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martedì 8 marzo 2016

Suffragette

Regia: Sarah Gavron
Origine: UK
Anno: 2015
Durata: 106'






La trama (con parole mie): siamo nel millenovecentododici in Inghilterra, e Maud Watts, madre di un figlio, donna da sempre attenta ad obbedire alle regole - anche scomode - ed abituata al lavoro in lavanderia fin dalla tenera età, viene a contatto casualmente con un'azione sovversiva organizzata dalle Suffragette, attiviste del movimento femminista pronte a lottare con tutte le forze affinchè il voto venga garantito alle donne ed una retribuzione equa possa essere una realtà a parità di sforzo e di lavoro.
Presa coscienza della condizione che lei stessa e molte nella sua situazione vivono ogni giorno in fabbrica o a casa, Maud decide di avvicinarsi alle sue colleghe che già militano nel movimento, dapprima come spettatrice, dunque come parte attiva alla causa: la nuova direzione politica presa dalla giovane costerà a quest'ultima la tranquillità in famiglia, il posto di lavoro e sacrifici inimmaginabili per una madre, ma tenendo fede al motto della fondatrice delle Suffragette, Emmeline Pankhurst, "mai arrendersi", la "nuova" Watts lotterà fino in fondo per i suoi diritti e quelli di milioni di donne come lei.










Chiunque mi conosca abbastanza bene, sa quanto le donne siano da sempre una delle debolezze principali del sottoscritto.
Ho sempre considerato l'altra metà del cielo decisamente più sveglia di quella dove sto io, più sfaccettata e complessa, più affascinante, senza dubbio più rompipalle ed in grado di gestire il rapporto tra ragione ed istinto meglio di quanto non si sia in grado di fare noi maschietti.
Un'altra cosa che ritengo sia sacra - e lo ritengo ancora di più da quando l'ho potuto vivere con i miei occhi ed i miei sensi dal giorno della nascita del Fordino - è il loro ruolo di madri: un ruolo che non ho mai considerato come "stai a casa e bada ai figli e se non mi stiri bene la camicia sono schiaffi che volano", quanto come un privilegio che a noi primati sarà sempre, purtroppo, negato.
Non mi è mai capitato, anche tornando indietro nel tempo, di pensare che le donne avessero qualcosa meno degli uomini, dai tempi dell'asilo - ricordo la guerra tra i maschi della classe rossa, quella del sottoscritto, e la gialla, dalla quale rimasi saggiamente fuori, unico tra gli aspiranti "gladiatori", e guadagnai una settimana di giardino circondato dalle fanciulle, in barba ai miei amici tutti confinati in castigo in classe - alle esperienze lavorative, dagli scontri ideologici a quelli verbali, dal conquistare all'essere conquistato.
Con questo non mi voglio certo ergere a paladino del mondo in rosa, che fin dall'alba dei tempi, pur messo sempre alle strette dai tentativi maschili, è riuscito non solo a tenere alta la testa, ma a cambiare la Storia e la società con le sue sole forze: una delle realtà più solide in grado di mostrare questo spirito indomito è senza dubbio quella delle Suffragette, che agli inizi del Novecento lottarono con tutti i mezzi in loro possesso in modo da spingere la società anglosassone verso decisioni epocali - e sacrosante - come il voto alle donne ed il riconoscimento dei loro diritti sui figli - emblematico il caso del bambino della protagonista di questo film, pur se solo accennato rispetto all'economia della trama principale -.
Il merito del lavoro di Sarah Gavron è proprio quello di testimoniare, attraverso fatti locali parte di un confronto e di un insieme più ampi, il coraggio e la passione che queste tostissime signorine mostrarono a tutti coloro i quali non le credevano non solo abbastanza stabili per poter votare, ma anche e soprattutto abbastanza per comparire da pari in società: Suffragette non sarà comunque un film destinato a fare la Storia della settima arte - per certi versi, resta molto convenzionale e dal taglio quasi televisivo -, ma a volte sono le piccole cose e gli avvenimenti casuali - si veda la sequenza più importante e ben riuscita della pellicola, l'incidente al Derby del giugno del millenovecentotredici, destinato a cambiare radicalmente gli equilibri in campo rispetto al voto alle donne - a dare inizio a qualcosa di molto più grande ed importante.
Dunque ben vengano lavori come questo, resi più forti dall'impegno e dalla partecipazione delle attrici - molto brava la Mulligan, e perfino meno fastidiose del solito la Bonham Carter e la Streep - e necessari come ogni pellicola ben costruita e legata ad una delle colonne portanti della società: i diritti civili.
E pensare alle Suffragette, alle mie colleghe, alle madri, a Julez - che, ai tempi, sarei sicuramente dovuto andare a recuperare in carcere più e più volte, e sarei stato fiero di farlo -, alle realtà che conosciamo anche quando la nostra predatoria ed istintiva natura di uomini non prende il sopravvento, alle signore ucraine responsabili delle pulizie del mio posto di lavoro che hanno promesso vodka per festeggiare oggi con noi e si stupiscono di ogni piccolo aiuto e gentilezza ricevuta qui quando la maggior parte dei loro stipendi finisce per mantenere mariti nullafacenti in patria, mi fa sperare che il percorso delle donne sia soltanto all'inizio.
E me lo fa sperare anche e soprattutto il fatto che il loro percorso è anche il nostro.
Perchè senza madri, senza mogli, o amiche, o amanti, non saremmo altro che un gruppo di scimmioni alla ricerca di un qualsiasi buco in un albero.
E non sarebbe una vita altrettanto bella.




MrFord




"Oh don't lean on me man
cause you can't afford the ticket
I'm back on Suffragette City
oh don't lean on me man
cause you ain't got time to check it
you know my Suffragette City
is outta sight... She's all right."
David Bowie - "Suffragette city" -






giovedì 30 aprile 2015

Cenerentola

Regia: Kenneth Branagh
Origine: USA, UK
Anno:
2015
Durata:
105'






La trama (con parole mie): a grande richiesta del sottoscritto, torna al bancone del Saloon con una nuova recensione Julez, che ormai è diventata la specialista di casa Ford nello sciropparsi tutti quei titoli apparentemente molto poco fordiani che finisco per non avere voglia di schiaffarmi.
Questa volta tocca alla nuova Cenerentola targata Kenneth Branagh, regista che in passato è riuscito a regare al sottoscritto ottime soddisfazioni così come schifezze abominevoli.
Quale sarà stato il risultato, questa volta?
Alla mia compagna di viaggio l'ardua sentenza.









Finalmente un film che ti da esattamente quello che ti aspetti quando decidi di vederlo.
Che può essere un’arma a doppio taglio, eh.
Cenerentola è precisamente quello che è Cenerentola. 
La morale, l’insegnamento, l’attesa del buono, la fantasia, un bel vestito, scarpe inventate da De Sade o dal signor Compeed, il lieto fine, i buoni che vincono sui cattivi.
Questo mi aspettavo, questo ho avuto.
Certo io non sono tanto tipo da principesse (se escludiamo Ariel e Merida, ma loro non contano vero? Sono ancora rock vero?) e ad un principe azzurro, per quanto buono e profondo e ricco sfondato preferisco tutta la vita un Sawyer o un Tim Riggins che di principesco non hanno una favazza secca.

Merida rock.
Quindi Cinderella non è mai stata la mia fiaba preferita, anche perché hai voglia ad essere gentile (e si metta agli atti vostro onore che io lo sono eccome) ma dopo un po’, o anche prima, io le sorellastre le avrei sfanculate e avrei loro tagliato i capelli di nascosto o fatto lo scherzo del dentifricio nelle scarpe come in Il cowboy con il velo da sposa.
Eppure devo ammettere che, complice il comparto tecnico – di mestiere e centratissimo –, mi sono goduta questa favola che non pretende di essere il nuovo “geniale” genere degli stravolgimenti delle fiabe (vedasi Into the Woods), ma riesce nell'intento di rispettare il classico che non stanca mai.
Quindi non si grida al miracolo, non è stata messa una pietra miliare lungo la strada del mondo della settima arte, non c’è stata alcuna sorpresa, però avercene film che non deludono le aspettative, anche quando non altissime. 
E bravo Kennettone mio che ci avevi lasciato un po’ per strada con un’egomania che aveva inficiato i tuoi ultimi lavori. Siamo lontani dai tuoi migliori Shakespeare (Molto rumore per nulla) ma anche dai tuoi peggiori flop (Il flauto magico).

Principesse come piacciono a me.
Il principe (che stavolta non è protagonista delle terribili nozze di sangue) è sicuramente meno noioso di altri visti in precedenza.
Cenerella si comporta in un determinato modo non solo perché è scema ma perché crede nella magia della gentilezza, così come insegnatole dalla madre, di cui è la fotocopia.
La trasformazione di zucca, topi, lucertole e oca è veramente magica.
Non ci sono grandi buchi di logica e la storia scorre liscia e senza inciampi.
Insomma, niente male per un film dal quale non mi sarei aspettata praticamente nulla.
Se dovessi avere una figlia femmina glielo farei vedere volentieri. 
Salvo poi mostrarle le foto di Tim Riggins a petto nudo.
Giusto per insegnarle il buon gusto.



Julez



 
"I sogni son desideri
chiusi in fondo al cuor
nel sonno ci sembran veri
e tutto ci parla d'amor."
Maria Cristina Brancucci - "I sogni son desideri" - 




 

martedì 16 luglio 2013

The Lone Ranger

 Regia: Gore Verbinski
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 149'




La trama (con parole mie): nella San Francisco del 1933 un bambino con la passione per i cowboys incontra in un circo il nativo americano Tonto, spalla del leggendario eroe Lone Ranger, che più di sessant'anni prima divenne una vera e propria leggenda del West.
Preso in simpatia il giovane interlocutore - o forse solo desideroso di parlare - Tonto riporterà la memoria ai tempi in cui conobbe l'avvocato e procuratore John Reid, rivelando quali furono le vicende che lo portarono ad indossare una maschera ed agire oltre i confini della Legge solo ed esclusivamente per esercitarla e preservarla, nonchè per proteggere i deboli dalla tirannia di uomini malvagi e votati al denaro e al potere.
Ma i racconti di Tonto sono realtà o frutto dell'immaginazione ormai non proprio lucida di un vecchio indiano d'america ormai più vicino all'altro mondo che non l'altro mondo stesso?
Solo l'immaginazione, ed il cuore, potranno dirlo.




Da buon gestore di un Saloon, non posso che essere - come la maggior parte di voi ormai ben sa - un grande ammiratore del western, come genere, concetto ed oggetto dell'immaginario collettivo nonchè personale, dalle serate con mio nonno e John Wayne quando ero bambino al Clint de Gli spietati.
Potete dunque comprendere quale fosse il mio stato d'animo all'idea che la premiata ditta Pirati dei Caraibi - che comunque non ho disdegnato, nell'ambito dei giocattoloni per famiglie - si occupasse di West e di uno degli eroi più noti - almeno negli States - dello stesso, quel Lone Ranger che nel corso dei decenni ha stimolato la produzione di albi a fumetti, film, serie tv e chi più ne ha, più ne metta.
Sulla carta, le aspettative del sottoscritto erano pressochè nulle, tanto che se non avessimo avuto a disposizione i biglietti omaggio probabilmente non mi sarei neppure degnato di recuperarlo in tempi brevi, confinando l'ennesima baracconata ad una qualche serata senza impegno in data da destinarsi.
Fortunatamente, a volte le aspettative finiscono per essere disattese, ed in positivo: perchè The Lone Ranger non solo mostra tutto il meglio di cui è capace Gore Verbinski - artigiano di classe, oserei dire - nonchè l'industria hollywoodiana dello spettacolo di ampio respiro e fracassone, ma presenta anche un certo rispetto per il genere - soprattutto quello degli spaghetti e del più recente Tarantino, pur non avvicinandosi, ovviamente, neppure da lontano agli standard qualitativi del regista del Tennessee -, un occhio attento per quelli che sono i grandi temi della Frontiera - il concetto di Giustizia, il massacro dei nativi americani - senza per nulla eccedere in retorica ed una dose di autoironia consistente, che avvicina il lavoro del buon Gore a quello di Guy Ritchie con il suo Sherlock Holmes - il primo capitolo, almeno - e non concede troppo all'idea che il tutto è stato probabilmente concepito dalla Disney - che produce - come una macchina mangiasoldi pensata per le scampagnate di genitori e figli verso il multisala nel weekend.
Il fatto che negli States non stia incassando come previsto è la prova di quanto più interessante sia rispetto a quello che la distribuzione vuole far credere questo giocattolone, che ricorda moltissimo Indiana Jones, non patisce la durata decisamente consistente - due ore e venti piene piene che scorrono in un lampo -, presenta due protagonisti perfettamente amalgamati - l'allampanato e rigido John Reid di Armie Hammer, che gli occupanti di casa Ford hanno trovato ancora una volta più che convincente dopo le prove di The social network e J. Edgar, ed il Tonto di Johnny Depp, che senza dubbio è l'ennesima prova di quanto l'attore si sia ormai focalizzato su charachters folli e scombinati ma che funziona anche nella sua parte drammatica, oltre che negli irresistibili duetti con Lone Ranger, o Kemosabe - e regala emozioni sia nelle sue parti più nascoste - il massacro dei Comanche da parte dell'esercito - che in quelle più smaccatamente goliardiche - lo spettacolare e divertentissimo inseguimento tra i due treni nel finale -.
Senza contare che lo Spirito del cavallo, o Silver, come verrà ribattezzato dallo stesso John Reid, regala quel tocco di follia necessario affinchè l'intera operazione consideri di continuare a prendersi in giro senza se e senza ma, e due cattivi d'eccezione, uno sporco e selvaggio come solo i banditi del vecchio West possono essere e l'altro decisamente più terrificante, perchè figlio del denaro e della volontà nata dall'esercizio del potere e da un concetto di crimine legalizzato finanziato solo ed esclusivamente dalla corruzione.
E tutti questi spunti nonostante si tratti, a tutti gli effetti, di un divertissement che non si fa mancare nulla, che senza dubbio i cosiddetti cinefili snobberanno senza ritegno perchè troppo commerciale ed il pubblico occasionale non riuscirà a cogliere nel profondo perchè troppo stratificato: eppure nelle avventure di Lone Ranger e Tonto c'è tutto lo spirito della Frontiera di cui John Ford scrisse l'epitaffio - "Quando nel West la Realtà incontra la Leggenda, vince la Leggenda" -, ed allo stesso tempo la voglia di buttarsi a capofitto in un'impresa impossibile che fece dei miti degli anni ottanta come il già citato Indy dei miti, e non solo degli anni ottanta.
Per quanto i radical chic e chiunque si sia dimenticato della dimensione della propria fanciullezza possano affermare il contrario, in questo The Lone Ranger c'è tutta la meraviglia del Cinema larger than life, un viaggio folle e scriteriato - ma neppure troppo, Tonto docet - su un ottovolante che chiede soltanto di lasciarsi andare, come se a guidarci fosse un "Grande Spirito" che potremmo anche non avere mai visto.
E che invece è lì, di fronte a noi, proiettato sullo schermo di una sala.


MrFord


"Lascia l'ascia di guerra 
e accetta l'accetta dell'amicizia
è solo un presente per te
bevi un goccio da me
al bar di Brokeback Mountain
stringi le mie mani tu."-
Elio e Le Storie Tese - "Indiani (a caval donando)" -

domenica 26 maggio 2013

Fight club

Regia: David Fincher
Origine: USA
Anno: 1999
Durata: 139'




La trama (con parole mie): cosa ti potrà mai succedere nel momento in cui la consapevolezza di avere la vita incasellata tra le pagine di un catalogo Ikea, un lavoro che odi ed una routine che porta all'insonnia comincia a schiacciarti? Potrebbe finire tutto, continuare come se nulla fosse, o tramutarsi nel principio di una rivoluzione iniziata in un volo accanto al compagno di viaggio monodose più incredibile mai esistito: Tyler Durden.
Ed è così che scatta la scintilla.
Una scintilla fatta di una scazzottata per la strada, dopo qualche birra, per approfondire in amicizia anche il concetto molto fisico dello scontro e portare il tutto ad un altro livello: addio alla scrivania, all'appartamento su misura, a quello che la gente si aspetta che tutti noi si faccia per apparire come dovremmo apparire. Fanculo.
Botte, lacrime e sangue. E tanto, tanto sapone.
E d'un tratto, forse ci si troverà di fronte alla fine di tutto. O all'inizio.




Questa recensione "da combattimento" partecipa all'Helena Bonham Carter Day con ogni singola nocca sbucciata.


Fight club è stato tante cose, per il pubblico e la critica, in questi anni, nonchè uno dei primi, veri supercult usciti in sala a cavallo tra il vecchio ed il nuovo millennio e destinati ad assurgere da subito a ruolo di nuovo classico così come era stato qualche anno prima per Pulp fiction o Il silenzio degli innocenti: onestamente, non ho mai fatto mistero di non amare particolarmente lo stile Palaniuk, scrittore troppo alternativo - o pseudo tale - per solleticare le corde più sensibili della mia anima di lettore, eccezion fatta per Rabbia, suo romanzo a mio parere migliore.
Ma non siamo qui per parlare della carriera dietro la macchina da scrivere dello scombinato Chuck, quando della trasposizione cinematografica che David Fincher, regista già allora noto per cose pregevoli come Se7en, offrì di un romanzo che inaugurò la stagione del disagio mentale usato per descrivere il disagio sociale in cui stiamo inesorabilmente sprofondando, in bilico tra lavori che non ci appagano ed uno stile di vita sempre più incasellato, anche quando a noi pare proprio di no.
Appoggiandosi sulle spalle di Edward Norton - come sempre ai tempi in spolvero totale - ed uno dei migliori Brad Pitt di sempre, il regista di Denver porta in scena l'ascesa di Tyler Durden e la sua guerra con il mondo con un piglio che mescola il videoclip e l'indagine interiore ad impatto, pronta ad esplodere in scontri fisici e non solo sempre più devastanti, che hanno il loro culmine nel drammatico match che vede Norton affrontare un allora giovanissimo Jared Leto.
Le celebrazioni di questo giorno, però, impongono la menzione - peraltro meritatissima - di Helena Bonham Carter, che con la sua Marla Singer non soltanto centra uno dei ruoli migliori della sua carriera prima di finire burtonizzata, ma riesce ad apparire bella come non è mai stata e, probabilmente, non sarà mai: il binomio Singer/Durden, dall'incontro tra Norton ed Helena nel corso di uno dei gruppi di sostegno per malattie terminali che costituiscono l'anticamera del Fight Club alla casa occupata dalla premiata ditta di combattenti e paladini del sapone, fino all'esplosivo - in tutti i sensi - finale funziona che è una meraviglia, e sfrutta un'alchimia tra gli interpreti come raramente se ne sono viste sul grande schermo, finendo per coinvolgere perfino i personaggi secondari interpretati dal già citato Leto e da un Meat Loaf mai così convincente dai tempi del suo Eddie nel Rocky Horror.
Ora che ho finito di incensare le qualità di Fight club, comunque, è giunta l'ora anche di qualche sano colpo ben assestato che giustifichi un voto solo discreto per una pellicola che, ancora oggi, continua a portare sotto le insegne delle ormai notissime regole del Fight club nuovi adepti ad ogni passaggio sul piccolo schermo: considero infatti il lavoro di Fincher - e di Palaniuk prima - decisamente interessante ma clamorosamente paraculo, in grado di convogliare un'estetica ed un approccio da ribelli cool che in più di un'occasione pare forzato almeno quanto le pose dei suoi protagonisti, dall'incontenibile Durden alla darkissima Singer.
Perfino la sua feroce critica verso il mondo ed il sistema sociale ed economico all'interno del quale viviamo continua ad apparirmi almeno in parte di comodo, così come non riuscì ad entusiasmarmi ai tempi, quando uscito dalla sala guardai i due amici che erano con me piuttosto perplesso, molto più soddisfatto della colonna sonora e della parte tecnica che non della forza del contenuto.
Fight club è come un'adolescenza ribelle, o un approccio da poseur: potrà fare una grande impressione a prima vista, ma la realtà dei fatti è che nasconde sotto un look da capogiro fin troppi limiti che, visione dopo visione, continuano inesorabilmente a venire a galla.


MrFord


Ma che cazzo va scrivendo in giro, questo MrFord?
Chi pensa di essere? Un eroe senza macchia della bella società con giardino, famiglia felice, tv a cinquanta pollici e la sera sul divano? Comodo, lui.
E poi ci beve sopra.
La realtà è un'altra: Fight club è Fight club.
Una bomba scoppiata in faccia a tutti voi poveri stronzi nelle mani del sistema. Ed è inutile che vi opponiate.
E' vero, e siete stati voi a scegliere, razza di cazzoni.
Ogni giorno scegliete.
Guardate come siete vestiti, cosa comprate, come volete apparire, con i vostri smartphone e le vostre marche ed i vostri aperitivi: patetici.
E tutti, in questo tripudio di deflagrande critica, sono così fighi che voi non potreste neppure da lontano pensare di mettervi a confronto: è superfigo Brad Pitt, che nelle vesti sgargianti di Durden riesce a beccare anche più di se stesso nella versione selvaggia di Vento di passioni, è superfiga Helena Bonham Carter, che con la sua Marla Singer ha definito un'epoca, uno stile, un personaggio che tantissime di voi stronzette là fuori prendono a modello affermando di essere uniche ed originali, è superfigo perfino Edward Norton in giacca e cravatta da impiegatucolo.
Entri al Fight club è sei superfigo. Punto.
L'importante è che si accettino le regole del Fight club. Dalla prima all'ultima.
E non fatevi troppe domande, anzi, non fatevene affatto.
Andrà tutto bene, anche se dovessimo ribaltare il mondo intero.
Dov'è che l'avevo già sentita, questa? Già, L'odio. Più o meno.
Fin qui tutto bene, fin qui tutto bene.
L'importante non è la caduta, ma l'atterraggio.
Splash.
E in un attimo sei diventato un sapone.


FordMr

Partecipano colpo su colpo all'Helena Bonham Carter Day: 
Il Bollalmanacco di Cinema - Grandi Speranze
In Central Perk - La Dea dell'Amore 
La Fabbrica dei Sogni - La Fabbrica di Cioccolato  
Montecristo - Novocaine  
Movies Maniac - Alice in Wonderland  
Scrivenny - Il Discorso del Re  
The Obsidian Mirror - Sweeney Todd  
Triccotraccofobia - Frankenstein di Mary Shelley


"In Fight Club Edward Norton ha le turbe,
non esiste nessun Tyler Durden,
in Shutter Island Di Caprio è un malato
mentale capace di architettare trame assurde.
Nel Sesto Senso Bruce Willis è un morto,
nelle 12 Scimmie è il morto.
'Hey ragazzi ma che fine ha fatto Bruce Willis?
Sapete se un film è in porto?'"
CapaRezza - "Kevin Spacey" -


mercoledì 6 febbraio 2013

Les Misérables

Regia: Tom Hooper
Origine: UK
Anno: 2012
Durata: 158'




La trama (con parole mie): Jean Valjean, incarcerato all'inizio dell'ottocento dopo aver rubato del pane per la sua famiglia in povertà, dopo diciannove anni di lavori forzati torna finalmente un uomo libero. Perseguitato dalla sua condizione e dallo zelante ispettore Javert, trova rifugio in una chiesa: quando trafuga l'argenteria e viene catturato durante la fuga, però, il religioso che l'aveva ospitato confessa alle autorità di avere donato gli oggetti di valore all'uomo, scagionandolo.
Da quel momento la vita di Valjean cambia, e l'ex detenuto scompare cambiando identità e facendo tutto il possibile per aiutare i bisognosi: gli anni passano, la Francia cambia, la lotta tra poveri e ricchi continua, ma non si quieta il desiderio dell'ispettore Javert di ritrovare quel prigioniero che ancora ritiene si sia messo al di sopra della sua adorata Legge.
Nel frattempo Cosette, la figlia adottiva di Jean, una volta cresciuta si innamora di Marius, un rampollo di nobili schieratosi con il popolo nella lotta per la Libertà.





E così, anche in casa Ford si è deciso di affrontare uno dei candidati più forti della prossima corsa agli Oscar, quel Les Misérables tratto dall'omonimo - e notissimo - musical a sua volta ispirato dall'ancora più noto romanzo di uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, Victor Hugo.
So che probabilmente vi sareste aspettati di veder volare le bottigliate, considerate le premesse e considerato il regista - Tom Hooper, che un paio d'anni fa mi aveva regalato una delle sòle più clamorose delle ultime stagioni cinematografiche, il bolsissimo Il discorso del re -, eppure non ho trovato questo monumentale - in senso sia positivo che negativo - musical fiume così male come avrei pensato: la messa in scena è ricca ed ottimamente realizzata, il cast fisicamente in parte, alcuni passaggi musicali particolarmente riusciti - oltre alle notissime Stars e On my own l'apertura sul tema degli schiavi così come gli incroci con protagonisti Helena Bonham Carter e Sacha Baron Cohen ed il finale sulla melodia dedicata al popolo in rivolta sono particolarmente riusciti -, il climax emozionante, le tematiche importanti - ma qui, di nuovo, il merito va tutto al signor Hugo -.
D'altro canto, i suoi difetti più eclatanti non riescono ad essere imputabili - o almeno non troppo - alle scelte registiche: il fatto che sia completamente - e dico completamente - cantato e dunque particolarmente indigesto se visto a stomaco pieno e con un pò di stanchezza sulle spalle è dovuto alla stessa versione teatrale alla quale Hooper si è ispirato, il fatto che Russel Crowe e Hugh Jackman non siano proprio dei fenomeni come cantanti e che siano stati scelti per "fare cassetta" potrebbe essere responsabilità della produzione ed alcune parti clamorosamente "da Oscar" sono, in questi casi, un tributo quasi obbligato, soprattutto se si è un cineasta dal quale ci si aspetta, ormai, un papabile vincitore dell'ambita statuetta.
Come se non bastasse, mi sbilancio anche affermando senza troppi patemi d'animo che Les Misérables è risultato incredibilmente meno palloso di quanto non sia stato Lincoln - suo diretto rivale nella corsa a favorito dell'Academy -, e che alcune interpretazioni hanno pienamente reso giustizia ai personaggi figli della penna del mitico Victor - per quanto non mi sia mai piaciuta, Anne Hathaway è stratosferica, così come Samanta Barks nel ruolo di Eponine ed il piccolo Daniel Huttlestone in quello di Gavroche, vincitore del premio di preferito fordiano - aggiungendo pathos ad un drammone che altrimenti, complice la scellerata scelta dei recital vocali a raccordare le canzoni invece dei normali dialoghi, sarebbe stato davvero indigesto.
Certo, resta il dubbio che se la stessa materia fosse finita tra le mani di un regista in grado di osare di più - qualcuno ha detto Baz Luhrmann? - il risultato sarebbe stato sicuramente qualcosa di molto più simile ad un cult che non ad un tentativo di sdoganare un genere piuttosto classico nel più classico dei modi rispetto al grande pubblico - sfruttando, chissà, anche la spinta di un eventuale premio che anche i non appassionati di Cinema conoscono molto bene -, ma a conti fatti il lavoro di Hooper è quello di un artigiano che conosce bene il suo mestiere e sa quale materia sfruttare per catturare l'attenzione del pubblico più esigente - la ricerca di Javert ed il suo confronto con Valjean con annessa riflessione sul valore della Legge è roba grossa davvero, e la lotta e la rivoluzione sono in grado di infiammare sempre i cuori - così come di quello occasionale - la storia d'amore tra Cosette e Marius, le macchiette interpretate dai già citati Baron Cohen e Bonham Carter, il finalone spaccacuore -.
Una delusione mancata, quindi, che non rappresenterà certo il meglio che il Cinema potrà offrire al sottoscritto nel corso di questo 2013 ma che, al contrario del lavoro precedente del regista, certo non finirà nella classifica dedicata al peggio: molto più banalmente, siamo di fronte ad una proposta di quelle buone per tutti, e che proprio per questo rischia grosso l'incetta in una certa notte nel corso della quale sarà messa a confronto con titoli sicuramente più meritevoli, ma non per questo altrettanto vincenti - almeno sulla carta -. 


MrFord


"On my own
pretending he's beside me
all alone
I walk with him till morning
without him
I feel his arms around me
and when I lose my way I close my eyes
and he has found me."
Da Les Miserables - "On my own" -


martedì 22 maggio 2012

Dark shadows

Regia: Tim Burton
Origine: Usa
Anno: 2012
Durata: 113'



La trama (con parole mie): Barnabas Collins, immigrato con la famiglia negli Stati Uniti dall'Inghilterra nel pieno del settecento, inizia un burrascoso rapporto d'amore non ricambiato con la strega Angelique, che lo maledice provocando la morte dell'amata del giovane infierendo ulteriormente trasformandolo in vampiro e rinchiudendolo in una cassa solo con il suo dolore e la sete di sangue e vendetta.
Quasi duecento anni dopo, all'inizio dei mitici seventies, Barnabas viene liberato da un gruppo di operai: tornato alla vita, e venuto a sapere che Angelique è ancora l'eminenza grigia dietro gli affari della città che i suoi genitori fondarono, il vampiro decide che è giunto il momento di prendersi cura dei suoi "futuri" parenti ed assaporare la rivincita sognata per così tanto tempo.
Ma la strada perchè tutto possa finalmente compiersi è lunga, e non priva di difficoltà.





A volte capita anche ai migliori di commettere un errore in grado di cancellare come se niente fosse anni e anni di successi: è accaduto al mio adorato Roberto Baggio nella finale dei Mondiali del 1994 con quel rigore mai dimenticato, a Terrence Malick con quella ciucciata gigante di The tree of life, a Don Winslow con l'ultimo Le belve e anche a Tim Burton, con l'agghiacciante Alice in wonderland.
Certo, tra gli scivoloni appena elencati quello del regista di magie come Edward mani di forbice o Big Fish è decisamente il più grave, tanto da rendere difficile credere che lo stesso possa essersi davvero ripreso: onestamente, e in onore del passato, ho cercato di approcciare Dark shadows con il minor numero di pregiudizi possibile - complice un trailer che mi aveva tutto sommato sorpreso in positivo, nonostante la consueta dose di timburtonite deppiana condita con la presenza da me faticosamente digerita di Helena Bonham Carter -, nella speranza di godermelo non come fosse un tentativo dell'autore di tornare alla ribalta ma come se fossimo ancora nel pieno degli anni novanta, ed il vecchio Tim potesse pensare di essere il regista di culto numero uno di quasi una generazione.
Purtroppo neanche le mie migliori disposizioni mentali sono servite per salvare Dark shadows da un destino di scialba mediocrità reso giusto leggermente più intrigante dalla presenza di Eva Green, che continua ad avere argomenti decisamente interessanti da proporre all'audience: la sequenza del sesso con Barnabas, quasi una parodia estremizzata della luna di miele vista in Twilight, resta uno degli episodi meglio riusciti di un film che passa e scivola via quasi fosse la più superflua delle visioni.
Una cosa che potrebbe suonare normale per un regista senza pretese, ma che per Burton ha il sapore amaro di una sconfitta, soprattutto se si considera che l'intera operazione pare un divertissement ad uso e consumo dei suoi protagonisti ed autori, quasi il triangolo Tim-Johnny-Helena, dopo aver visionato la serie da cui è stato tratto questo lavoro in una sera di noia alcoolica avesse deciso di trasformare il tutto in un giochino sul quale costruire il consueto circo di soldi e pubblicità come la migliore delle famiglie felici.
Ed è proprio la famiglia, il perno delle avventure di Barnabas - personaggio, peraltro, anche piuttosto divertente -: quella ormai perduta, quella in qualche modo rappresentata da Angelique e quella dei parenti acquisiti, una squadra di dissociati molto male assortiti.
Peccato che la sceneggiatura sia decisamente poco approfondita, sbrigativa e slegata, alcuni personaggi si perdano per strada - la Hoffman della Bonham Carter - ed altri decisamente promettenti siano letteralmente abbandonati a se stessi - la Carolyn della bravissima Chloe Grace Moretz di Kickass e Hugo Cabret -: proprio in fase di scrittura, in effetti, il film mostra il suo lato peggiore, presentandosi di fatto come un qualsiasi film Dreamworks tutto scenette e poca sostanza, alternando idee divertenti - l'assonanza McDonald's/Mefistofele ed il linguaggio forbito di Barnabas a colloquio con il gruppo hippy - a lunghi momenti di stanca in cui finiscono tutti per apparire come macchiette prive di spessore.
Peccato davvero, perchè tornando indietro nel tempo e ripensando alle numerose perle regalate da Burton in passato - Ed Wood, Mars attacks!, Beetlejuice - suona davvero un pò triste pensare di doversi rifugiare in un paio di gag che funzionano e sul fascino di un'attrice - anche se, occorre ammetterlo, Michelle Pfeiffer ancora si difende nonostante abbia di fronte la già citata Eva Green - e su una sorta di finto alternativismo fuori dagli schemi per poter portare a casa un film che possa - e neppure troppo - funzionare, ignorando charachters che un tempo avrebbero fatto la fortuna - e la gioia - dell'autore di Frankensweenie e dei suoi sostenitori come quello di David Collins, lasciato ai margini per concedere spazio ad inutili esibizioni di effetti, atmosfere e movimenti di macchina.
Probabilmente Burton comincia a soffrire della stessa mancanza di ispirazione di Allen e Scorsese, eppure, tentato dal successo commerciale, insiste nel non riuscire a concepire che una pausa di riflessione e, perchè no, depurazione, potrebbe essere utile perchè possa tornare sul grande schermo senza essere necessariamente il Burton che il pubblico si aspetterebbe, e chissà, arrivare a sorprenderlo con qualcosa di dirompente come Big Fish, ad oggi a mio parere il suo lavoro più grande ed universale.
L'unica consolazione è data dal fatto che, da queste parti, cominciavano a mancare vittime illustri da sacrificare sul sacro bancone delle bottigliate: che, peraltro, per questo pallido tentativo di ripresa, il buon Tim neanche merita.
Ma, nel dubbio, mi tengo pronto: chissà che la prossima sia la volta buona.  


MrFord


"No more Mister Nice Guy
no more Mister Clean
no more Mister Nice Guy
they say he's sick, he's obscene
I got no friends 'cause they read the papers
they can't be seen with me
and I'm feelin' real shot down
and I'm gettin' mean."
Alice Cooper - "No more Mr. Nice Guy" -


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