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domenica 19 ottobre 2014

Il capitale umano

Regia: Paolo Virzì
Origine: Italia
Anno: 2013
Durata: 109'



La trama (con parole mie): in un Nord Italia a metà strada tra la crisi economica e le speranze che dall’adolescenza proseguono fino all’età adulta rispetto ad un modello dato dai “nuovi ricchi” si muovono le famiglie Bernaschi ed Ossola. 
I primi, di successo, conosciuti e riveriti, a proprio agio in ogni occasione, specie se ad alti livelli, si trovano legati a doppio filo ai secondi quando il rapporto irrisolto dei due figli – che fingono di stare insieme anche quando non lo sono più da un pezzo – funge da catalizzatore per un’improbabile inserimento in un affare da capogiro – e da squali della finanza neppure troppo lecita – di Dino, capofamiglia degli Ossola.
Ad aggiungersi a questo guaio, i crescenti tormenti della moglie di Giovanni Bernaschi, affascinata da un ritorno al passato e al teatro, ed un incidente che costa la vita ad un cameriere, del quale sembra essere responsabile il giovane Massimiliano, tornato a casa ubriaco dopo una festa. 
Almeno fino a quando non viene portato a galla dalla polizia il coinvolgimento di Serena Ossola nell'accaduto.








Virzì è un regista di quelli che, al Saloon, trovano sempre facilmente un posto a sedere ed un brindisi ad accoglierli, tra i pochi in questo ormai più che disastrato Bel Paese ad avere la forza e l’impegno necessari per raccontare ad un certo livello e con una buona profondità.
Da Ovosodo a Caterina va in città, fino allo splendido La prima cosa bella – forse il migliore tra i suoi lavori -, l’autore livornese ha sempre portato grande attenzione a quella che era la situazione in cui versava il Nostro Paese nel momento della realizzazione della pellicola di turno, specchiandole tutte nel presente e nel passato di un’Italia che, di fatto, ha sempre basato la sua determinazione – quando ha avuto voglia di manifestarla – sulla forza necessaria a superare e lasciarsi alle spalle i problemi, piccoli o grandi che fossero.
Il capitale umano, passato in colpevole ritardo qui al Saloon e giunto in occasione della sua investitura ufficiale a candidato italiano per l'Oscar, portava sulle spalle non solo la responsabilità del suo regista e delle ottime recensioni ricevute, ma anche di un momento certo non florido della settima arte nostrana, in bilico tra la crisi economica che ormai da tempo soffoca il progresso non solo italiano e quella culturale – che potrebbe essere perfino peggiore – e proposte interessanti che ormai si contano, nel corso della stagione, sulle dita di una mano.
Il risultato è stato un successo a metà, reso possibile in positivo dalla scelta di una narrazione divisa per capitoli e punti di vista differenti, dalla selezione degli attori “navigati” – ottimo Bentivoglio, bravi Gifuni e la Bruni Tedeschi – e da un piglio da thriller sociale decisamente interessante ed in negativo da un vero e proprio crollo rispetto alle concessioni da film di grande distribuzione sul finale – davvero pessimo lanciare il sasso e ritrarre la mano, per un regista da sempre impegnato come Virzì -, da una nuova leva di interpreti decisamente non all’altezza – i due figli protagonisti della vicenda dell’incidente al limite dell’imbarazzante, di poco sopra il giovane sbandato Luca – e dalla sensazione che lo stesso cineasta livornese non avesse un’idea precisa a proposito della direzione da dare all’intera opera: quello che è dietro, infatti, a Il capitale umano è una presa di posizione potente e decisa contro una società che premia un certo tipo di aggressività da classe alta ed abbiente rispetto ad una bassa ed operaia relegata a risarcimenti moralmente deplorevoli – il capitale umano del titolo – oppure una versione d’autore e più profonda dei drammi mucciniani che andavano per la maggiore una quindicina d’anni fa?
La crisi ha di fatto colpito anche Virzì, oppure il suo intento era quello di mescolare le carte in modo da raccontare un disagio che è presente e radicato da una parte e dall’altra della barricata?
Al termine della visione, non credo di aver trovato una risposta chiara e valida a queste domande, così come non mi sono sentito affatto convinto di applaudire a questo film come molti altri colleghi della blogosfera e non, quasi dietro ad esso si celasse una scomoda aura di parziale ipocrisia che potrà apparire ai vecchi irriducibili di Ovosodo come un vendersi da parte del buon Virzì e ai suoi detrattori come un’accusa neppure troppo velata e decisamente goffa ad un sistema che, di fatto, sta ancora e come sempre dando ragione agli squali.
Che non paiono essere stufi di nuovo sangue.



MrFord



"Sono tanti arroganti coi più deboli, zerbini coi potenti,
sono replicanti, sono tutti identici guardali
stanno dietro a machere e non li puoi distinguere.
Come lucertole si arrampicano, e se poi perdon la coda la ricomprano.
Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno, spendono, spandono e sono quel che hanno."
Frankie Hi-NRG - "Quelli che benpensano" -


 

sabato 18 maggio 2013

Marrakech express

Regia: Gabriele Salvatores
Origine:
Italia
Anno: 1989
Durata: 110'




La trama (con parole mie): Teresa, una ragazza spagnola, arriva a Milano per incontrare gli amici del suo uomo Rudy, inseparabili fino a dieci anni prima ed ormai praticamente degli sconosciuti. Proprio Rudy, in prigione in Marocco, ha bisogno di una cauzione di trenta milioni in modo da poter tornare in libertà: Marco, Ponchia e Paolino, ritrovatisi a loro volta, decideranno di mettere insieme il denaro e partire per Marrakech in compagnia di Teresa, per assicurarsi che i loro soldi non vadano perduti.
Nel corso del viaggio, alla frontiera con la Francia, recupereranno anche Cedro, altro elemento del loro vecchio gruppo, prima di muoversi toccando Saint Tropez, Barcellona ed il continente africano.
I giorni passati insieme risveglieranno l'affetto all'interno del gruppo ed apriranno le porte ad un nuovo inizio per la loro amicizia: ma le sorprese, una volta giunti a destinazione, non saranno finite.





Pochi film si sono guadagnati sul campo il titolo di cult pur partendo da premesse di totale ed inesorabile panasalamismo quanto Marrakech Express, che in una certa misura ancor più di Mediterraneo ha rappresentato un punto di svolta per la carriera di Gabriele Salvatores, influenzando ben più di una generazione di spettatori ed aspiranti attori e registi: personalmente, affrontai per la prima volta il viaggio di Ponchia, Marco, Paolino e Cedro dalla nebbiosa Milano di fine anni ottanta - terrificante l'immagine del ponte della Ghisolfa, luogo in cui venne girata anche una delle parti più importanti di Rocco e i suoi fratelli, com'era ai tempi - al cuore della calda Marrakech, allora considerata probabilmente alla stregua di una meta esotica, dopo aver già visto e rivisto almeno una decina di volte l'epopea dei soldati esuli in Grecia che portò l'Oscar al clan dello stesso Salvatores, eppure questo non rese l'esperienza in qualche modo riduttiva - in fondo, soprattutto a livello cinematografico e recitativo, tra le due pellicole non c'è paragone -, e al contrario mi permise di avere un quadro più completo della mitologia alla base dei primi lavori del regista milanese - compreso Turnè, che con Marrakech Express e Mediterraneo compone una sorta di quasi trilogia - fatta di viaggi ed amicizie nate o da recuperare, storie d'amore, malinconia e ricordi.
Oggi, all'ennesimo passaggio sugli schermi di casa Ford, il racconto del viaggio di Ponchia e soci si rivela come una raccolta alla mano, sincera ed onesta di una serie di perle da risata sguaiata venata di quello struggimento da fine delle vacanze che pervade tutte le pellicole di questo genere, nell'ottica del viaggio che, con i suoi momenti magici e le difficoltà, prima o poi giunge alla sua naturale conclusione lasciando quel piacevole vuoto da occhio lucido cui nessuno riesce davvero a resistere - almeno nessuno che porti nel cuore la passione per la scoperta e l'esplorazione, l'esperienza ed il movimento -.
E dalle milanesate di Ponchia/Abatantuono con il suo inglese, francese o spagnolo maccheronici ed il mal di denti alla storica partita di calcio tra Italia e Marocco - ripresa ed omaggiata anche da Aldo, Giovanni e Giacomo in Tre uomini e una gamba -, dal rapporto tra Paolino e Cedro al fermo alla frontiera tra Spagna e Marocco con la scimmia anti-hashish fino alla biciclettata nel deserto e a quel "Chi sei, Lawrence d'Arabia!?" tutto funziona, e si perdonano sia i sentimentalismi che gli eccessi di naturalezza, riscoprendo anche una certa carica emotiva di sequenze come quella della partita di calcio già citata o del finale con la trivella.
Certo, siamo ben lontani dalla perfezione, ed il look e l'approccio spesso e volentieri artigianali si notano, eppure il risultato è confortante e piacevole come quelle serate che si possono passare solo con gli amici più stretti, con le battute sparate praticamente a memoria - come i passaggi sul campo di calcio di una squadra abituata a giocare insieme - e l'impressione che ci sia sempre qualcuno pronto a coprirti le spalle - così come a renderti la vittima di qualche "zingarata" -, la colonna sonora tra Santana e Dalla è praticamente perfetta ed il cast mostra tutta l'empatia che probabilmente era presente anche fuori dal set.
Dunque, nel pieno rispetto di quella che è la tradizione del Saloon, non posso che continuare ad amare Marrakech Express, con le sue imperfezioni e la sua sincerità, la voglia di viaggiare e ricominciare, lasciare alle spalle il grigio per buttarsi nel sole: e se per questo si dovrà passare lungo la Rambla sognando una notte d'amore con una caliente bellezza locale e finendo per rubare in un market aperto ventiquattr'ore, allora ben venga anche questo.
Fa tutto parte del bello del viaggio.


MrFord


"Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po'
e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò.
Da quando sei partito c'è una grossa novità,
l'anno vecchio è finito ormai
ma qualcosa ancora qui non va."
Lucio Dalla - "L'anno che verrà" -


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