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martedì 15 dicembre 2015

Il viaggio di Arlo

Regia: Peter Sohn
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 93'







La trama (con parole mie): in una realtà cambiata da una deviazione del meteorite che si presume possa aver causato l'estinzione dei dinosauri, gli enormi rettili vivono ancora la Terra come avrebbero fatto in loro vece gli uomini, rimasti ad uno stato brado di quasi bestie. Arlo e la sua famiglia, che si occupano principalmente di agricoltura nella loro fattoria, vivono giorno per giorno e stagione per stagione preoccupandosi del raccolto e di avere cibo sufficiente per l'inverno.
Quando, a causa delle continue intrusioni di un cucciolo d'uomo, Arlo e suo padre finiscono al di fuori dei confini della loro terra ed il genitore del timoroso dinosauro perde la vita per salvarlo, lo stesso Arlo, schiacciato dal senso di colpa, finisce per tentare di catturare l'intruso finendo per perdersi con lui nelle terre selvagge: il loro viaggio di ritorno sarà un modo per entrambi di crescere e conoscersi, costruendo un legame che nessuno dei due dimenticherà.












Fin dai tempi dei suoi esordi con Toy Story, sono stato un acceso sostenitore dell'operato Pixar, probabilmente una delle realtà più importanti della Storia del Cinema d'animazione insieme al Ghibli di Hayao Miyazaki: poche volte, in questi vent'anni o poco più, del resto, i geniacci di questo gruppo nato da una costola di Mamma Disney hanno finito per deludermi, ed anche in quei casi si è trattato di semplici visioni, e non del consueto filmone che ci si sarebbe potuti aspettare.
Devo ammettere, però, che all'uscita de Il viaggio di Arlo, complici le vicissitudini produttive, l'uscita a pochissimi mesi di distanza dal magnifico Inside Out, il fatto che le prime recensioni fossero tutt'altro che positive, le mie speranze di incrociare il cammino con un titolo che mi sarei comunque portato dentro erano davvero ridotte al lumicino: fortunatamente per tutti gli occupanti di casa Ford, con questo lavoro Peter Sohn non solo ha ribaltato i pronostici della vigilia, ma ha compiuto due piccoli miracoli.
Uno è stato, di fatto, costruire la prima pellicola che il Fordino abbia visto quasi per intero rapito dalle immagini - del resto, adora i dinosauri quasi quanto gli animali - superando i problemi di tenuta che hanno tutti i bambini molto piccoli ed innescando reazioni da spettatore "grande" - la richiesta di spiegazioni rispetto al momento in cui Arlo e Spot si confrontano a proposito del destino delle loro famiglie è stata esemplare, in questo senso -, e l'altro quello di riuscire - anche se non con la stessa intensità - a commuovere il sottoscritto proprio come aveva fatto il già citato Inside Out.
Certo, io sto invecchiando e la paternità ha di fatto aperto una breccia rispetto a tutti i film legati a tematiche come il rapporto tra padri e figli, la formazione e la crescita, il concetto di famiglia e via discorrendo, eppure ho trovato, per quanto assolutamente derivativo - l'ombra de Il re leone è grossa come una casa - Il viaggio di Arlo uno splendido "road movie" in salsa Western - dunque, altra porta aperta sfondata da queste parti, dai brontosauri coltivatori ai tirannosauri mandriani, è una chicca dietro l'altra - legato a doppio filo ai concetti di superamento del dolore, amicizia, senso di responsabilità e legame con le proprie radici degno delle grandi epopee non solo americane, un titolo che, cambiando l'ordine degli addendi, avrebbe tranquillamente potuto parlare ad altre epoche e generazioni, considerata l'universalità dei temi che tratta ed il grande cuore che mette nel farlo.
Come se non bastassero, poi, emotività e passione, Il viaggio di Arlo sfoggia un comparto tecnico notevole soprattutto rispetto alla cornice naturale, splendida nel rappresentare la bellezza mozzafiato tanto quanto la crudeltà "super partes" della Terra, dalle tempeste alle frane, passando per la gioia di un frutto pronto a sfamare ed un altro in grado di confondere le acque neanche fosse la più colossale delle sbronze.
Ma il vero motore, ovviamente, de Il viaggio di Arlo, è l'amicizia costruita passo dopo passo, difficoltà dopo difficoltà, tra lo stesso Arlo e Spot, cucciolo d'uomo che ricorda il Mowgli de Il libro della giungla e il Due Calzini di Balla coi lupi, divertente e commovente ad un tempo, pronto a conquistare il cuore di ogni spettatore o quasi, padre oppure no che sia: l'evoluzione del loro rapporto, che sarà pur simile a tanti altri ma non per questo appare banale, scontata o eccessivamente furba, è una delle cose più semplicemente belle di questo finale di stagione, e quell'abbraccio prima dell'addio è un tuffo al cuore di quelli che non si dimenticano, proprio perchè appartenente alla vita di ognuno di noi, che è stato da una parte e dall'altra di quel momento, che si è sentito perso e si è ritrovato, che ha potuto contare su un amico e l'ha dovuto lasciare, che ha compreso cosa significhi amare e dover trovare la propria strada da solo.
E soprattutto, quell'abbraccio appartiene a chiunque di noi si sia fatto il culo abbastanza per lasciare la propria impronta.
Un'impronta che potrà non significare nulla per chi vive oltre, ma che per noi e chi amiamo ha più valore di qualsiasi altra cosa.





MrFord





"It's so easy now, cos you got friends you can trust,
friends will be friends,
when you're in need of love they give you care and attention,
friends will be friends,
when you're through with life and all hope is lost,
hold out your hand cos friends will be friends right till the end."
The Queen - "Friends will be friends" - 






venerdì 4 settembre 2015

Corvo rosso non avrai il mio scalpo!

Regia: Sidney Pollack
Origine: USA
Anno: 1972
Durata: 108'





La trama (con parole mie): Jeremiah Johnson, un ex soldato stanco della vita nel mondo civilizzato, abbandona tutto e tutti per divenire un cacciatore tra i monti del Colorado. Passati mesi in completa solitudine e conosciuto ogni aspetto della Natura e dei suoi molteplici aspetti, da quelli belli da togliere il fiato a quelli crudeli da perderci la vita, l'uomo verrà in contatto con il vecchio Artiglio d'orso, che lo metterà in guardia dalle possibili minacce e lo addestrerà come solo decenni passati lontano dal mondo civile permettono di essere addestrati.
Ripreso il suo cammino, Johnson entrerà in contatto con le diverse realtà degli abitanti delle più remote zone della Frontiera, dai Nativi americani con le loro differenti usanze e tribù ai cercatori d'oro e fortuna, fino a quando l'equilibrio raggiunto verrà turbato dal passaggio di un distaccamento dell'esercito: il dramma che ne seguirà porterà di nuovo Jeremiah a viaggiare solo tra i monti, divenuto una leggenda rispettata perfino dal più temibile dei guerrieri Crow.








Di tanto in tanto, quando mi capita di tornare lungo la Frontiera del West, provo una sensazione di calore come quando, al termine di un viaggio, si apre una volta ancora la porta di casa: il sapore ed il brivido che i western continuano a regalarmi sono gli stessi che provavo da bambino, quando con mio nonno scoprivo la mitologia di John Wayne e dei Nativi americani, da Ombre rosse a L'uomo che uccise Liberty Valance, e che ha contribuito non solo a formarmi come spettatore, ma come persona.
Era proprio risalente a quei tempi la mia ultima visione di uno dei più grandi cult degli anni settanta che il genere abbia regalato al suo pubblico, appartenente forse più alla generazione dei miei genitori che non a quella, per l'appunto, di mio nonno, e già intrisa del fascino che la smitizzazione successiva del West delle leggende avrebbe vissuto fino ai più recenti Dead Man e Gli spietati: Corvo rosso non avrai il mio scalpo!, divenuto nonostante un adattamento pessimo del titolo giustamente uno dei riferimenti cinematografici della carriera di Robert Redford e di Sidney Pollack, ispirando, tra gli altri, Berardi e Milazzo nella creazione di Ken Parker, uno degli eroi a fumetti favoriti dal sottoscritto di tutti i tempi, ha mantenuto negli anni lo stesso fascino che aveva allora.
Sceneggiato, tra gli altri, dal John Milius che divenne in seguito noto per Conan il barbaro e Un mercoledì da leoni - storico sostenitore dell'epica di grande respiro e rappresentate dello zoccolo duro dei registi "repubblicani" formatisi proprio negli anni settanta, come Friedkin e Eastwood - Corvo rosso è un racconto di formazione lontano dagli standard del tipico western, una vicenda dai ritmi dilatati - in questo, ricorda molto il già citato Dead man, solo in versione meno lisergica - che si concentra sulla maturazione del suo protagonista, Jeremiah Johnson, esploratore e cacciatore pronto a prendere le distanze dalla società "civile" solo per vedersi almeno in parte seguire dalla stessa nel cuore dei monti del Colorado, tra i territori che furono teatro di alcuni dei massacri dei Nativi americani e delle rappresaglie organizzate dagli stessi contro i bianchi: in questo senso è interessante notare l'atteggiamento di Johnson rispetto a chiunque incroci il suo cammino in quelle terre selvagge e meravigliose, decisamente differente rispetto a quello degli eroi - o antieroi - del Western classico e da quanto ci si aspetterebbe di scoprire considerato il già segnalato e poco azzeccato titolo italiano, che lascia quasi presagire il tipico filmone da battaglia tra soldati e Nativi pronti ad ammazzarsi gli uni con gli altri senza requie.
L'avventuriero, infatti, assume un comportamento il più possibile razionale e rispettoso, in modo da mantenere un equilibrio e rapporti di pace con gli altri cacciatori, i Nativi e chiunque attraversi le montagne, finendo per apparire più umano e vicino all'audience di quanto non possano sembrare, al contrario, main charachters tutti d'un pezzo più legati alla fiction che non a quella che poteva essere la realtà di quei tempi e luoghi: questo atteggiamento equilibrato ma ugualmente risoluto non limita, comunque, le capacità e la resa come uomo d'azione di Johnson, pronto all'occorrenza a far valere la sua presenza, il carattere ed i sentimenti.
Un protagonista, dunque, in grado di regalare uno spessore notevole ad un film che fa dell'atmosfera e del respiro da grande epopea i suoi punti di forza, cui si affiancano comprimari che con una manciata di sequenze riescono ad entrare nel cuore dell'audience, dal piccolo e silenzioso Caleb ad Artiglio d'orso, culminati con la narrazione del periodo più felice di Jeremiah - che corrisponde alla scelta di divenire "stanziale" e circondarsi, pur se quasi per caso, di una famiglia - ed un finale potente ed emozionante, che trova nel confronto a distanza di Johnson, tornato a vagabondare come all'inizio della sua avventura, e l'altrettanto rispettato in quei luoghi guerriero Crow dal volto dipinto di rosso.
Un momento lirico e maestoso come le montagne che lo circondano, pronto a rendere leggendario un personaggio che, al contrario, pare assolutamente vero e reale.
Un Uomo alla scoperta della Frontiera e di se stesso.




MrFord




"The way you wonder is the way that you choose
the day that you tary, is tha day that you lose
sunshine or thunder, a man will always wonder
where the fair wind blows
Jeremiah Johnson made is way to the mountains,
he was bettin' on forgettin' all the troubles that he knew."
Beau Jennings - "The ballad of Jeremiah Johnson" -






sabato 13 agosto 2011

Mediterraneo

Regia: Gabriele Salvatores
Origine: Italia
Anno: 1991
Durata: 99'


La trama (con parole mie): 1941. Nel pieno della Seconda Guerra Mondiale un plotone di richiamati scombinato come solo un plotone di richiamati italiani nel pieno della Seconda Guerra Mondiale poteva essere è inviato a Kastelorizo, la più distante delle isole del Dodecanneso, praticamente un satellite della Turchia, per una missione di scarsissima importanza strategica.
Persi i contatti con la nave che li aveva condotti sul posto, i soldati dapprima affrontano la realtà di un'isola apparentemente deserta, dunque si integrano perfettamente con gli abitanti del luogo, dimenticandosi della guerra e del mondo, in un momento delle loro vite in cui ci si rende conto di essere ad un bivio che influenzerà il futuro di ognuno.


Ricordo ancora quando, in un servizio dedicato alla Notte degli Oscar, il buon vecchio Sly ed il suo labbro distorto dichiararono vincitore del premio come miglior film straniero questo lavoro di Salvatores: non avevo ancora visto Mediterraneo, ma quella strana sensazione di appartenenza che, in genere, si risveglia in noi in concomitanza con i Mondiali di calcio si fece sentire forte e chiara.
In questo senso, questa piccola, onesta opera è davvero molto italiana: assolutamente imperfetta e clamorosamente guascona, sgangherata eppure accattivante, divertente ma velata da una malinconia che all'interno dello stesso film il sergente LoRusso definirà "l'atmosfera che da piccoli c'era alla fine delle vacanze".
Proprio il personaggio interpretato da Diego Abatantuono è l'emblema della pellicola, protagonista di alcune delle sequenze più interessanti e perfettamente rappresentato dall'aria sempre caciarona e sopra le righe che nasconde, in realtà, tutti i dubbi e la solitudine di chi "ha quell'età in cui non ha ancora deciso se mettere su famiglia o perdersi per il mondo", come recita il Tenente Montini ad inizio pellicola: in realtà, furono proprio quelle sequenze - lo sbarco, la parola d'ordine, le partite di calcio, il primo incontro con Vassilissa - che, con le prime visioni, rimasero impresse nella memoria del Ford ancora non in fase adolescente tormentato, e che tornano a colpirmi oggi pur se stuzzicate da quella vena di malinconia legata al fatto che, ora, mi ritrovo io stesso ad essere in quell'età, e davanti ad un'esperienza come quella di LoRusso, Colasanti, Montini, Strazzabosco, i fratelli Munaron, Noventa e Farina non saprei davvero come comportarmi: andrei alla ricerca di me stesso e delle mie radici, o scoprirei che esiste un luogo in cui davvero tutto può accarere, e ricomincerei da capo, vivrei e basta quell'isolamento fatto di attese e riflessioni, scalpiterei per fuggire e tornare da chi mi aspetta, o sarei animato dal desiderio di tornare e costruire qualcosa di grande ed importante?
Quello che per anni è stato solo e soltanto un film d'intrattenimento nel pieno della tradizione della commedia all'italiana ora assume le dimensioni di una - certamente leggera - riflessione sulla vita, nonchè una delle ragioni della mia passione per le isole greche, che nel corso dell'ultimo decennio ho girato più che ho potuto - anche se a Kastelorizo ancora non sono stato -.
Le citazioni si sprecherebbero, così come le risate confortanti di uno dei miei piccoli, grandi cult estivi, ma mi piace pensare di prenderla con calma, quest'oggi, per lasciar depositare il fondo di un caffè che altrimenti sarebbe quasi sabbia, ascoltare il mare e sognare i tramonti e le notti, sorridere al pensiero di qualcuno prima di me, di fronte alle stesse onde, secoli e secoli fa, e al futuro, quello che potrò e mi lasceranno fare, e quello che, se dovessi stancarmi, mi porterà di nuovo indietro, a questo sciabordio che è una pace unica in una vita intera.

MrFord

"Natureza, deusa do viver
a beleza pura do nascer
uma flor brilhando a luz do sol
pescador entre o mar e o anzol."
Maria Gadu - "Shimbalaie" -

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