzazione delle forze umane, resistenza e contrattacco vincente conclusivo -, eppure quasi tutto funziona, e l'idea dell'assedio del pub risulta vincente quanto basta per consolidare un risultato invidiabile considerata quella che è la media delle produzioni orrorifiche attuali, fresco ed in grado di soddisfare le esigenze del pubblico più stagionato - che apprezzerà il citazionismo ed una forma di racconto conosciuta e ben sfruttata - così come quello più giovane, al quale parrà di assistere a qualcosa di diverso da quello che è, di fatto, il panorama attuale nell'ambito "mostri ed affini".
Grabbers si qualifica dunque come una proposta pane e salame di quelle approvate dal Saloon per le serate da weekend di grande relax, e trova la sua ideale posizione accompagnato da divano, patatine e robuste dosi di whisky o birra - o entrambi, se avete voglia di mescolarli bukowskianamente -, con un occhio ai titoli che hanno formato l'infanzia della nostra generazione ed un altro a come quella dei nostri figli potrebbe prendere questi strampalati manifesti del grottesco che non dimenticano mai il valore dell'innocenza e della meraviglia.
Un pò come il buon Cinema, che corre parallelo al whisky: invecchiando tende a migliorare.
E Grabbers è un pò come la sua "parte degli angeli", che possiamo inspirare profondamente godendocela dal primo all'ultimo istante.


MrFord


"Mush-a ring dum-a do dum-a da
whack for my daddy-o. Whack for my daddy-o
there's whiskey in the jar
I counted out his money and it made a pretty penny
I put it in me pocket and I took it home to Jenny
she sighed and she swore that she never would deceive me
but the devil take the women for they never can be easy."
The Dubliners - "Whiskey in the jar" -


giovedì 27 ottobre 2011

The guard - Un poliziotto da happy hour

Regia: John Michael McDonagh
Origine: Irlanda
Anno: 2011
Durata: 96'



La trama (con parole mie): Gerry Boyle, inusuale e scorretto poliziotto di campagna irlandese, vede la sua routine fatta di qualche acido e una scopata con escort ogni tanto turbata dall'arrivo nel suo territorio dell'agente federale Wendell Everett, giunto sull'isola di smeraldo per sgominare un gruppo di narcotrafficanti locali che si sospetta stiano pianificando uno scambio con i loro soci in affari lungo la costa.
Tra omicidi, anziane madri colpite dall'Alzheimer e difficoltà con il gaelico, i due uomini - profondamente diversi tra loro - dovranno, non senza difficoltà, unire le forze per fare fronte alla corruzione della polizia locale ed evitare di essere ammazzati come nel più classico dei film noir, cercando allo stesso tempo di fare la cosa giusta.
Più o meno.



Le strane coppie sono sempre state uno dei punti forti del poliziesco, al Cinema e non.
Dall'accoppiata vincente Danko/Ritzik ai formidabili Hap e Leonard letterari, passando per Starsky e Hutch, il duo di investigatori soli contro tutti ha spesso e volentieri regalato grandi soddisfazioni agli autori in grado di azzeccarne la formula, finendo per divenire una sorta di vera e propria garanzia a fronte di characthers in grado di conquistare il pubblico: The guard - mi rifiuterò di citare nel corso del post l'ignobile titolo italiano -, in questo senso, non è da meno.
Sull'onda dell'ottimo In Bruges, John Michael McDonagh recupera Brendan Gleeson e lo catapulta nella campagna irlandese tutta gaelico e facce segnate da alcool e lavoro, delineando un personaggio che ricorda il Walter lebowskiano con un pizzico - per usare un eufemismo - di eccentricità in più: il sergente Gerry Boyle, che fin dalla prima sequenza sfodera una perla dietro l'altra - impagabili le sue battute sull'origine etnica dei narcotrafficanti ed il palpeggiamento dei cadaveri -, ha tutte le caratteristiche per entrare nel cuore dello spettatore pane e salame nonostante la confezione - fotografia, scelta delle inquadrature, montaggio - sappiano fin nel profondo di Cinema autoriale un pò ruffiano.
Eppure, così come fu poco tempo fa con Nord, The guard si scrolla di dosso a suon di - a tratti nerissime - risate i suoi tratti potenzialmente più radical chic, ed in barba ad una sceneggiatura a volte un pò troppo facile ingrana la marcia con l'inserimento nel cocktail dell'agente speciale Everett, tutto d'un pezzo e ligio alle regole e alle procedure, agli antipodi rispetto al ruvido collega Boyle.
E così, dall'incomprensibile gaelico - "Che credevi, siamo in Irlanda, qui, non vorrai mica sentire parlare inglese!" - alla partecipazione del sergente alle olimpiadi di Seul 1988 passando per il suo viaggio in solitaria a DisneyWorld, i due protagonisti infilano una serie di gag azzeccate una dopo l'altra, giusto in tempo per scaldare i motori e finire a fronteggiare il malvagio - anche se pare più grottesco - trio di trafficanti, tra i quali spicca l'ormai cattivo per antonomasia Mark Strong, cui forse poteva essere dedicato addirittura più spazio.
Un omaggio, pur se particolare, all'Irlanda e ai suoi splendidi paesaggi, che fanno da sfondo ad una vicenda in realtà legata a doppio filo a corruzione, violenza, segreti nascosti - davvero triste la vicenda del giovane collega di Boyle e della moglie - e pallottole a volontà per un finale che ricorda i vecchi scenari western filtrati attraverso la sensibilità action figlia dei Michael Mann e dei William Friedkin.
E il dubbio che corre lungo la schiena di Everett se Boyle sia "uno stupido che fa il furbo" o "un furbo che si finge stupido" diviene un modo per descrivere al meglio uno dei migliori antieroi che siano capitati al noir cinematografico recente capitanato dall'indimenticabile pilota di Drive.
Certo, con parecchi anni, chili e litri di Guinness e Jameson in corpo in più.

MrFord

P. S. Un appunto - ed una serie incredibile di bottigliate - vanno ai responsabili dell'indecente titolo italiano. Roba da interdire l'accesso alle sale per tutta la vita agli autori di questo abominio.


"Dal Donegal alle isole Aran
e da Dublino fino al Connemara
dovunque tu stia viaggiando con zingari o re
il cielo d'Irlanda si muove con te
il cielo d'Irlanda è dentro di te."
Fiorella Mannoia - "Il cielo d'Irlanda" -
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