lunedì 28 giugno 2010

Capitalism: a love story

Ammetto di essermi legato al dito la vittoria di Michael Moore al Festival di Cannes, nell'anno in cui la Palma sarebbe dovuta andare di diritto a Mystic river, con Fahrenheit 9/11 - peraltro il suo peggior film -, e di aver spesso criticato il Grillo made in Usa per il suo eccessivo didascalismo nonchè la sua voglia, a tratti, di sensazionalizzare il dolore della gente per piegarlo ai suoi scopi cinematografici.
Una specie di versione di qualità di Studio aperto.
Eppure gli anni mi hanno addolcito, e credo di aver finalmente realizzato quale sia stato, da Bowling a Columbine - il suo miglior film, così pareggio i conti - in poi, il suo grande merito rispetto al pubblico e alla settima arte: Michael Moore è riuscito a portare il documentario alla grande audience, mescolando gli elementi classici del documentario stesso ad una tensione da fiction e ad una presenza scenica che ricorda i format tv.
Tutti quelli che, fino a qualche anno fa, avrebbero recitato come un mantra "machepalleandareavedereundocumentarioalcinema", ora sono diventati grandi sostenitori del genere, e in alcuni casi, date le tematiche trattate da Moore, girano nei negozi spacciandosi per grandi intenditori nonchè veri alternativi.
Non tutte le ciambelle riescono col buco, del resto.
Ma occorre dare al buon Michael quel che è del buon Michael, che ha avuto la stessa importanza di Peter Jackson per il grande cinema d'avventura per il documentario, in questo inizio millennio.
Con Capitalism, così come fu con Sicko, il regista di Flint si dedica ad un tema che può essere considerato universale - in questo caso, come da titolo, il capitalismo - affrontandolo dall'interno, cercando di mostrare tutte le magagne che gli Stati Uniti hanno mostrato nella loro storia principalmente repubblicana, ed in particolare legata alle amministrazioni Reagan e Bush Junior.
Il lavoro di ricerca e più formalmente documentaristico passa decisamente in secondo piano rispetto ad un crescendo di tensione che pare più simile a quello di un film di fiction, riuscendo allo stesso modo a raccontare - in minima parte, s'intenda - tutte le porcate che i grandi amministratori di banche hanno combinato negli anni con tanto di beneplacito di congresso e presidenti: nonostante alcuni colpi bassi - Michael, basta intervistare gente in lacrime! - risultano agghiaccianti pratiche come l'induzione ad una nuova ipoteca sulla casa di proprietà o polizze sulla vita degli impiegati stipulate dalle grandi aziende speranzose del destino segnato dei loro impiegati, considerate le cifre milionarie incassate in caso di decesso.
Il tutto, ovviamente, ad insaputa delle famiglie che, ovviamente, non vedono un centesimo neanche da lontano.
Ma la qualità più importante di Capitalism sta nel fervore - pur se ironico - che Moore mette nel dichiarare ufficialmente tutto il suo disprezzo per la corsa al libero mercato, che produce una percentuale irrisoria di ricchi contro una quasi totalità di esponenti del ceto medio che annaspano tra mutui, stipendi da fame, spese mediche e posti di lavoro mai garantiti: il capitalismo come nemico della democrazia, i richiami a Roosvelt e Obama e il rimando al disastro compiuto durante e a seguito dell'uragano Katrina sono un manifesto coraggioso e potente, che apre scenari decisamente rivoluzionari per quella che è sempre stata la società a stelle e strisce, per motivi storici e "motivazionali" distante da parole come socialismo, sciopero e autogestione.
Eppure, nel momento del bisogno, le realtà del mondo, a prescindere dai retroterra culturali e storici, divengono incredibilmente simili: e prima di ritrovarci a dover davvero combattere quella scarsissima percentuale di miliardari che dominano il mondo da dietro una scrivania perchè ci avranno tolto il diritto di voto, converrà cominciare a presentare alternative valide, e dal nostro piccolo cambiare passo passo il grande.
In fondo, quei signori miliardari non avrebbero nulla, se non fosse per noi.
Moore pare suggerire: "Proviamo a togliere loro la sedia mentre vi si gettano, pronti ad un'altra entusiasmante giornata al posto di comando".
E io rispondo: "Perchè no?"
In fondo quelli non sono mai stati abituati a stare col culo per terra.

"If you don't like my fire,
then don't come around,
cause I'm gonna burn one down."
MrFord

1 commento:

  1. Money, it's a crime
    Share it fairly
    But don't take a slice of my pie

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