Visualizzazione post con etichetta Iko Uwais. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Iko Uwais. Mostra tutti i post

lunedì 7 ottobre 2019

White Russian's Bulletin



Settimana di pausa nel recupero tarantiniano - comunque in cima alla lista delle mie priorità di visione - che ha portato al Saloon due nuove uscite e un paio di serie che erano da parecchio nel menù di casa Ford: e in bilico tra pellicole premiate, supereroi e vecchie glorie fordiane, non c'è stato davvero modo di annoiarsi.
Anche se i punti di vista potrebbero essere diversi da quelli raccolti in rete e sui social.


MrFord



THE BOYS - STAGIONE 1 (Amazon Original, USA, 2019)

The Boys Poster


Tratto da una serie firmata dal Garth Ennis di Preacher e legato per ispirazione a Watchmen, The Boys è giunto sugli schermi del Saloon quasi a sorpresa, nonostante il passato legato a doppio filo al mondo del Fumetto del sottoscritto: acclamata e ben accolta, la produzione Amazon centra il bersaglio grazie ad una serie di personaggi e trovate di grande efficacia, oltre ad una manciata di episodi - quelli iniziali - davvero notevoli.
Si spegne un pò alla distanza, ma senza dubbio presenta materiale che, se ben trattato, potrebbe trasformare The Boys in una delle realtà da supereroi più interessanti del passato recente, grazie principalmente al gruppo di outsiders protagonisti/antagonisti e ad un villain d'eccezione - il Patriota di Anthony Starr, che in barba al passato tagliato con l'accetta di Banshee ha svolto un lavoro d'interpretazione notevole -, oltre ad una visione che porta il mondo del superpotere strettamente a contatto con i difetti che tutti noi portiamo dentro da esseri umani.
E cosa accade quando un essere umano in grado di sfondare muri o volare o correre a velocità supersonica non è in grado di mantenere il controllo?
Who watch the Watchmen?, recitava la graphic novel cult di Alan Moore. Ci sarebbe da chiederselo.




WU ASSASSINS - STAGIONE 1 (Netflix, USA, 2019)

Wu Assassins Poster


Giunta sugli schermi di casa Ford principalmente grazie alla presenza nel cast di Iko Uwais e alla promessa di un sacco di calci rotanti, Wu Assassins ha finito per non rispettare appieno le attese: la produzione Netflix, ambientata in una San Francisco splendidamente ripresa, ha vissuto nel corso dei suoi dieci episodi una sorta di lotta tra la componente action e botte da orbi e quella fantasy, legata a doppio filo alla trama principale che vede il protagonista ritrovarsi ricettacolo del potere di Assassino dei Wu, esseri una volta umani divenuti sovrannaturali grazie al ritrovamento di reliquie in grado di donare loro caratteristiche uniche ma anche una propensione al "lato oscuro" non indifferente.
Personalmente, ho di gran lunga preferito la prima, legata agli stilemi classici del "buono contro cattivo" in ambiente metropolitano con tante mazzate e dose di pane e salame elevata rispetto alla seconda, più dispersiva, senza particolari idee e confusa, purtroppo pronta a prevalere nel ciclo di episodi che concludono la stagione, ancora senza una conferma a proposito di una seconda.
Faccio giusto tesoro delle evoluzioni di Uwais - uno dei migliori interpreti attuali del "Cinema di botte" - e di Katheryn Winnick, la Lagertha di Vikings.




JOKER (Todd Phillips, USA/Canada, 2019, 122')

Joker Poster

Ho fatto di tutto, nonostante le recensioni entusiastiche lette in ogni dove in rete e sui social, per non farmi influenzare dall'hype rispetto al Joker fresco vincitore del Leone d'Oro a Venezia, in modo da evitare l'eventuale delusione. Oggettivamente, c'è da congraturarsi con Todd Phillips per la confezione e la realizzazione di una pellicola dal sapore di anni settanta disturbante e molto autoriale, considerato il genere, e con Joaquin Phoenix per un'interpretazione ottima, almeno tre scene cult - la discesa dalla scalinata una volta completata la "mutazione" in Joker, gli omicidi in metropolitana e quello nello studio televisivo - ed un lavoro di oppressione rispetto allo spettatore più che efficace, eppure devo ammettere di essere uscito dalla sala emotivamente distaccato, con la sensazione di aver assistito ad un grande spettacolo con la grande pecca di essere stato studiato clamorosamente a tavolino.
Anche se non è giusto - perché si tratta di pellicole diverse - fare paragoni, questo Joker è più simile a quello macchiettistico di Nicholson nel primo Batman di Tim Burton che non a quello distorto e caotico di Heath Ledger nel Cavaliere Oscuro di Nolan, e proprio per questo, forse, non sono riuscito a sentire tutta la carica emotiva che avrebbe dovuto avere.
Resta senza dubbio un lavoro con i fiocchi, ma non quelli che restano stampati nella memoria.




RAMBO: LAST BLOOD (Adrian Grunberg, USA/Spagna/Bulgaria, 2019, 89')

Rambo: Last Blood Poster


La settimana è stata chiusa dal più consueto festival della tamarrata fordiana, quel Rambo che, come Rocky ed in modo ancora più pane e salame continua a non voler mollare e continuare a combattere, in barba ad età, mondo che cambia ed essere fuori tempo massimo.
Riprendendo il canovaccio di Taken alimentando pessimismo e violenza, il buon Sly riesuma uno dei suoi charachters simbolo in un tributo che ha poco senso in termini di scrittura e di logica narrativa ma è una gioia per gli occhi ed il cuore di tutti i fan che, come il sottoscritto, l'hanno visto attraversare mezzo mondo e spaccare culi a prescindere dalla latitudine geografica ed ora tornano ad apprezzarlo tra le mura di casa sua, spinto come il passato vuole dalla vendetta e dal desiderio di raddrizzare i torti.
Con ogni probabilità i radical chic o i finti intenditori di Cinema come Cannibal Kid protesteranno di fronte a un titolo come questo, eppure messi da parte i pregiudizi ed accettata l'operazione per quello che è, resta un festival del gore versione action come solo il Rambo precedente era stato.
Segno che, per quanto fantasmi, certi personaggi hanno ancora il diritto ed il dovere di far sentire la loro presenza al pubblico.


lunedì 28 gennaio 2019

White Russian's Bulletin



Nuova puntata del Bulletin che, nonostante il sempre più rosicato tempo dedicato al Cinema e ad alcuni problemi tecnici porta in dono una serie di visioni più corposa rispetto a quella del trend delle ultime settimane: ovviamente, il titolo principe a questo giro di bevute è uno e uno soltanto, e credo che tutti quelli che frequentano il Saloon - e forse anche chi non lo frequentano - sappiano bene di quale titolo io stia parlando.
Dunque saliamo tutti sul ring e scopriamo com'è andata con l'ultima avventura del mitico Stallone Italiano.

MrFord


CREED II (Steven Caple Jr, USA, 2018, 130')

Creed II Poster

Penso aspettassi questo secondo capitolo delle avventure sul ring di Adonis Creed, figlio del defunto Apollo cresciuto pugilisticamente parlando da Rocky Balboa fin dai titoli di coda del precedente, circa tre anni fa: il charachter principe creato da Sly, parte integrante della mia formazione cinefila e non solo, ha un potere su di me incredibile, quasi riuscisse a vincere il Tempo e riportarmi a quando mi emozionavo da bambino davanti alle imprese mirabolanti del re degli underdogs cinematografici per poi farmi balzare avanti nel futuro, quando con i Fordini ripercorrerò la strada di questo mito che è riuscito non solo a fare la fortuna del suo creatore, ma anche a rompere lo schermo neanche fosse esistito davvero. 
Tecnicamente parlando, questo numero due della saga di Donnie Creed si rivela leggermente inferiore al precedente, un pò per l'effetto sorpresa, un pò per la mancanza di Ryan Coogler alla regia, eppure la formula è stata pienamente azzeccata: Rocky, come nel precedente, si mangia il film, ormai vecchio maestro neanche fosse un Miyagi della boxe, la versione reloaded della vecchia faida con Drago è ottima - ed è stato bravissimo Stallone in fase di scrittura a rendere umana e quasi "eroica" la coppia padre/figlio sovietici -, le tematiche legate proprio al rapporto tra genitore e figlio ben sviluppate, il match che chiude la pellicola gestito ottimamente.
Ma è stato fuori dal quadrato che Creed II ha dato il meglio, con un epilogo splendido sia per quanto riguarda la gestione del duello tra Adonis e Viktor Drago, sia per le tre vicende sviluppate, per l'appunto, in chiusura: generazioni che si sostengono e che si scontrano, che si incontrano, che cadono al tappeto e trovano la forza di rialzarsi, sempre.
Per continuare a lottare fino al suono della campana.




REVENGER (Seung Won Lee, Corea del Sud, 2019, 101')

Revenger Poster

Privo - momentaneamente, spero - della possibilità di recuperare come si deve i film in sala e non solo, sono stato soccorso da Netflix scoprendo una nutrita selezione di film di botte di quelli che piacciono tanto ai vecchi tamarri come me, prontamente recuperata per tutte quelle serate in cui la stanchezza finisce per farla da padrona ed il rischio di appisolarsi sul divano diventa più che concreto: Revenger, film coreano dal vago sapore anni novanta, recupera tematiche già portate sullo schermo da cult sotterranei come Fuga da Absolom condendoli con coreografie decisamente d'impatto ed un mix di grottesco e drammatico dal carattere decisamente asiatico.
Peccato che, nel complesso, deluda le aspettative finendo per risultare, nonostante tutto, piuttosto statico e freddo, un giocattolone a metà strada tra l'essere tamarro - e dunque divertire sguaiatamente - e ambizioso nel tentare di proporsi come una sorta di "figlio" di cose come The Raid. Peccato.




3% - Stagione 1 (Netflix, Brasile, 2016)

3% Poster

Sponsorizzata caldamente da Julez e diventata l'accompagnatrice delle pause pranzo che riesco a passare a casa - poche, tra palestra e lavoro, considerato che gli otto episodi sono passati sugli schermi del Saloon nell'arco di quasi tre mesi -, 3% ha rappresentato una scommessa per questo vecchio cowboy, dubbioso fin dal principio delle avventure da prossimo futuro raccontate in questo sci-fi distopico made in Brasile: certo, l'originalità non è il punto forte del plot, eppure il lavoro svolto sui personaggi - si tratta di una serie corale nella grande tradizione inaugurata da Lost - è più che buono, i twist ed i cambi di direzione inaspettati non mancano e l'hype per la stagione successiva si mantiene alto. Il lavoro svolto dagli autori, dunque, è senza dubbio funzionale, e pur non avendo inventato nulla ha saputo una volta ancora sottolineare l'incredibile varietà di sfumature che porta dentro l'animale più pericoloso che sia mai esistito. L'Uomo.



LA NOTTE SU DI NOI (Timo Tjahjanto, Indonesia/USA, 2018, 121')

La notte su di noi Poster

Insieme a Revenger, La notte su di noi è stato il titolo che, sulla carta, ha finito per colpirmi maggiormente scorrendo tra le proposte di botte made in Netflix: a differenza del titolo coreano, però, il lavoro di Tjahjanto è una vera e propria giostra di botte, sangue, casino e vendetta da buon, vecchio film di genere da fare invidia ai titoli "di serie b" che negli anni finiscono sempre per diventare veri e propri cult. Iko Uwais - già idolo da queste parti - è una garanzia, la vicenda - per quanto "da fumetto" - un vero circo di mazzate come non ne vedevo dai tempi del già citato The Raid, le coreografie un gioiellino pronto a solleticare i punti giusti negli appassionati di calci rotanti.
Tra le recensioni lette dalle parti di Imdb, una ha reso perfettamente giustizia in una frase a questo film: "Fa sembrare John Wick un gioco per bambini". Tremendamente vero.

lunedì 3 dicembre 2018

White Russian's Bulletin



Nonostante gli impegni lavorativi, la desertificata blogosfera e Red Dead Redemption 2 che mi cattura sempre di più, anche a questo giro di giostra sono riuscito a portare a casa qualche visione nel corso della settimana: titoli criticati, non perfetti, lontani dal poter essere considerati tra i migliori dell'anno, eppure a loro modo di carattere e ottimi da gustarsi per serate da divano e White Russian - ovviamente - lontani dal freddo ormai quasi invernale.


MrFord


RED ZONE - 22 MIGLIA DI FUOCO (Peter Berg, USA, 2018, 94')

Red Zone - 22 miglia di fuoco Poster


Peter Berg da queste parti è sempre ben accetto dai tempi di Friday Night Lights, e nonostante si tratti di uno dei registi action più americani - nel senso stelle, strisce e se metti piede nella mia proprietà ti pianto una palla in corpo - che si possano immaginare, è sempre riuscito a trasportare la tipica retorica bianca, rossa e blu in qualcosa di sanguigno e tosto.
Non è da meno il tanto vituperato - in patria - Mile 22, action di stampo orientale - in più occasioni mi ha ricordato The Raid - che vede un altro fordiano d'eccezione, Mark Wahlberg, capitanare una squadra di operativi paramilitari incaricati di accompagnare un prigioniero politico fino ad un recupero che pare distante anni luce nel tipico action survival che quasi ricorda un videogiocone sanguinoso.
Strepitosi i combattimenti, da quello con protagonista Lauren Cohan a tutti quelli che vedono al centro dell'azione Iko Uwais, già star di The Raid - per l'appunto -: e come se non bastassero botte, proiettili ed un ritmo incalzante, i twist continui del finale aggiungono pepe ad un titolo, a mio parere, sottovalutato ed incompreso. Roba tosta.



BOHEMIAN RHAPSODY (Bryan Singer, UK/USA, 2018, 134')

Bohemian Rhapsody Poster


Freddy Mercury e i Queen sono stati, ai tempi delle medie, una delle mie prime cotte musicali, con quel loro gusto kitsch e sopra le righe e pezzi che praticamente parevano nati per far parte di compilation e greatest hits vari: la storia di Mercury, legata a doppio filo all'AIDS e alle controversie sulla sua sessualità è da sempre materia di chiacchiere tra gli appassionati, e nonostante la critica illustre non veda la sua band come una delle più importanti del rock non ci sono dubbi rispetto al fatto che ne abbia fatto indubbiamente la Storia.
Il lungometraggio che ne racconta le gesta sul palco e non solo, firmato dal Bryan Singer de I soliti sospetti ed interpretato da un grandissimo Rami Malek, è a tratti troppo facile nel suo svolgimento, per certi versi clamorosamente hollywoodiano e pronto a fare leva nella seconda parte sul coinvolgimento emotivo ed ovviamente sui pezzi immortali scritti dalla band, eppure è, come Mile 22, pane e salame e di cuore anche nel mostrare quegli stessi limiti, esibiti al contrario orgogliosamente almeno quanto le modifiche "storiche" operate per alimentare la drammatizzazione del soggetto - come le tempistiche secondo le quali Freddy comunicò ai suoi tre compagni di aver contratto l'HIV -: in questo senso, probabilmente, sarebbe piaciuto ad un "eccessivo" come Mercury.
Ed il concerto del Live Aid replicato alla perfezione nel finale resta davvero da brividi.




MAKING A MURDERER - STAGIONE 1 (Netflix, USA, 2015)

Making a Murderer Poster


La Storia della Giustizia americana è senza dubbio ricca di casi eclatanti raccontati spesso e volentieri dal grande e dal piccolo schermo, da Hurricane a O. J. Simpson.
In questo caso a portare sullo schermo l'incredibile lavoro in termini di dedizione degli autori è ancora una volta Netflix, che qualche anno fa fece parlare di sé grazie a questa serie dedicata all'incredibile vicenda di Steven Avery, condannato a metà degli eighties per uno stupro che non ha commesso e scarcerato grazie alla prova del dna dopo diciotto anni, che, dopo due anni di libertà ed una causa milionaria intentata contro il dipartimento di polizia della sua regione viene accusato di un omicidio dai contorni orrorifici con il giovanissimo nipote in quello che pare, dall'esterno, essere un vero e proprio caso di "costruzione di reato".
Stilisticamente antispettacolare - le riprese furono tutte fatte seguendo i protagonisti delle vicende, senza alcun fronzolo -, agghiacciante da seguire se non altro come critica feroce al sistema di giudizio negli USA, non privo di domande da una parte o dall'altra della barricata lo si guardi - in questo caso ricorda lo splendido Capturing the Friedmans di Jarecki -, forse non avrà la potenza emotiva o visiva di altri titoli, ma senza dubbio tocca nel profondo e fa riflettere su quanto fallibile sia o possa essere l'Uomo.


domenica 26 aprile 2015

Man of Tai Chi

Regia: Keanu Reeves
Origine: USA, Cina, Hong Kong
Anno: 2013
Durata: 105'




La trama (con parole mie): Mark Donaka, miliardario appassionato di scontri di arti marziali e di violenza, finanzia un campione al quale chiede di difendere la propria vita contro sfidanti sempre più forti vendendo il tutto come un prodotto per un'elite annoiata di uomini ricchi ed influenti come lui. Scoperto per caso nel corso di un torneo l'aspirante Maestro di Tai Chi Tiger Chen, Donaka decide di farne il nuovo volto del suo personale giocattolo, spingendolo sempre di più verso il lato oscuro grazie a soldi, sicurezza e combattimento: Tiger, influenzato anche dalle necessità del suo Maestro e dalla situazione economica del tempio che lo ospita, finisce dunque per lasciarsi coinvolgere sempre di più nel nuovo ruolo di simbolo di questo circolo di lotta segreto, sconfiggendo uno sfidante dopo l'altro.
Quando, però, la parte "malvagia" del suo Tai Chi e del suo carattere viene a galla, Tiger scoprirà che il nemico più temibile con il quale dovrà confrontarsi sarà se stesso.








I film di botte - specialmente quelli di arti marziali - sono stati uno dei pilastri della mia formazione di tamarro e cinefilo, per quanto le due cose possano - solo superficialmente - apparire clamorosamente spaiate: con il passare degli anni - e soprattutto, lasciato alle spalle il periodo radical chic della mia esistenza di spettatore -, ho rivalutato questo tipo di prodotti godendomi sia le parentesi più autoriali del genere - The Raid e The Raid 2 su tutte -, i classici intramontabili - Kickboxer o Senza esclusione di colpi - e le nuove chicche figlie del credo dei calci rotanti come questo Man of Tai Chi, pellicola interpretata e soprattutto girata da un Keanu Reeves nell'insolita veste del villain che mescola atmosfere ed un cast interamente orientali ad una produzione tipicamente figlia del larger than life a stelle e strisce.
Il risultato è stato clamorosamente ben inquadrato da Julez nel corso della visione, grazie ad uno dei commenti più illuminati che si potessero esprimere rispetto al Cinema di botte: "i film di questo tipo sono come i porno: una storia risibile e raccordi che speri finiscano il più presto possibile per vedere il combattimento successivo".
Probabilmente neppure con una benedizione di Jean Claude Van Damme in persona sarei riuscito a definire meglio il tripudio di goduria che è, di fatto, questo tipo di prodotto, nato per esigenze principalmente ludiche, impreziosito dalle esibizioni dei talenti messi in campo - sorprendente il pur ridicolo, almeno nella capigliatura, Tiger Chen, e da urlo per gli appassionati il pur breve confronto con l'Iko Uwais dei due già citati The Raid nel finale, così come il duello con lo stesso Reaves, che sfoggia un parco mosse decisamente tosto per un attore ormai cinquantenne, per quanto invecchiato bene come lui - e certamente subordinato a sceneggiature che non hanno il dovere di mostrarsi rispettose di logica ed affini.
Nonostante l'ovvia pochezza dello script, comunque, Man of Tai Chi non disdegna di mescolare nel suo cocktail anche una certa ricerca di approfondimento legata al confronto con il "Lato oscuro" del protagonista, sfruttato alla grande anche rispetto alla scelta dei Tai Chi, da sempre disciplina più legata alla meditazione ed all'esibizione che non al combattimento vero e proprio: il percorso di Tiger, conquistato progressivamente dalla possibilità di sfogarsi e liberare tutte le sue energie in battaglia ed avere dai risultati un riscontro in termini di fama e denaro che nella vita di tutti i giorni non ha mai potuto assaporare risulta quantomeno interessante, e seppur clamorosamente derivativa - qualcuno ha detto Guerre Stellari!? - la questione legata al "Lato Oscuro della Forza" è da sempre una tematica che tocca ognuno di noi, in misura più o meno sentita.
Se, però, il meccanismo legato alla corruzione dell'anima del "campione del Bene" trova un senso, ne ha meno l'intera parte legata alle indagini della polizia su Donaka - che paiono effettivamente un riempitivo sfruttato per evitare un minutaggio eccessivamente basso -, colpevole con i suoi non sempre interessanti sviluppi di togliere minuti preziosi alle esibizioni non solo del main charachter in battaglia, ma anche dei numerosi e decisamente differenti - per stile e fisicità - combattenti chiamati a raccolta da Keanu Reeves.
Probabilmente, se si fosse spinto maggiormente sulla componente tournament in pieno stile Mortal Kombat, Tekken o Senza esclusione di colpi i fan hardcore di questi prodotti avrebbero potuto quasi gridare al miracolo, mentre il risultato è "solo" quello di un prodotto che stimola l'amarcord di chi, per l'appunto, con tutto quello che è esistito da Bruce Lee in avanti è cresciuto.
Un plauso, ad ogni modo, al coraggio del buon, vecchio Keanu ci sta tutto: un esperimento di questo genere, infatti, non sarebbe stato da tutti, ed averlo proposto significa quantomeno che il protagonista del recente - e spassosissimo - John Wick adora i film di arti marziali e botte almeno quanto il sottoscritto.
E dunque, qui al Saloon c'è una serata offerta dalla casa per ubriacarsi allo sfinimento che porta già il suo nome.




MrFord




"Fear of the dark,fear of the dark
I have constant fear that something's always near
fear of the dark,fear of the dark
I have a phobia that someone's always there."
Iron Maiden - "Fear of the dark" - 






lunedì 11 agosto 2014

Merantau

Regia: Gareth Evans
Origine: UK, Indonesia
Anno: 2009
Durata: 134'





La trama (con parole mie): Yuda, giovane indonesiano cresciuto in campagna e divenuto con gli anni un maestro di Silat, arte marziale locale, intraprende lasciando la famiglia e trasferendosi senza nulla a Jakarta il percorso del Merantau, che dovrebbe traghettarlo dalla giovinezza all'età adulta.
Spinto dal sogno di aprire una scuola proprio di Silat, Yuda vaga i primi giorni per le strade della città imbattendosi in Astri e nel suo fratellino Adit, che vivono di espedienti come meglio possono.
Quando alcuni misteriosi trafficanti di esseri umani europei stringono un accordo con il padrone del club dove Astri si esibisce che prevede il traffico di alcune ragazze - Astri compresa - Yuda si mette in gioco per difendere i suoi unici amici, quasi una famiglia per le strade di quel luogo violento e sconosciuto.
La lotta contro i trafficanti ed i loro uomini sancirà la crescita che Yuda cercava e la consacrazione del suo Merantau: ma a quale prezzo?







Chi bazzica il Saloon da un pò di tempo, sa bene del debole che il sottoscritto nutre per i film di botte in generale, complice una formazione infantile a suon di Stallone, Schwarzy, Van Damme e chi più ne ha, più ne metta - mi piacerebbe che qualcuno tra voi ricordasse anche Don "The Dragon" Wilson, in quest'ambito -: tolto l'esperimento più che riuscito degli Expendables, però, gli Anni Zero non hanno fornito particolari emozioni - purtroppo - in quest'ambito, se non grazie ad autentici lampi come il secondo e il terzo capitolo di Undisputed e The Raid - Redemption, probabilmente l'action movie definitivo parlando di sequenze al limite dell'impossibile e concentrazione di tematiche note a tutti i fan di questo tipo di Cinema dai tempi di Bruce Lee in poi.
Prima che potesse lasciare a bocca aperta il pubblico in tutto il mondo, però, Gareth Evans era "solo" un ragazzone gallese trapiantato in Oriente dalla grandissima tecnica ma ancora grezzo, di quelli che devono farsi le ossa prima del definitivo salto di qualità e della consacrazione - sacrosanta -: Merantau è l'espressione proprio di questo.
Iko Uwais, che sarà protagonista anche dei lavori successivi del regista, asso del Silat - arte marziale indonesiana - e viso che ricorda quello degli sfigati e degli outsiders della mitologia dei film di botte anni ottanta, presta benissimo fisicità a Yuda, candido eroe positivo che, nei meandri di una Jakarta fotografata alla grandissima - tanto da ricordare il successivo Solo dio perdona -, finisce per trasformare l'esperienza del suo passaggio all'età adulta in uno scontro all'ultimo sangue con una banda di trafficanti di donne pronta a concentrare le sue attenzioni sulla sorella di un bambino che vive di espedienti fin dal primo incontro e, di fatto, spalla dello stesso protagonista.
Senza dubbio siamo di fronte ad un prodotto nettamente inferiore a quello che diverrà lo standard di Evans, decisamente troppo lungo, doppiato malissimo nella versione italiana - agghiacciante soprattutto la resa di Astri, per non parlare dell'adattamento - e scritto neanche fosse una sorta di soap televisiva condita di botte da orbi: eppure la classe dell'uomo dietro la macchina da presa ed il suo talento, così come l'occhio per le coreografie pressochè perfette degli scontri - bellissimo quello sul cavalcavia - sono evidenti, e insieme alla già citata fotografia da urlo e al destino di Yuda - per una volta almeno in parte differente da quello dei classici eroi positivi - contribuiscono a rendere comunque e a suo modo interessante la visione, almeno per chi, con il tempo, ha imparato ad adorare il lavoro del buon Gareth, che sfoggia un piglio assolutamente da "Far East" neanche fosse più orientale degli orientali stessi.
I radical chic di ogni taglio e colore, comunque - tradotto in termini di uso comune, Cannibal Kid e soci -, farebbero meglio ad astenersi almeno quanto i non avvezzi al genere, che potrebbero trovare quella che, di fatto, è stata la palestra di Evans un vero e proprio polpettone di dubbio gusto all'interno del quale si alternano legnate da record ed atmosfere al limite della fiction televisiva sentimental-drammatica: Merantau è stato il Merantau del regista, e proprio per questo è un prodotto destinato principalmente ai suoi fan, magari in modo da sfruttarlo come antipasto per il recente e clamoroso The Raid 2, o come un contenuto extra da bluray o dvd.
E se anche doveste annoiarvi un pò, tra un pestaggio e l'altro, fatevi forza: bastano un paio di colpi ben assestati per far tornare pericolosamente alto il livello dell'attenzione.
E dell'esaltazione che il genere garantisce.



MrFord




"I told 'em all where to stick it
I left town with a dime to my name
I said, I'm done with all of my fake friends
self-righteous pawns in a losing game."
Paramore - "Grow up" - 



lunedì 21 luglio 2014

The Raid 2 - Berandal

Regia: Gareth Evans
Origine: UK, Indonesia, USA
Anno: 2014
Durata:
150'





La trama (con parole mie): Rama, sopravvissuto a stento alla missione che lo vide affrontare uno dei boss locali di Jakarta e ritrovare suo fratello, viene reclutato da un ufficiale della polizia che lo vorrebbe come infiltrato per una missione ad altissimo rischio che ha come obiettivo quello di smascherare i dirigenti delle forze dell'ordine in accordo con i boss criminali della città ed assicurare alla Giustizia - in un modo o nell'altro - gli stessi boss.
Rama, inizialmente refrattario all'idea, accetta convinto dalla promessa di una protezione per sua moglie e suo figlio garantita dalla polizia e per vendicare il fratello, nel frattempo ucciso da uno degli astri nascenti della criminalità di Jakarta.
Incarcerato sotto falso nome, il combattivo tutore dell'ordine dovrà trovare il modo di guadagnarsi la fiducia di Uco, figlio di uno dei più importanti padrini della malavita, e partire proprio da lui per cominciare a costruire la vittoria ed il completamento della missione stessa: peccato che la strada sarà lastricata di cadaveri e continui cambi di prospettiva.






Si può dire che fosse dai tempi del magnifico The Raid - Redemption, che i fan in tutto il mondo di Gareth Evans e del Cinema di botte ed action attendevano il secondo capitolo delle avventure di Rama: io stesso, dopo essere rimasto a bocca aperta di fronte al meraviglioso sfoggio di tecnica e di sprezzo del pericolo degli stuntmen nella prima pellicola, non vedevo l'ora di potermi mettere comodo e tuffarmi nell'allora solo annunciato The Raid 2.
In questi casi, la prima domanda è sempre la stessa: il regista sarà stato in grado di mantenere il livello della sua opera o la stessa sarà crollata miseramente sotto il suo stesso peso?
E subito dopo: il talento sarà all'altezza delle ambizioni?
Nel caso di questo titolo in particolare, la risposta è senza dubbio sì.
Non che il lavoro di Evans sia privo di difetti - soprattutto in fase di scrittura, considerato che le coreografie degli scontri, la fotografia, il montaggio e l'eleganza dei movimenti di macchina sono indiscutibili -, o che non si senta la mancanza della naturalezza del primo film, decisamente meno pretenzioso e più pane e salame, ma questo Berandal rappresenta, di fatto, uno di quei pugni nello stomaco in grado di trascendere un genere e renderlo oggetto di culto, mescolando la perizia di un Michael Mann al gusto per l'eccesso che le arti marziali e l'approccio orientale - benchè l'uomo dietro la macchina da presa sia un ragazzone gallese di nascita - hanno fatto loro fin dagli esordi, in Occidente e non.
Due ore e mezza di furia raccontata con un gusto estetico da fotografo d'elite, come se la pittura delle gallerie d'arte d'alto bordo incontrasse le nocche consumate a furia di pugni delle palestre di strada: la seconda impresa di Rama - un grandissimo Iko Uwais, già protagonista del capitolo precedente e dell'esordio del regista Merantau - riesce nell'impresa di ricordare ad un tempo le epopee di Bruce Lee e di tutti i suoi emuli - non solo orientali, si pensi a Van Damme - e la magia poetica di un Johnnie To, con quel gusto crepuscolare ripreso di recente anche da Refn in Solo dio perdona.
Lo script - certamente non il punto forte della pellicola - recupera a piene mani da tutta la mitologia dell'infiltrazione poliziesca, da Infernal affairs a I padroni della notte, mentre le parti dedicate alla lotta sono tra le migliori mai girate, dallo scontro a partire dal bagno del carcere con protagonista Rama all'inseguimento in macchina, senza contare il duello che precede l'epilogo - davvero degno di rivaleggiare con quello che chiuse Redemption - e soprattutto la prodigiosa sequenza con al centro la figura del sicario Prakoso, tradito dalla sua organizzazione e lasciato in balìa di un'orda di avversari decisi a fargli la pelle: il percorso che dal locale porta lo scatenato Yayan Ruhian - già interprete dell'indimenticabile Mad Dog nel film precedente - sulla strada è vera e propria poesia del Cinema di botte, una lezione indimenticabile con la quale tutti i titoli che usciranno da qui in avanti dovranno, volenti o nolenti, confrontarsi se vorranno assurgere al ruolo di cult.
Devo comunque ammettere che, personalmente e nonostante il livello di esaltazione assoluto provato nel corso di questa visione dal primo minuto alla strepitosa chiusura - non vedo già l'ora del terzo capitolo -, il mio cuore è e resta con The Raid - Redemption, un prodotto forse più grezzo eppure privo di quell'aura di autorialità a tutti i costi cercata - giustamente, considerato il talento visivo - da Evans per questo Berandal.
Senza dubbio, il buon Gareth è riuscito a rompere ogni schema e confine che divideva questo tipo di Cinema e proposte dall'Occidente tamarro e dozzinale all'Oriente esagerato e dalla profonda malinconia - si pensi a tutta la prima produzione di John Woo, o allo stesso e già citato Bruce Lee -: per un figlio della nostra cultura, già questo è sinonimo di un successo senza precedenti, reso ancora più clamoroso dalle evoluzioni che Uwais e tutti gli atleti, attori e comparse riescono a fornire per la gioa del pubblico in quest'occasione.
The Raid 2 è una nuova pietra miliare per il suo genere, e forse non solo.
Di fatto, è come se fosse iniziato un nuovo, strepitoso e senza confini geografici capitolo della Storia dell'action dalle ripercussioni enormi sulla settima arte intera: uno tsunami venuto dall'Estremo Oriente a suon di calci, pugni e colpi proibiti - con ogni tipo di arma ed oggetto - orchestrato da un direttore decisamente unico, venuto dalle brughiere di un Galles che con Jakarta pare non avere nulla a che fare.
Evidentamente, a volte, si sbaglia.
Qui non contano geografia o cultura.
Conta il Cinema.
E The Raid 2 - Berandal è senza dubbio grande Cinema.



MrFord



"Mother Nature's quite a Lady
but you're the one I need
flesh and blood need flesh and blood
and you're the one I need."
Johnny Cash - "Flesh and blood" - 



giovedì 12 luglio 2012

The raid - Redemption

Regia: Gareth Evans
Origine: Indonesia/Usa
Anno: 2011
Durata: 101'




La trama (con parole mie): una squadra Swat agli ordini del sergente Jaka viene guidata da un tenente della polizia all'interno del palazzo che funge da base operativa di un pericolosissimo boss della droga, asserragliato nella fortezza urbana e protetto dai suoi uomini e dagli occupanti dello stesso edificio.
Una volta entrati e messi allo scoperto, gli uomini delle forze dell'ordine scopriranno di essere soli e allo sbaraglio, complici la corruzione del tenente e la potenza dell'organizzazione criminale: Rama, esperto di arti marziali con una moglie in procinto di partorire a casa ad attenderlo, dovrà lottare fino allo stremo per sopravvivere, tornare dalla sua famiglia e riuscire a rintracciare il fratello, divenuto uno degli uomini di fiducia del boss.



Negli ultimi tempi, in rete, è rimbalzata come un'eco impazzita la voce di entusiasmi che riguardavano un nuovo supercult dell'azione in grado di lasciare gli spettatori a bocca aperta e settare uno standard come non capitava dai tempi di Die hard o dei classici delle legnate d'autore come I tre dell'Operazione Drago.
Inutile dire che, soprattutto dopo aver letto la recensione entusiastica del buon Frank Manila, l'aspettativa in proposito in casa Ford era assolutamente alle stelle: aspettativa che non è stata per nulla tradita, e che, anzi, è risultata rispettata in un crescendo che continua ad aumentare d'intensità con il passare dei giorni dalla visione, neanche ci trovassimo di fronte ad uno di quei film d'autore in grado di colpire dritti nel profondo e tornare a galla un pezzo per volta.
Questo principalmente perchè The raid - Redemption è un film d'autore di quelli in grado di trascendere il genere che più genere non si può di appartenenza, di sfoderare scene d'azione serratissime, di violenza inaudita e clamorosamente esaltanti per il pubblico abituato ai botte movies senza dimenticare di portare avanti - tra l'altro con una sobrietà decisamente d'essai - una serie di riflessioni che toccano la famiglia, il senso di appartenenza, la ricerca di un proprio posto nel mondo, il disagio sociale di alcuni paesi governati all'interno da boss del crimine in grado di tenere in pugno le più alte sfere del governo e dei suoi organismi di controllo: una sorta di cocktail selvaggio dell'eredità di Bruce Lee mescolata a I guerrieri della notte, Distretto 13 e Nido di vespe, servito da un più che promettente Gareth Evans, che dirige e monta mantenendo altissimo il livello di adrenalina e riuscendo nell'impresa di ricordare Johnnie To nonostante il divario tecnico che separa il regista di Hong Kong dalla maggior parte dei comuni mortali.
Così, alla storia di Rama e del fratello perduto - finale perfetto, in pieno rispetto del melò che rese celebri pellicole come The killer - si mescolano la determinazione di Jaka ed il quotidiano dell'inquilino con la moglie malata, intruso in un palazzo che pare un enorme alveare popolato da tagliagole, trafficanti di droga, assassini e quanto di più selvaggio si possa pensare possa annidarsi nella giungla urbana: e al ritmo di una colonna sonora in grado di ricordarmi l'utilizzo di Battle without honor or humanity di Tomoyasu Hotei in Kill Bill l'azione assume proporzioni quasi epiche per l'intensità messa in campo da attori e stuntmen, protagonisti di alcune sequenze davvero clamorose - in particolare, ho ancora davanti agli occhi il volo di uno degli assalitori di Rama e compagni che, lanciato attraverso la tromba delle scale, si rigira e finisce di schiena contro la base del balcone al piano sottostante: pauroso solo al pensiero - e duelli incredibili - quello di Jaka opposto al pazzo braccio destro del boss, che lo stesso riesce a replicare aumentando ulteriormente l'intensità nella lotta che lo vede opposto a Rama e al fratello -.
Come se tutto questo non bastasse - e, vi assicuro, basta eccome, divenendo un circo all'interno del quale i protagonisti lottano per la propria sopravvivenza in grado di conquistare i veterani dell'action così come il pubblico non avvezzo al genere ma ugualmente trascinato dall'energia dirompente della pellicola -, il confronto tra i due fratelli, anime delle fazioni opposte, è uno tra i più interessanti giunto sul grande schermo nel passato recente, raccontato con grande profondità ed ugualmente mai eccessivo trasporto o retorica di grana grossa: quel botta e risposta sul cambio d'abito rifiutato perchè la divisa "calza a pennello" visto da entrambi i lati del confine dato da un cancello che si apre e si chiude sull'inferno del palazzo obiettivo della missione della squadra swat è già di diritto un piccolo cult, reso ancora più potente dal rinnovato legame dei futuri padre e zio e divenuto, di fatto, il simbolo di qualcosa in grado di andare ben oltre la lotta,il sangue, le morti, il concetto stesso di polizia e crimine.
Il legame tra due individui in grado di proteggere le persone che stanno loro accanto, anche se solo ed esclusivamente nel proprio mondo: ad ognuno il suo vestito, il suo destino, la sua via verso la conquista o la libertà.
Ad ognuno il suo, senza alcun bisogno di spiegare.
Il bello di essere fratelli.
Sempre, nonostante tutto.
Fino alla fine.


MrFord


"We the people fight for our existence
we don't claim to be perfect but we're free
we dream our dreams alone with no resistance
fading like the stars we wish to be
you know I didn't mean what I just said
but my God woke up on the wrong side of his bed
and it just don't matter now."
Oasis - "Little by little" -


Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...