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sabato 30 maggio 2015

Lo chiamavano Trinità

Regia: E. B. Clutcher (Enzo Barboni)
Origine: Italia
Anno: 1970
Durata: 113'





La trama (con parole mie): Trinità, un vagabondo dall'indole pigra nonchè pistolero infallibile soprannominato "La mano destra del Diavolo", dopo aver sistemato un paio di cacciatori di taglie senza scrupoli e preso con sè il loro prigioniero, finisce nella città di frontiera in cui suo fratello, Bambino, burbero e forzuto, altrettanto abile con la sei colpi e detto "La mano sinistra del Diavolo", esercita la professione di Sceriffo.
In realtà proprio Bambino ha usurpato il ruolo dell'ufficiale nominato in modo da poter organizzare un colpo ai danni di un signorotto del posto, padrone di una mandria di cavalli smisurata momentaneamente ferma oltre il confine messicano e non marchiata.
Con l'arrivo di Trinità e le vessazioni che gli uomini del suddetto Maggiore operano ai danni di una comunità di mormoni stabilitasi in una valle ricca di risorse naturali appena fuori dalla città, tutti i piani saltano: i due fratelli, loro malgrado, dovranno dunque fare fronte comune per raddrizzare i torti e ripristinare l'ordine.










Frugando tra i miei primi ricordi di spettatore di film, una delle immagini ricorrenti che tornano a galla è quella di Bud Spencer e Terence Hill, mitici interpreti del filone grottesco che rese noto in tutto il mondo il Cinema "basso" all'italiana a partire dagli anni settanta e li vide protagonisti di pellicole che ancora oggi non solo guardo con affetto, ma mi godo senza pietà ad ogni passaggio in televisione o desiderio di rispolverare qualche dvd da troppo tempo a riposo nella libreria.
Certo, dovessi scegliere tra i due continuerò sempre a parteggiare per il burbero e mitico nelle scazzottate Bud, anche se l'atteggiamento del sottoscritto è certamente più simile a quello dello strafottente e più easy Terence: Lo chiamavano Trinità, in questo senso, non solo è la sintesi perfetta di quella che è stata la loro formula vincente, ma anche uno dei più grandi capisaldi della filosofia Spaghetti-Western, a metà tra il trash e l'artigianale, il Mito e le risate sopra le righe.
Ancora oggi, a distanza di poco meno di trent'anni dalla prima visione, in più di una sequenza mi sono ritrovato incapace di resistere di fronte alle gesta dei due curiosi eroi - una sorta di antesignani degli Hap e Leonard targati Lansdale -, ed anche nel pieno di una impegnativa sessione di gioco con il Fordino mi sono sentito trasportato di nuovo sul divano a casa di mio nonno, ridendo allo stesso modo di allora della strafottenza di Trinità e dei colpi alla base del collo di Bambino.
Se, a questo, si aggiungono l'ambientazione Western - anche se di stelle e strisce c'è davvero ben poco -, una colonna sonora assolutamente mitica ed una serie di confronti più che cult - il primo faccia a faccia con i banditi di Mezcal, nome geniale, è leggenda - il gioco è fatto: non sarà per tutti, molti radical storceranno il naso, altri si accorgeranno che, di fatto, il tempo per questo tipo di prodotti è inesorabilmente, indubbiamente e purtroppo passato, e se fossero riproposti ai giorni nostri risulterebbero quantomeno ridicoli, eppure il lavoro di Clutcher/Barboni funziona alla grande, e nei quasi cinquant'anni trascorsi dalla sua uscita in sala ha finito per influenzare decine e decine di titoli, Western e non, concepiti qui nella Terra dei cachi o ai quattro angoli del globo.
In casi come questo, in effetti, non dovrebbero essere post da normali recensioni a parlare, bensì ogni cazzotto rifilato dai due eroi di questa come di altre decine di avventure, pronti a raddrizzare i torti con il sorriso sulle labbra ed un appetito smodato - proprio da qui nacquero le celebri mangiate e scorpacciate di fagioli della premiata ditta Spencer&Hill -, ad apprezzare una bevuta, belle donne e sprezzo del pericolo almeno quanto il punzecchiarsi tipico del buddy movies: in effetti, se fosse possibile mettere in parole il suono di quei colpi, o la tranquillità quasi lebowskiana trasmessa dalla lettiga trascinata dal cavallo di Trinità, tutte queste parole, benchè omaggio ad un'epoca d'oro alla quale vorrò sempre bene, non servirebbero.
Resterebbe soltanto una dimensione d'amore per il Cinema, ed il piacere di ricordare i momenti in cui questo viaggio di Frontiera che continuo ad avere la fortuna, il piacere e l'onore di intraprendere ogni giorno è iniziato.
E sarà pure un piatto di fagioli da poco, ma esiste poco altro di così godurioso e nutriente.




MrFord




"He's the guy who's the talk of the town
with the restless gun.
Don't shoot broad out to fool him around
keeps the varmints on the run, boy-
keeps the varmints on the run.
You may think he's a sleepy tired guy
always takes his time."
Franco Micalizzi - "Lo chiamavano Trinità" -





lunedì 11 agosto 2014

Merantau

Regia: Gareth Evans
Origine: UK, Indonesia
Anno: 2009
Durata: 134'





La trama (con parole mie): Yuda, giovane indonesiano cresciuto in campagna e divenuto con gli anni un maestro di Silat, arte marziale locale, intraprende lasciando la famiglia e trasferendosi senza nulla a Jakarta il percorso del Merantau, che dovrebbe traghettarlo dalla giovinezza all'età adulta.
Spinto dal sogno di aprire una scuola proprio di Silat, Yuda vaga i primi giorni per le strade della città imbattendosi in Astri e nel suo fratellino Adit, che vivono di espedienti come meglio possono.
Quando alcuni misteriosi trafficanti di esseri umani europei stringono un accordo con il padrone del club dove Astri si esibisce che prevede il traffico di alcune ragazze - Astri compresa - Yuda si mette in gioco per difendere i suoi unici amici, quasi una famiglia per le strade di quel luogo violento e sconosciuto.
La lotta contro i trafficanti ed i loro uomini sancirà la crescita che Yuda cercava e la consacrazione del suo Merantau: ma a quale prezzo?







Chi bazzica il Saloon da un pò di tempo, sa bene del debole che il sottoscritto nutre per i film di botte in generale, complice una formazione infantile a suon di Stallone, Schwarzy, Van Damme e chi più ne ha, più ne metta - mi piacerebbe che qualcuno tra voi ricordasse anche Don "The Dragon" Wilson, in quest'ambito -: tolto l'esperimento più che riuscito degli Expendables, però, gli Anni Zero non hanno fornito particolari emozioni - purtroppo - in quest'ambito, se non grazie ad autentici lampi come il secondo e il terzo capitolo di Undisputed e The Raid - Redemption, probabilmente l'action movie definitivo parlando di sequenze al limite dell'impossibile e concentrazione di tematiche note a tutti i fan di questo tipo di Cinema dai tempi di Bruce Lee in poi.
Prima che potesse lasciare a bocca aperta il pubblico in tutto il mondo, però, Gareth Evans era "solo" un ragazzone gallese trapiantato in Oriente dalla grandissima tecnica ma ancora grezzo, di quelli che devono farsi le ossa prima del definitivo salto di qualità e della consacrazione - sacrosanta -: Merantau è l'espressione proprio di questo.
Iko Uwais, che sarà protagonista anche dei lavori successivi del regista, asso del Silat - arte marziale indonesiana - e viso che ricorda quello degli sfigati e degli outsiders della mitologia dei film di botte anni ottanta, presta benissimo fisicità a Yuda, candido eroe positivo che, nei meandri di una Jakarta fotografata alla grandissima - tanto da ricordare il successivo Solo dio perdona -, finisce per trasformare l'esperienza del suo passaggio all'età adulta in uno scontro all'ultimo sangue con una banda di trafficanti di donne pronta a concentrare le sue attenzioni sulla sorella di un bambino che vive di espedienti fin dal primo incontro e, di fatto, spalla dello stesso protagonista.
Senza dubbio siamo di fronte ad un prodotto nettamente inferiore a quello che diverrà lo standard di Evans, decisamente troppo lungo, doppiato malissimo nella versione italiana - agghiacciante soprattutto la resa di Astri, per non parlare dell'adattamento - e scritto neanche fosse una sorta di soap televisiva condita di botte da orbi: eppure la classe dell'uomo dietro la macchina da presa ed il suo talento, così come l'occhio per le coreografie pressochè perfette degli scontri - bellissimo quello sul cavalcavia - sono evidenti, e insieme alla già citata fotografia da urlo e al destino di Yuda - per una volta almeno in parte differente da quello dei classici eroi positivi - contribuiscono a rendere comunque e a suo modo interessante la visione, almeno per chi, con il tempo, ha imparato ad adorare il lavoro del buon Gareth, che sfoggia un piglio assolutamente da "Far East" neanche fosse più orientale degli orientali stessi.
I radical chic di ogni taglio e colore, comunque - tradotto in termini di uso comune, Cannibal Kid e soci -, farebbero meglio ad astenersi almeno quanto i non avvezzi al genere, che potrebbero trovare quella che, di fatto, è stata la palestra di Evans un vero e proprio polpettone di dubbio gusto all'interno del quale si alternano legnate da record ed atmosfere al limite della fiction televisiva sentimental-drammatica: Merantau è stato il Merantau del regista, e proprio per questo è un prodotto destinato principalmente ai suoi fan, magari in modo da sfruttarlo come antipasto per il recente e clamoroso The Raid 2, o come un contenuto extra da bluray o dvd.
E se anche doveste annoiarvi un pò, tra un pestaggio e l'altro, fatevi forza: bastano un paio di colpi ben assestati per far tornare pericolosamente alto il livello dell'attenzione.
E dell'esaltazione che il genere garantisce.



MrFord




"I told 'em all where to stick it
I left town with a dime to my name
I said, I'm done with all of my fake friends
self-righteous pawns in a losing game."
Paramore - "Grow up" - 



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