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mercoledì 16 maggio 2018

Shameless - Stagione 8 (Showtime, USA, 2017)




I Gallagher sono sempre una certezza, in casa Ford.
Sarà perchè, per estrazione sociale, grinta, casino e via discorrendo, ci sentiamo vicini a loro.
O sarà perchè la Famiglia è un tema sempre importante, da queste parti.
Senza contare quel vecchio bastardo "redento" di Frank, uno degli idoli da piccolo schermo del Fordino.
O Lip, uno degli idoli da piccolo schermo neanche fosse un'adolescente di Julez.
O quella sigla che fa ballare ancora, a distanza di otto stagioni, tutto il Saloon.
Certo, siamo lontani dalle annate migliori e magiche di questa scombinata famiglia nata dall'ispirazione di una serie inglese e illuminatasi di vita propria nella Chicago operaia e ai margini degli States, l'impressione è quella del grande spettacolo che si trascina imitando se stesso, il pathos - Lip escluso - è andato drasticamente calando in favore di una guasconeria sopra le righe che allontana la proposta dalla realtà, ma poco importa.
Rivedere Fiona, Carl, Ian, Kev, V, Liam e compagnia è sempre un piacere, come fossero vecchi amici ai quali risparmi ed abbuoni le battute che ricorrono ad ogni uscita, perchè sai che vorrai loro bene sempre e comunque, e che sarai pronto a sorreggerli durante una sbronza colossale o nel momento del bisogno. Sacro e profano. Ugualmente vicini, fratelli, vivi.
Come i Gallagher.
Con questo ottavo giro di giostra, seppellita l'eredità di Monica, troviamo un Frank come mai l'avevamo visto fino ad ora, ugualmente pronto a fregare il sistema ma più lucido, o quantomeno lontano dagli eccessi - almeno parlando di alcool e droghe - che l'avevano caratterizzato da sempre; dal canto suo Ian, con il movimento del Gesù gay, sale alla ribalta forse venendo travolto da fama e "onnipotenza" confermandosi il charachter più vicino a Monica stessa, e mentre Lip cerca la redenzione aiutando gli altri per poter rimanere in pace con se stesso Carl scopre le gioie e soprattutto i dolori del matrimonio, confermandosi uno dei punti di forza della serie e, forse, il personaggio più imprevedibile. E mentre Fiona continua il suo percorso di "borghesizzazione", si osserva Debbie nel suo somigliare inesorabilmente sempre più proprio a Frank, mentre Liam, trattato come una mosca bianca nella sua ricca scuola di bianchi benestanti, trova una dimensione nuova e potenzialmente interessante per il futuro della serie.
Non parliamo, ovviamente e come scrivevo poco sopra, di una stagione memorabile come quelle cui ci avevano abituato i Gallagher, di quelle in cui si finiva con il groppo in gola e il cuore palpitante, e la sensazione che si sia arrivati alla fase discendente del titolo c'è, eppure non è davvero possibile pensare di abbandonare uno dei prodotti che al Saloon abbiamo più amato e sentito nostri degli ultimi anni, sperando che, fino a quando sarà, possa continuare quantomeno mantenendo un livello discreto come quello di questa stagione, facendo leva sull'amore che, ormai, si prova per i protagonisti.
L'idea, poi, di cominciare a pensare ad una conclusione che possa raccontarli al meglio anche rispetto al loro futuro, potrebbe addirittura rendere Shameless degna di una chiusura davvero mitica, come, del resto, mitici sono e saranno sempre i volti che l'hanno caratterizzata.



MrFord



 

domenica 10 gennaio 2016

Shameless - Stagione 5

Produzione: Showtime
Origine:
USA
Anno: 2015
Episodi: 12








La trama (con parole mie): in casa Gallagher, si sa, non si dormono mai sonni tranquilli. Mentre Frank, fresco del suo fegato nuovo, sperimenta prima una carriera da distillatore di birra e dunque l'esperienza della vita vissuta all'ultimo secondo accanto ad una giovane dottoressa, Fiona è alle prese con turbolenze sentimentali che la portano addirittura al matrimonio, Debbie con i primi turbamenti da adolescente, Ian con il dramma del bipolarismo, Carl con i primi passi nel mondo del crimine e Lip sempre più lontano dalla realtà degradata nella quale è cresciuto ed inserito - in più di un senso - nel mondo universitario.
Tutto questo senza contare la crisi tra Veronica e Kevin legata alla nascita delle loro gemelle ed alla nuova condizione di genitori, gli squilibri della sorellastra acquisita Sammi, la presenza sempre più importante di Mickie Milkovich ed il quartiere che, progressivamente, pare stia cambiando in favore di una riqualificazione.
Materiale perfetto per un'altra Gallagher-bomb.











Se c'è una cosa della quale sono sicuro, parlando di piccolo schermo, è che amo incondizionatamente i fottutissimi Gallagher.
Li amo quando vincono, quando perdono, quando si fanno voler bene tanto da commuovere e quando li prenderesti a mazzate sui denti.
Dal primo all'ultimo, dai miei favoriti Lip e Mickey Milkovich allo scarafaggio immortale Frank.
Li amo perchè, dalla prima puntata della prima stagione all'ultima della quinta - con la sesta che parte proprio oggi - sono sempre rimasti in qualche modo fedeli a loro stessi, allo spirito che li anima e li guida - per quanto distorto, sbronzo o sballato possa essere a volte -, ad una qualità sempre alta delle storie che raccontano - non ho memoria di una serie con una tale costanza nel proporre qualcosa di valore per così tante stagioni senza alcun calo, senza tirare in ballo eventuali crescite, tranne forse Breaking Bad e Sons of anarchy, mica bruscolini -, a qualcosa che c'è dentro chiunque viva o abbia vissuto ad una certa profondità il concetto di Famiglia, scomposta o precisa, allargata o contata sulle dita, figlia dei silenzi o delle urla, dei fratelli come delle sorelle, e via discorrendo.
Per quanto la realtà in cui sono cresciuto sia certo più tranquilla e meno problematica di quella della periferia degradata di Chicago - non certo una delle città più facili degli States -, ogni volta che al Saloon cominciamo una nuova stagione di Shameless pare quasi di tornare a casa, pronti a diventare in qualche modo genitori, figli, fratelli, amici di questo gruppo male assortito di identità tanto forti quanto problematiche, a battersi con e per loro, a vivere al loro fianco un'altra avventura: e una delle cose che più adoro di questa serie è che nulla pare mai suonare forzato, o falso, quasi come se ci si approfittasse dell'affezione e del pubblico.
I Gallagher sono così, carne e sangue, prendere o lasciare, da una Fiona sempre più disequilibrata e lontana anni luce dalla forza della natura che soprattutto nelle prime due stagioni si portava l'intera famiglia sulle spalle ad un Lip che comincia a sentire di doversi allontanare dal mondo cui era abituato, se non altro per poter pensare di costruire qualcosa nel suo futuro, anche quando essere uno "delle mie parti" significa, di fatto, apparire come un'attrazione curiosa, o una mosca bianca; dagli inossidabili Kev e V, per la prima volta in crisi, ad un Frank che, quasi, riesce addirittura a dare l'impressione di essere innamorato per la prima volta di qualcuno; dal dramma di Ian e del suo bipolarismo - convivere tutta la vita con una malattia di natura psichica è una cosa davvero tosta, da sopportare - alla pratica cattiveria di Carl, ben conscio del suo ruolo e del fatto di essere destinato a diventare il pericolo pubblico della famiglia fin da quando era bambino; dall'illusione di Debbie di potersi innamorare, crescere e costruire una realtà domestica diversa dalla propria alla quasi tenerezza del rude e duro Mickey Milkovich, forse il charachter sul quale è stato fatto il miglior lavoro di scrittura dell'intera serie.
Ed io, o meglio, i Ford interi - Fordino compreso, pronto a chiedere, prima di cena, "stasera c'è Frank?" quasi fosse un ospite a tavola - li prendiamo, dal primo all'ultimo, amati ed odiati, in tutto e per tutto.
Perchè, come mi capita sempre di ripetere ogni volta che scrivo un post legato a questa magnifica serie, tutti noi siamo un pò Gallagher.
Quantomeno, tutti noi con un cuore, e cicatrici annesse e connesse.
Tutti noi pronti ad essere degli stronzi patentati e l'ultima speranza per la salvezza di chi amiamo.
Ed è bello, intenso ed umano, essere Gallagher.
Essere "shameless", senza vergogna.
Perchè non dobbiamo mai vergognarci di quello che siamo.
O della nostra Famiglia.




MrFord




"See I just want you to take a second, hear me out.
Don't think I'm happy cause I smile when you see me out.
I've had serious madnesses where I've nearly disappeared,
oh I'm begging Lord to save me and let me go,
to see my family,
and keep it inside,
dry eyes, while my brother weeps.
save my soul,
Please Father let me go.
Keep me safe, as my mother sleeps."
Ed Sheeran - "Family" -





domenica 27 dicembre 2015

Ford Awards 2015: quello che non vedrete nelle sale italiane

La trama (con parole mie): ultimo appuntamento prima della grande carrellata dei migliori film del duemilaquindici è quello con le pellicole passate al Saloon ma, per un motivo o per un altro, almeno per il momento ignorate dai distributori italiani.
Questa è una decina alla quale tengo sempre molto, e che spesso, in passato, ha regalato grandi soddisfazioni nonchè qualche lampo di sanità mentale - pur se in clamoroso ritardo - da parte dei responsabili delle scelte di titoli da portare nella Terra dei cachi.
Al contrario delle pellicole di ieri, questa volta è stata una piacevolissima sofferenza, ed una vera impresa scegliere la numero uno.


N°10: WE'RE STILL HERE di TED GEOGHEGAN



Approcciato con aspettative sotto le scarpe, il lavoro fortemente vintage e fortemente legato ai ricordi della mia generazione di fan dell'horror è stato una delle visioni più sorprendenti dell'autunno, una vera chicca da artigiani prodotta con il cuore e la passione delle grandi occasioni.
Ottimi twist, Larry Fessenden, splendida ricostruzione anni settanta.

N°9: HOUSEBOUND di GERARD JOHNSTONE



Chi frequenta da un pò il Saloon sa benissimo quanto adori tutto quello che riguarda il lato "down under" del mondo, Cinema compreso.
Quest'anno la Nuova Zelanda in particolare ha sorpreso in positivo dando una nuova linfa allo stanco genere horror grazie ad alcune chicche in grado di conquistare soprattutto con l'ironia anche il cuore più duro del fan più navigato: una di queste è senza dubbio Housebound, che pare mescolare i Coen e Wes Craven, regalando ai fan una protagonista che non si dimentica facilmente.

N°8: STARRED UP di DAVID MACKENZIE



Recuperato su consiglio del mio fratellino Dembo ed impreziosito da una performance notevole di Jack O'Connell, questo dramma carcerario legato a doppio filo alla descrizione del rapporto tra padri e figli è riuscito a colpirmi nel profondo, amplificando i sentimenti che alcune pellicole smuovono nel sottoscritto da sempre, ma in particolare dalla nascita del Fordino.
Un pugno nello stomaco di quelli che fa sempre un gran bene ricevere.

N°7: DEATHGASM di JASON LEI HOWDEN



Nuova Zelanda alla riscossa, capitolo due: il sogno di qualsiasi metallaro - o ex metallaro - cresciuto negli anni ottanta trasformato in un instant cult da un giovane regista che mescola musica, suggestioni adolescenziali, slasher, demoni ed il primo Peter Jackson, che tanto bene fece un trentennio fa non solo ad un genere, ma alla settima arte tutta.
Un gioiellino per amatori che forse non tutti capiranno, ma che resta una delle tamarrate più interessanti prodotte nell'anno della definitiva rivalutazione degli eighties.

N°6: DOPE di RICK FAMUYIWA



L'adolescenza è, senza dubbio, il periodo più tumultuoso che ad ognuno di noi capiterà mai di vivere.
Quantomeno a livello emotivo, o di identità.
Troppo giovani per fare quantomeno un tentativo per comprendere noi stessi, troppo vecchi per essere liberi di sognare come bambini.
I tre fantastici protagonisti del lavoro firmato dal sorprendente Famuyiwa non solo incarnano alla grande questo passaggio fondamentale dell'esistenza, ma lo fanno a modo loro, con piglio, ritmo, energia, la giusta dose di cazzate e tanto cuore.
Se non suonasse addirittura eccessivo, potrei quasi definirlo un moderno, piccolo Goonies delle periferie urbane.

N°5: KUNG FURY di DAVID SANDBERG



Magia. Ecco l'unico modo per definire Kung Fury, gioiellino di appena mezzora del regista e protagonista David Sandberg.
Trentuno minuti grazie ai quali non solo sono tornato di colpo il preadolescente appassionato di fumetti, giochi di ruolo e film di botte, ma anche sentito orgoglioso di essere il tamarro pane e salame formatosi grazie agli anni ottanta di oggi.
Nulla, in Kung Fury, è fuori posto. Tranne il fatto che vorresti fosse un lungometraggio.
E già un supercult globale.

N°4: THE FINAL GIRLS di TODD STRAUSS-SCHULSON



Scrivevo poco sopra che, senza dubbio, una delle definizioni migliori di questo duemilaquindici che volge alla conclusione sia "Delorean": mai, infatti, così come negli ultimi dodici mesi, ho visto omaggiare e rendere grazie ad uno dei decenni più esaltanti della Storia della settima arte, gli eighties.
Con una certa influenza anche dei settanta e gli occhi pieni di slasher del periodo - da Venerdì 13 in avanti -, Strauss-Schulson confeziona una chicca tra le più esaltanti dell'anno, in grado perfino di mettere d'accordo i due acerrimi rivali della blogosfera MrFord e Cannibal Kid.
Una cosa che riesce davvero a pochi.

N°3: THE GUEST di ADAM WINGARD



Giunto al Saloon ad inizio anno spinto dal tam tam della blogosfera, The Guest si è rivelato il primo, grande surfer dell'onda eighties di questi ultimi dodici mesi, pronto a raccogliere l'eredità di Drive e diventare un instant cult immediato.
Esagerato, per certi versi assurdo, per altri inquietante, per altri ancora divertente, il lavoro di Wingard ha rappresentato perfettamente il tipo di prodotto che quando cominceremo a distribuire qui da noi, sarà sempre troppo tardi.

N°2: BONE TOMAHAWK di S. CRAIG ZAHLER



Il Western è il mio territorio prediletto, e questo è ormai risaputo.
Quando, però, alle atmosfere classiche si aggiunge una certa sperimentazione "di frontiera", alla durezza dei paesaggi e della violenza il mistero e l'inquietudine dell'horror, ad un gruppo di caratteristi niente male un mostro sacro di casa Ford come Kurt Russell, il cocktail non può che riuscire una bomba.
Ibrido che pare mescolare Dead Man e The descent, Bone tomahawk non solo è l'horror - se così vogliamo definirlo - dell'anno, ma uno dei western più tosti usciti nel passato recente.
Avercene, di bombe così.

N°1: RUDDERLESS di WILLIAM H. MACY


Padri e figli, chitarra e voce, superamento del dolore, atmosfera da Sundance - quello buono -.
William H. Macy, attore che ho sempre adorato, regala al sottoscritto una delle pellicole più intense e commoventi dell'anno, nonchè un titolo che ogni padre dovrebbe vedere e sentire sulla pelle almeno una volta nella vita.
Come scrissi ai tempi del post dedicatogli, Rudderless è il film che sceglierei per salutare i miei lettori, e White Russian. Un commiato perfetto per un cowboy come il sottoscritto, sempre pronto a cadere ma altrettanto a rialzarsi.
Io sono ancora qui. E Rudderless è con me. Nel profondo.


I PREMI


Miglior regia: S. Craig Zahler per Bone Tomahawk
Miglior attore: Billy Crudup per Rudderless
Miglior attrice: Morgana O'Reilly per Housebound
Scena cult: Sam canta il pezzo scritto dal figlio raccontandone la storia, Rudderless
Fotografia: The Guest
Miglior protagonista: Kung Fury, Kung Fury
Premio "lo famo strano": il cast di Camp Bloodbath, The Final Girls
Premio "ammazza la vecchia (e non solo)": Franklin Hunt, Bone Tomahawk
Migliori effetti: Kung Fury
Premio "profezia del futuro": The Final Girls


MrFord

martedì 10 novembre 2015

Rudderless

Regia: William H. Macy
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 105'





La trama (con parole mie): Sam è un pubblicitario di successo, un uomo ben inquadrato nella sua vita, con un figlio al college ed un'ex moglie con la quale i rapporti sono tutto sommato buoni.
Quando il ragazzo perde la vita in una sparatoria avvenuta nel campus universitario, il mondo dell'uomo crolla: passano due anni, e dopo aver mollato tutto e cambiato vita trasferendosi in provincia per fare l'imbianchino e vivere su una barca, Sam si ritrova in bilico tra solitudine ed alcool quando la sua ex, di nuovo madre, decide di lasciargli la chitarra e gli oggetti del loro ragazzo.
Scoperto un vero e proprio archivio di canzoni incise su cd, Sam decide, per tornare ad avvicinarsi a Josh - questo il nome del giovane -, di suonare in un locale che ospita una serata settimanale per cantanti amatori proprio gli stessi pezzi: in questo modo conosce Quentin, che ha l'età che avrebbe avuto suo figlio, con il quale non senza difficoltà fonda una band che diviene una vera e propria attrazione locale.
Ma i ricordi e gli eventi di quel giorno nefasto metteranno Sam di fronte al ricordo che ha sempre cercato di dimenticare legato alle circostanze della morte del figlio.








Una delle sensazioni più intense e semplicemente belle dell'essere appassionati di Cinema è senza dubbio quella di sentirsi così toccati da una pellicola da pensare quasi che la stessa sia stata girata solo per noi, che in quel momento magari siamo dall'altra parte del mondo, a mesi o anni di distanza da quando è stata realizzata, a vivere vite delle quali regista, sceneggiatori ed interpreti sono del tutto ignari.
Nel mio caso, penso a Gli spietati, Barry Lyndon, Il grande Lebowski, Little Miss Sunshine, Hong Kong Express: titoli che hanno segnato così tanto la mia vita da essere entrati a far parte della stessa, e che hanno finito per avere un significato così profondo da non riuscire neppure davvero a descriverlo.
Rudderless, primo lavoro dietro la macchina da presa di William H. Macy, star di Shameless e attore da sempre sostenuto qui al Saloon, rientra alla perfezione nel novero.
Approcciato dopo averne letto molto bene e dopo il curioso omaggio di Cannibal con cautela a causa del tema trattato - la perdita di un figlio è senza dubbio la paura più grande di ogni genitore -, questo film tutto sommato semplice e molto "straight" mi è entrato dentro regalandomi la sensazione di calore del bourbon che scivola giù, e pare accendere un fuoco nel cuore: mi ha fatto venire voglia di vederlo con le persone che amo di più, con il Fordino quando sarà più grande, di riprendere in mano la chitarra - che ho colpevolmente mollato da troppo tempo -, di ascoltare pezzi autunnali pronti ad aprire vecchie ferite, di gioire per la vita e godermela il più possibile, perchè quello che abbiamo è tanto straordinario quanto fragile, e non è detto che possa esserci anche domani.
Soprattutto, mi ha fatto pensare che la recensione di Rudderless, che è una storia di formazione, di rinascita, di riscatto, di cadute e risalite, di padri e figli - sorprendente il twist di metà pellicola legato alla visita alla tomba di Josh, figlio del protagonista Sam, per il suo compleanno, che ribalta il punto di vista ed offre ottimi spunti di riflessione -, di passione, di voglia di ricominciare manifestata anche da un finale struggente e di fatto aperto, sarebbe stata un ottimo ultimo post per White Russian.
La voce rotta di Sam/Billy Crudup che introduce il pezzo di chiusura raccontando la storia di suo figlio, mentre quello che, di fatto, è stato il suo figlio "musicale" prende la sua strada e continua il viaggio attraverso la vita mi è parsa assolutamente perfetta per l'idea di salutare quello che è il "figlio letterario" che mi ha accompagnato nel corso degli ultimi cinque anni, quasi sei: una ballad struggente eppure vitale per un commiato che avrebbe lasciato spazio sia alle lacrime che alla festa.
Un alzata di cappello, un commiato da vero cowboy.
Mi rendo conto che, forse, sarebbe stato più interessante che parlassi approfonditamente di un film tra i più toccanti di questo autunno e legato sia alla musica - da brividi la colonna sonora - che a tematiche da sempre molto care al sottoscritto, dell'ottimo cast e della semplicità con la quale Macy decide di raccontare una storia non banale, profonda e commovente, nonostante un paio di forzature di sceneggiatura - l'utilizzo della ex fidanzata di Josh in primis - ed una regia forse convenzionale, ma il bello dei film che ti colpiscono davvero è proprio la capacità di portare chi ne scrive a parlare della propria vita, come se la fiction si fosse di fatto stretta attorno all'esistenza di chi la sta "vivendo", dall'altra parte del mondo, magari a distanza di mesi o anni.
Rudderless è un film a cui ho voluto e vorrò sempre bene.
Come a White Russian.
Anche se, come per Sam, per quanto possa tentare di nascondermi, fuggire, ubriacarmi o pensare ad altro, questa mia vecchia chitarra proprio non riesco a mollarla.
E finchè avrò voce, il microfono sarà mio.




MrFord




"Take a breath and count the stars.
Let the world go round without you.
If you?re somewhere you can hear my song
Sing along.
Close your eyes and count to ten.
Maybe love?s the only answer. 
I will find a way to sing your song.
Just sing along.
What is lost can be replaced.
What is gone is not forgotten. 
I wish you were here to sing along
My son
My son
My son."
Billy Cudrup - "Sing along" - 






domenica 14 giugno 2015

Homicide

Regia: David Mamet
Origine: USA
Anno: 1991
Durata: 102'




La trama (con parole mie): Bobby Gold, un detective della omicidi di origine ebrea per nulla legato alle tradizioni del suo popolo, si ritrova dirottato da un importante caso all'indagine riguardante l'uccisione di un'anziana gestrice di un negozio di quartiere che i suoi famigliari, ricchi esponenti della comunità ebraica, giudicano come un vero e proprio attentato firmato da gruppi di estremisti antisemiti.
Inizialmente svogliato e disinteressato all'evolversi della vicenda, Gold si troverà sempre più legato non solo alle proprie radici ed identità culturale, ma anche alla necessità di comprendere cosa potrebbe celarsi dietro questo crimine apparentemente banale, arrivando addirittura a scontrarsi con il suo partner e migliore amico, Tim Sullivan.
La risoluzione dei due casi avverrà in un confronto tragico che lascerà segni indelebili su Bobby ed il suo approccio alla professione ed alla vita.














Spesso e volentieri, considerati il mio approccio al Cinema ed il carattere, mi trovo a tessere le lodi di quei film "come non se ne fanno più", gli stessi che, ai tempi delle vhs, diventavano piccoli cult da consumare visione dopo visione, o che si finiva inchiodati al divano a guardare anche ad orari improbabili una volta catturati dalle loro immagini: opere del calibro de I guerrieri della notte, o Johnny il bello - riscoperto, tra l'altro, di recente -, Hard boiled o Danko, solo per citarne alcuni.
Homicide, firmato dal veterano di classe David Mamet, rientra senza alcun dubbio nel novero: recuperato con fiuto da segugio cinefilo da Julez alla fine della scorsa estate in una delle bancarelle da località balneare e dunque approcciato dal sottoscritto, questo solido crime d'azione metropolitana dal cast più che ispirato è stato una piccola rivelazione, ed ha finito per colmare un vuoto che la sua mancata visione ai tempi dell'uscita aveva lasciato, nonostante l'abbia scoperto soltanto a posteriori.
Mamet, che non è certo un regista che le manda a dire, per descriverlo nel modo più pane e salame possibile, imbastisce un thriller metropolitano serrato e nerissimo, che lascia ben poche speranze all'audience così come ai suoi protagonisti - curioso vedere Joe Mantegna, ora impegnato con Criminal Minds, e William Macy, mitico Frank Gallagher in Shameless, decisamente più giovani ed alle prese con ruoli che ne definirono i tratti già ai tempi - prendendosi anche il tempo per spaziare dal botta e risposta tipico dei prodotti più sguaiati - per quanto le sparatorie ed i confronti di natura fisica siano estremamente realistici e curati - ad un crescendo di tensione più vicino, per l'appunto, al thriller o all'intrigo che non al poliziesco fatto e finito - le scoperte di Bobby a proposito del mondo dietro la donna uccisa in modo apparentemente casuale -: e se non bastasse il lavoro sulla contaminazione di generi, Mamet costruisce anche una riflessione decisamente importante sia sul peso delle proprie origini - il progressivo avvicinarsi del suo protagonista alla comunità ebraica ed alla ricerca della verità in merito all'uccisione della stessa donna che inizialmente giudicava semplicemente come un numero nelle statistiche delle vittime di violenze "casuali" - che sul rapporto tra la Legge ed i suoi esecutori, non sempre perfetti e non sempre nel giusto nell'applicarla.
Il tema in questione, forse, non sarà nuovo, se si considerano trascorsi cinematografici come quelli dell'Ispettore Callahan di Eastwood o del quasi contemporaneo Point break, eppure l'unione dello stesso con la volontà di esplorare da una nuova angolazione il rapporto tra la cultura ebraica ed il mondo funziona alla grande, fornendo di fatto una sorta di versione originale di quella che è risultata essere l'idea di Spielberg nell'ottimo Munich: e dalla telefonata con il collega a casa dei parenti della defunta al drammatico confronto con la realtà celata dietro un negozio apparentemente normale la parabola di Gold finisce per risultare più complessa e stratificata di quanto non si possa chiedere ad un comune hard boiled, finendo per incasellare il main charachter nell'Olimpo dei losers da distintivo presentati con fortune alterne sul grande schermo.
E se l'incedere del discontinuo Bobby promette scintille, con il finale assistiamo ad una sorta di sconfitta collettiva - del Sistema e non - che ha il suo culmine nel confronto con il fuggitivo che, almeno in principio, aveva catturato l'attenzione del protagonista a scapito del caso che ne avrebbe, di fatto, cambiato l'esistenza: e se non avessi dubbi sul fatto che l'ispirazione potrebbe giungere dalla presenza di Ving Rhames, oserei addirittura pensare che qualcosa di quel momento a metà tra la tragedia ed il grottesco possa aver ispirato Tarantino prima ancora della sua definitiva e pulp consacrazione.
E per una pellicola non solo di genere, ma anche di nicchia, direi che questo supera ogni più rosea aspettativa.




MrFord




"There's no need to tell you what's in mind,
but in the game of life I'm doing fine
no reason to tell you which way to be
the streets have opened my eyes to see."

Avenged Sevenfold - "Streets" - 





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