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martedì 6 marzo 2018

Oscars 2018: la forma dell'Academy



Si è chiusa dunque la novantesima edizione della Festa per eccellenza del mondo del Cinema, la notte degli Oscar, premi decisamente pop ma in grado di dare la gloria ai loro vincitori, meritati o no che siano: probabilmente quella appena trascorsa verrà ricordata come una delle più prevedibili, considerato che quasi tutti quelli che erano dati per vincitori alla vigilia hanno alla fine portato a casa la statuetta, e forse, proprio per questo, non sono neppure così deluso.
Resta giusto l'interrogativo sul perchè un film già visto e melenso come La forma dell'acqua abbia ottenuto un successo così clamoroso.




Miglior film

Academy: La forma dell'acqua
Ford: Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Vincitore: La forma dell'acqua

Pronosticabilissima statuetta per quello che, insieme a The Post - pur se per diverse ragioni - consideravo il film peggiore della decina. Delusione talmente telefonata che quasi non mi ha infastidito.

 

Migliore regia

  • Paul Thomas Anderson - Il filo nascosto
  • Guillermo del Toro - La forma dell'acqua - The Shape of Water
  • Greta Gerwig - Lady Bird
  • Christopher Nolan - Dunkirk
  • Jordan Peele - Scappa - Get Out 
Academy: Guillermo Del Toro
Ford: Paul Thomas Anderson





Vincitore: Guillermo Del Toro



Copia incolla del discorso fatto per il film. Secondo pronostico azzeccato e seconda delusione talmente attesa da non fare neppure male.

 

Migliore attore protagonista

  • Timothée Chalamet - Chiamami col tuo nome
  • Daniel Day-Lewis - Il filo nascosto
  • Daniel Kaluuya - Scappa - Get Out
  • Gary Oldman - L'ora più buia
  • Denzel Washington - Roman J. Israel, Esq.
Academy: Gary Oldman
Ford: Timothée Chalamet

Vincitore: Gary Oldman

Tre su tre. Praticamente devo fare l'oracolo dell'Academy. Bravissimo Oldman, niente da dire, ma come spesso accade coraggio zero dell'Academy.


 

Migliore attrice protagonista

  • Sally Hawkins - La forma dell'acqua - The Shape of Water
  • Frances McDormand - Tre manifesti a Ebbing, Missouri
  • Margot Robbie - Tonya
  • Saoirse Ronan - Lady Bird
  • Meryl Streep - The Post
Academy: Frances McDormand
Ford: Margot Robbie

Vincitrice: Frances McDormand

Sarò stato io troppo acuto o l'Academy troppo scontata!? La McDormand bravissima, ma anche qui, poco coraggio nel non tentare la strada "giovane".

 

Migliore attore non protagonista

  • Willem Dafoe - Un sogno chiamato Florida
  • Woody Harrelson - Tre manifesti a Ebbing, Missouri
  • Richard Jenkins - La forma dell'acqua - The Shape of Water
  • Christopher Plummer - Tutti i soldi del mondo
  • Sam Rockwell - Tre manifesti a Ebbing, Missouri
Academy: Christopher Plummer
Ford: Sam Rockwell

Vincitore: Sam Rockwell

Una delle poche sorprese positive della serata. Se non altro, l'Academy non si mostra ipocrita come temevo. Bravo Sam.


Migliore attrice non protagonista

  • Mary J. Blige - Mudbound
  • Allison Janney - Tonya
  • Lesley Manville - Il filo nascosto
  • Laurie Metcalf - Lady Bird
  • Octavia Spencer - La forma dell'acqua - The Shape of Water
Academy: Allison Janney
Ford: Laurie Metcalf

Vincitrice: Allison Janney 

Una delle "non sorprese" che ho gradito di più. Bravissima davvero la Janney, premio tra i più meritati per un film che avrebbe dovuto raccogliere decisamente di più.


Migliore sceneggiatura originale

  • Guillermo del Toro e Vanessa Taylor - La forma dell'acqua - The Shape of Water
  • Greta Gerwig - Lady Bird
  • Emily V. Gordon e Kumail Nanjiani - The Big Sick - Il matrimonio si può evitare... l'amore no
  • Martin McDonagh - Tre manifesti a Ebbing, Missouri
  • Jordan Peele - Scappa - Get Out
Academy: Guillermo Del Toro
Ford: Martin McDonagh

Vincitore: Jordan Peele

L'Oscar che, credo, nessuno si sarebbe aspettato. Peccato che sia anche forse uno dei meno meritati.

 

Migliore sceneggiatura non originale

  • Scott Frank, James Mangold e Michael Green - Logan - The Wolverine
  • James Ivory - Chiamami col tuo nome
  • Scott Neustadter e Michael H. Weber - The Disaster Artist
  • Dee Rees e Virgil Williams - Mudbound
  • Aaron Sorkin - Molly's Game
Academy: James Ivory
Ford: Aaron Sorkin

Vincitore: James Ivory

Contento per Ivory e soprattutto per Chiamami col tuo nome, ma sinceramente avrei preferito di gran lunga un riconoscimento a Sorkin e il premio come miglior film a Guadagnino.


Miglior film straniero

  • Corpo e anima, regia di Ildikó Enyedi (Ungheria)
  • Una donna fantastica, regia di Sebastián Lelio (Cile)
  • L'insulto, regia di Ziad Doueiri (Libano)
  • Loveless, regia di Andrej Zvjagincev (Russia)
  • The Square, regia di Ruben Östlund (Svezia)    
Academy: Una donna fantastica
Ford: L'insulto

Vincitore: Una donna fantastica

Non ne ho ancora visto neppure uno, ma anche in questo caso, sono riuscito tranquillamente a prevedere la prevedibile Academy.


Miglior film d'animazione

  • Baby Boss (The Boss Baby), regia di Tom McGrath
  • The Breadwinner, regia di Nora Twomey
  • Coco, regia di Lee Unkrich e Adrian Molina
  • Ferdinand, regia di Carlos Saldanha
  • Loving Vincent, regia di Dorota Kobiela e Hugh Welchman
Academy: Coco
Ford: Coco


Vincitore: Coco

I radical rosicano per il mancato premio a Loving Vincent e poi esultano per Del Toro, che ha portato sullo schermo una versione dark neppure tanto bella del più prevedibile film Disney.
Io, intanto, mi godo Coco.


Migliore fotografia

  • Roger A. Deakins - Blade Runner 2049
  • Bruno Delbonnel - L'ora più buia
  • Hoyte Van Hoytema - Dunkirk
  • Rachel Morrison - Mudbound
  • Dan Laustsen - La forma dell'acqua - The Shape of Water
Academy: La forma dell'acqua
Ford: Blade Runner 2049 

Vincitore: Blade Runner 2049 


Miglior montaggio

  • Jon Gregory - Tre manifesti a Ebbing, Missouri 
  • Paul Machliss e Jonathan Amos - Baby Driver - Il genio della fuga
  • Tatiana S. Riegel - Tonya
  • Lee Smith - Dunkirk
  • Sidney Wolinsky - La forma dell'acqua - The Shape of Water
Academy: Dunkirk
Ford: Tonya

Vincitore: Dunkirk 


Migliore scenografia

  • Paul Denham Austerberry, Shane Vieau e Jeff Melvin - La forma dell'acqua - The Shape of Water
  • Nathan Crowley e Gary Fettis - Dunkirk
  • Dennis Gassner e Alessandra Querzola - Blade Runner 2049
  • Sarah Greenwood e Katie Spencer - La bella e la bestia
  • Sarah Greenwood e Katie Spencer - L'ora più buia
Academy: La forma dell'acqua
Ford: Blade Runner 2049

Vincitore: La forma dell'acqua


Migliore colonna sonora

  • Carter Burwell - Tre manifesti a Ebbing, Missouri
  • Alexandre Desplat - La forma dell'acqua - The Shape of Water
  • Jonny Greenwood - Il filo nascosto
  • John Williams - Star Wars: Gli ultimi Jedi
  • Hans Zimmer - Dunkirk
Academy: La forma dell'acqua
Ford: Il filo nascosto

Vincitore: La forma dell'acqua 


Migliore canzone

  • Mighty River (musica e testi di Mary J. Blige, Raphael Saadiq e Taura Stinson) - Mudbound
  • Mystery of Love (musica e testi di Sufjan Stevens) - Chiamami col tuo nome
  • Remember Me (musica e testi di Kristen Anderson-Lopez e Robert Lopez) - Coco
  • Stand Up For Something (musica di Diane Warren, testi di Diane Warren e Lonnie Lynn) - Marcia per la libertà
  • This is Me (musica e testi di Benj Pasek e Justin Paul) - The Greatest Showman
Academy: The Greatest Showman
Ford: Chiamami col tuo nome

Vincitore: Coco 


Migliori effetti speciali

  • Joe Letteri, Daniel Barrett, Dan Lemmon e Joel Whist - The War - Il pianeta delle scimmie (War for the Planet of the Apes)
  • Ben Morris, Mike Mulholland, Neal Scanlan e Chris Corbould - Star Wars: Gli ultimi Jedi (Star Wars: The Last Jedi)
  • John Nelson, Gerd Nefzer, Paul Lambert e Richard R. Hoover - Blade Runner 2049
  • Stephen Rosenbaum, Jeff White, Scott Benza e Mike Meinardus - Kong: Skull Island
  • Christopher Townsend, Guy Williams, Jonathan Fawkner e Dan Sudick - Guardiani della Galassia Vol. 2 
Academy: Star Wars - Gli ultimi Jedi
Ford: Guardiani della Galassia Vol. 2

Vincitore: Blade Runner 2049 


Miglior sonoro

  • Ron Bartlett, Doug Hemphill e Mac Ruth - Blade Runner 2049
  • Christian Cooke, Brad Zoern e Glen Gauthier - La forma dell'acqua - The Shape of Water
  • David Parker, Michael Semanick, Ren Klyce e Stuart Wilson - Star Wars: Gli ultimi Jedi
  • Julian Slater, Tim Cavagin e Mary H. Ellis - Baby Driver - Il genio della fuga
  • Mark Weingarten, Gregg Landaker e Gary A. Rizzo - Dunkirk
Academy: La forma dell'acqua
Ford: Baby Driver - Il genio della fuga

Vincitore: Dunkirk 


Miglior montaggio sonoro

  • Richard King e Alex Gibson - Dunkirk
  • Mark Mangini e Theo Green - Blade Runner 2049
  • Nathan Robitaille e Nelson Ferreira - La forma dell'acqua - The Shape of Water
  • Julian Slater - Baby Driver - Il genio della fuga
  • Matthew Wood e Ren Klyce - Star Wars: Gli ultimi Jedi
Academy: La forma dell'acqua
Ford: Baby Driver - Il genio della fuga

Vincitore: Dunkirk 

Migliori costumi

  • Consolata Boyle - Vittoria e Abdul
  • Mark Bridges - Il filo nascosto
  • Jacqueline Durran - La bella e la bestia
  • Jacqueline Durran - L'ora più buia
  • Luis Sequeira - La forma dell'acqua - The Shape of Water
Academy: La forma dell'acqua
Ford: Il filo nascosto

Vincitore: Il filo nascosto 

Miglior trucco e acconciatura

  • Daniel Phillips e Lou Sheppard - Vittoria e Abdul
  • Arjen Tuiten - Wonder
  • Kazuhiro Tsuji, David Malinowski e Lucy Sibbick - L'ora più buia
Academy: L'ora più buia
Ford: L'ora più buia

Vincitore: L'ora più buia 


A conti fatti, credo sia stata l'edizione della Notte degli Oscar in cui ho avuto lo score più alto rispetto ai pronostici azzeccati. E non so se preoccuparmi più per me o per l'Academy.


MrFord



martedì 16 gennaio 2018

Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Martin McDonagh, UK/USA, 2017, 115')




In uno dei loro pezzi più noti ed apparentemente semplici, i Beatles cantavano "All you need is love".
Detta così, senza associarla ai Fab Four, parrebbe quasi una frasetta del cazzo da Baci Perugina, o romanzo rosa di dubbio gusto ed indubbia (bassa) qualità.
Ma come spesso accade, nella semplicità risiede qualcosa di talmente grande da mangiarsi tutto il resto, perfino quando il mondo attorno crolla pezzo dopo pezzo, e l'unica strada che pare possibile per lo stesso è quella di andare inesorabilmente a puttane, senza usare troppi giri di parole.
Ed è quella la direzione che pare aver preso la vita ad Ebbing, Missouri, uno di quei piccoli centri persi tra il nulla e l'addio eastwoodiani in cui tutti sanno tutto di tutti ed i peccati sono al contempo ben nascosti sotto i tappeti eppure alla mercè delle voci che danno buoni consigli non potendo più dare cattivo esempio: c'è un Capo della polizia che è il ritratto dell'uomo d'altri tempi, con un bel tumore al pancreas e non si capisce se troppa condiscendenza o troppo poco coraggio, il suo protetto che vive in bilico tra bullismo e razzismo, e per sfogare la rabbia di una vita ben al di sotto degli standard che i suoi fumetti probabilmente gli fanno sognare preferisce affogare il dolore nell'alcool o gettando pubblicitari falliti dalle finestre dopo averli pestati, un venditore di auto usate che cerca con il cuore, le bugie ed una strana e silenziosa determinazione a non essere visto sempre e solo come un nano, miserie umane e speranze più o meno in pezzi che s'infrangono, divampano, esplodono contro tre manifesti che cercano di portare a galla una verità terribile piuttosto che rimanere confinati nella tranquillità di un silenzio troppo pesante.
E poi c'è lei, Mildred.
Mildred che è una donna che ha dovuto farsi le ossa a fronte di un marito violento che esibisce una fidanzata che potrebbe essere la loro figlia morta, bruciata e violentata proprio sulla strada di quei manifesti, che lavora e non ha paura di dire quello che pensa e fare quello che vuole, che ha deciso, perduto l'amore, di sopravvivere grazie all'odio.
Perchè è quello, che resta in piedi nei posti persi tra il nulla e l'addio, le case polverose delle speranze infrante.
Quello che pompa il sangue nel cuore di Mildred, in quello di Dixon, che scorre sotto le strade di Ebbing, Missouri. Quello che si è portato via una ragazza nel peggiore dei modi, e che trascina da sotto i tappeti in cui vengono nascosti male i peccati tutto quello che di peggiore può rimanere dei peccati stessi, dal rancore alla paura. E di nuovo, all'odio.
Lo stesso che trasforma una risata o un momento talmente assurdo dall'essere divertente in una delle sequenze più disturbanti del passato recente, che apre vecchie ferite e si compiace nel cospargerle con il sale del rimorso e dei sensi di colpa, e trasforma qualsiasi confronto in una sorta di guerra.
Per chi in guerra ci è andato perdendo fin troppo della sua umanità, e per chi è rimasto, e combatte ancora più duramente tutti i giorni.
E proprio quando, come nella notte più buia, l'unica strada che pare possibie è quella di andare inesorabilmente a puttane, ecco che ritorna quella frase semplice semplice.
All you need is love.
Una cosa apparentemente banale che si porta dietro il segreto del mondo, anche quando pare non ci sia davvero un cazzo per cui anche solo sognare di essere felici, o lottare, o difendere.
Perchè, come scriveva Hesse, "Senza una madre non si può amare, senza una madre non si può morire", o come ricorda Willoughby a Dixon, "Non puoi essere un buon poliziotto senza amore".
L'amore ti da la dimensione di quello che vuoi proteggere, e la forza per dimostrare che anche le cose peggiori, a volte, possono prendere una direzione diversa da quella che si possa pensare.
Non è detto che possano comunque finire bene, o che da qualche parte l'odio non possa generare altro odio.
Ma chi è pronto a scommettere su quella semplice frase, ha senza dubbio spalle abbastanza larghe per sopportare il dolore e volontà abbastanza forte per iniziare un viaggio che possa portare oltre.
Quello che accadrà si potrà sempre decidere un passo dopo l'altro.



MrFord



martedì 19 febbraio 2013

Promised land

Regia: Gus Van Sant
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 106'



La trama (con parole mie): Steve Butler e Sue Thomason lavorano per un colosso della lavorazione dei gas naturali, e si occupano di "conquistare" le aree rurali ancora potenzialmente sfruttabili offrendo ai proprietari una percentuale - irrisoria - sui futuri milionari introiti senza alzare troppo la voce a proposito degli effetti che le trivellazioni possono avere rispetto all'equilibrio ambientale del luogo.
Steve è in rampa di lancio per un salto di qualità nella sua carriera, e pare che anche questo incarico si risolverà con un successo facile facile: ma l'intervento di un ex professore mette in crisi gli abitanti del piccolo centro, e l'arrivo di un ambientalista particolarmente deciso a mettere i bastoni tra le ruote ai due venditori complica ancor più le cose.
Riuscirà Steve a completare l'ennesima "missione" per la Global? O è forse giunto il momento per lui di aprire gli occhi?




Ricordo che vidi Will Hunting in sala, ai tempi dei tempi, in compagnia di due dei folli che riuscivano a sopportare la presenza del Ford adolescente senza dare troppi segni di squilibrio - in fondo, erano molto poco equilibrati anche loro -.
E ricordo quanto bene mi fece quel film apparentemente "minore" di Van Sant, un Autore di quelli con la a maiuscola che era già riuscito a conquistarmi con il magnifico Drugstore cowboy - ancora oggi, forse, la sua pellicola che preferisco -, pur non avendo ancora tutti gli strumenti e le esperienze per apprezzarlo fino in fondo.
A distanza di sedici anni - e quasi mi pare incredibile anche solo pensarlo - il regista di Louisville torna ad unire le forze con Matt Damon, protagonista e sceneggiatore allora come ora con questo Promised land che pare un fratello maggiore e più maturo proprio di Will Hunting, pur non avendo, a livello di storia, nulla in comune se non una sorta di progressivo e prevedibile riscatto emotivo del suo main charachter.
Curioso quanto la critica non stia accogliendo con particolare entusiasmo questo titolo che, per quanto telefonato possa apparire nella sua evoluzione, ha invece il grande merito non solo di unire l'autorialità sfrenata del buon Gus - e limarla in positivo -, il gusto per il Cinema indie e quello dei titoli conciliatori in grado di dialogare con il grande pubblico, ma soprattutto di fornire una fotografia assolutamente vivida di questi tempi di crisi che attanagliano l'ex mondo "da bere" occidentale creando una frattura tra le classi sociali e tra le grandi multinazionali del profitto e la realtà di provincia profonda come mai prima.
Esempi clamorosi e da brividi di questi opposti punti di vista sono proprio Steve e la sua collega Sue, il primo in rampa di lancio per una carriera brillante al soldo della Global e la seconda che vive come eminenza grigia del più giovane e di successo partner lavorativo: Steve che dalla presentazione di sé all'incontro con gli ostacoli che si materializzano nei volti dell'anziano professore in pensione e dell'ambientalista arrembante ha come prima preoccupazione quella di confermarsi come "una brava persona", mentre Sue porta avanti una filosofia certamente più realistica e funzionale ma che lascia scoperti nervi come il rapporto con il figlio o quello che potrebbe nascere con Rob, mitico negoziante locale che vende "chitarre e pistole" oltre a tutto il resto, e che viene riassunta dal quasi drammatico confronto finale tra i due e da quel "è solo un lavoro" che pesa come un macigno da qualunque parte lo si voglia guardare.
Perchè, almeno per quanto mi riguarda, Steve, Sue e tutti gli abitanti delle cittadine perdute tra il nulla e l'addio che visitano in cerca di nuovi, milionari affari - tristi e limitati uomini di provincia, gente di cuore o sognatori delusi in fuga dalle città soffocanti - non sono "solo un lavoro": ma del resto, il sottoscritto è sempre stato dell'idea che si debba lavorare per vivere, e non vivere per lavorare.
Certo, forse non ho mai trovato l'impiego dei sogni, o forse ho coscienza del fatto che non riuscirei a sacrificare le mie passioni per qualcosa che possa essere tradotto in un ruolo, una promozione o un titolo, eppure un film a tratti decisamente amaro come Promised land è riuscito a farmi guardare attorno con la testa un pò più alta, non fosse altro che per l'illusione di chi vuole credere che ogni tanto le cose possano andare diversamente, senza che valgano necessariamente le regole del profitto e dell'apparenza che rendono quel lavoro "solo un lavoro", passando sopra a tutto e a tutti, anche a se stessi.
Da esseri umani abbiamo già tanta merda da ingoiare, e come improvvisati cantanti mezzi sbronzi impegnati in una serata del dilettante lottiamo ogni giorno affinchè si possa trovare un senso nel nostro passaggio su quella grande palla di terra, e perdere tempo con qualcosa che finisce per soffocarci un pò di più è davvero un'inusitata violenza allo specchio.
Così, per una volta, lascio che mi conquisti la telefonata speranza di una Terra promessa che forse non sarà il Paradiso che tanti si aspettano, ma sarà il mio fottuto Paradiso, la porta aperta dalla proprietaria della mia felicità.
O, per dirla come potrebbe Van Sant, My own private Paradise.


MrFord


"The dogs on main street howl, 
'cause they understand, 
If I could take one moment into my hands 
Mister, I ain't a boy, no, I'm a man, 
And I believe in a promised land."

Bruce Springsteen - "Promised land" -



giovedì 6 dicembre 2012

Moonrise Kingdom

Regia: Wes Anderson
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 94'




La trama (con parole mie): siamo nel New England, nel cuore di un'isola piccola e fiabesca alla fine dell'estate del 1965. Sam e Suzy, due adolescenti innamoratisi praticamente a prima vista ed entrambi a loro modo isolati dal mondo - il primo è un orfano rifiutato anche dalla famiglia adottiva, la seconda è prigioniera all'interno di una casa in cui regnano una taciuta lontananza tra i genitori ed il dominio quasi incontrastato dei fratelli minori -, decidono di organizzare un piano e completare una fuga d'amore che li porti a scoprirsi a vicenda, giungendo per la prima volta a mettere il loro mondo interiore a disposizione di un altro.
La scomparsa dei due, però, provoca una sorta di crisi locale, così il funzionario di polizia del luogo, il Capitano Sharp, insieme ai genitori della ragazza, all'addetto alla posta Jed, al capo scout Ward e ai compagni di campo di Sam da inizio ad una ricerca a tappeto dei fuggitivi.
Il loro ritrovamento, però, sarà solo l'inizio di una nuova avventura, e chissà, anche di qualcosa di più grande.




Wes Anderson è uno di quei registi che ha tutte le caratteristiche buone per farmi incazzare: la cura maniacale per ogni dettaglio applicata ad un'estetica da nerd saputello, il tocco di un talento cristallino ingabbiato da una forma di altezzosità assolutamente irritante, tematiche profonde soffocate da una voglia incontrollabile di apparire cool: di conseguenza, ho sempre avuto un rapporto altalenante con il suo Cinema, e anche se l'unica vera delusione è stata Il treno per il Darjeeling, ho sempre guardato con sospetto al lavoro dell'autore de I Tenenbaum.
Moonrise kingdom, attesissimo dal sottoscritto dopo l'ottimo Fantastic Mr. Fox, giungeva in casa Ford spinto da recensioni entusiastiche lette in ogni dove - ebbene sì, anche dalle parti del mio antagonista Cannibale - e da un folgorante inizio giostrato alla perfezione dal regista ed in grado di unire il gusto per la fiaba ai carrelli laterali, la musica ai colori pastello, le suggestioni alle immagini.
Peccato che, nonostante le ottime premesse, la storia - e soprattutto, la via scelta dall'autore per raccontarla - prenda quasi subito la piega di una lezioncina leziosa che Mr. Anderson si prodiga a sviolinare a noi poveri cristi molto al di sotto delle sue straordinarie capacità dall'altra parte dello schermo: e non c'è cosa peggiore, soprattutto rispetto ad un film di formazione dalle tematiche assolutamente profonde e dalla messa in scena interessante, di un tono saccente e superiore come quello che trasmette questo lavoro.
Come se non bastasse, la storia di Sam e Suzy e la loro fuga d'amore e di maturazione ha risvegliato nel sottoscritto un paragone quasi immediato con uno dei film "per ragazzi" meglio realizzati degli ultimi dieci anni, quel Un ponte per Terabithia che mi lasciò senza parole e con il magone quando, ai tempi della sua uscita, lo affrontai con scetticismo e finì per strabiliarmi: dal punto di vista emozionale, Moonrise kingdom ricorda l'appena citata pellicola firmata da Gabor Csupo come se la stessa fosse stata anestetizzata, o tutti noi affrontassimo la visione con dei cuscini premuti fortissimo sulla faccia ad impedirci di esternare qualsiasi emozione.
Ho terminato la visione - tra l'altro, priva del ritmo e del mordente che dovrebbe conquistare il pubblico in un film d'avventura e ricerca, pur se interiore - assolutamente determinato a dedicare al buon Wes tutte le bottigliate che meriterebbe, quasi soddisfatto all'idea di scrivere un post che potesse sfogare tutta la delusione rispetto alla meraviglia provata in passato per i già citati Tenenbaum o Steve Zissou - per non parlare dello spreco di Bill Murray in una parte che non gli si addice neppure da lontano -.
Poi ho fatto un respiro profondo e ho pensato ai due protagonisti, al loro rapporto con il mondo esterno, sentendomi come uno degli scout pronti a vessare il povero Sam con il loro fare da bulli, ed ho avuto come un'illuminazione: non avrei trattato la pellicola di Anderson come i suoi due piccoli eroi non avrebbero voluto essere trattati a loro volta.
E ho ripensato a quanto dev'essere difficile, per quelli come loro - e il regista che li ha "creati" -, essere quello che sono senza rischiare qualche bottigliata a priori.
A quanto è difficile essere adolescenti e decisi, adolescenti e innamorati.
L'amore non è uno scherzo, ad ogni età: che sia legato ad una coppia, o dietro al rapporto tra genitori e figli - sempre al centro della poetica dell'autore -.
E se è vero che Moonrise kingdom è a suo modo spocchioso, algido, troppo perfettino per arrivare dritto al cuore di questo vecchio cowboy, è altrettanto indiscutibile non solo il suo valore artistico, ma anche la possibilità che merita di avere per comunicare ed aprirsi al mondo - e in qualche modo alla vita -.
Moonrise kingdom è come i due giovani viaggiatori che lo animano.
E ora che sto dall'altra parte della barricata, mi sento come Edward Norton, o Bruce Willis, che vorrebbero dare a Sam la possibilità che nessuno avrebbe voluto dargli.
E così, ad un film che mi ha irritato profondamente e fatto prudere le mani, convincendomi quanto fosse giusto bottigliarlo con tutte le forze, darò una possibilità di essere - e diventare - grande.
Perchè questo è quello che farebbe un padre.
Questo è quello che fa l'amore.
E di questo hanno bisogno Sam e Suzy.


MrFord


"Some folks might sa-ay that I'm no good
that I wouldn't settle down if I could
but when that open ro-oad starts to callin' me
there's somethin' o'er the hill that I gotta see
sometimes it's har-rd but you gotta understand
when the Lord made me, He made a Ra-amblin' Man."
Hank Williams - "Ramblin' man"- 


lunedì 31 ottobre 2011

This must be the place

Regia: Paolo Sorrentino
Origine: Italia, Irlanda, Usa
Anno: 2011
Durata: 118'



La trama (con parole mie): Cheyenne, una rockstar figlia degli anni del dark e della new wave, si è da tempo ritirata in una sorta di esilio dorato a Dublino, dove vive in compagnia della moglie e quasi galleggia, etereo, in bilico tra le passeggiate al centro commerciale con la giovane Mary e le partite di pelota con la compagna Jane, ancora turbato dal suicidio di due suoi giovani fan avvenuto vent'anni prima, causa principale del suo allontanarsi dal palcoscenico.
Quando suo padre muore, Cheyenne fa ritorno negli Stati Uniti ed inizia un viaggio che diviene iniziatico alla ricerca dell'uomo che, ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, fu carceriere del genitore dell'ex rockstar: lungo la strada farà degli incontri che porranno le basi per un cambiamento radicale della sua vita.



Questo dev'essere proprio l'anno delle delusioni.
Dopo Malick, Polanski, Almodovar e Cronenberg anche Paolo Sorrentino - il mio favorito, con Giorgio Diritti, nel panorama italiano attuale - confeziona un'opera tanto perfetta nella forma quanto profondamente svuotata di sostanza.
Nonostante una regia impeccabile, movimenti di macchina da capogiro, una colonna sonora da urlo firmata da David Byrne e Bonnie "Prince" Billy, la fotografia d'impatto di Luca Bigazzi e tutti i pregi - e i difetti - di una grande produzione internazionale patinatissima, la resa ed il lascito di quest'ultima opera del regista partenopeo manca della potenza emotiva che aveva caratterizzato tutto il suo Cinema precedente, in particolare i miei titoli favoriti L'uomo in più e lo splendido Il divo.
Certo, non siamo di fronte ad una pellicola completamente sbagliata, o incapace di affascinare: i momenti magici non mancano, sia dal punto di vista tecnico - la sequenza del concerto di David Byrne riesce a rendere tutta la carica che pensavo solo un "live" potesse trasmettere allo spettatore - che emotivo - il confronto tra il protagonista ed il figlio della cameriera Rachel proprio in merito alla canzone dei Talking heads che da titolo al film -, ed il fascino del road movie autoriale made in Usa pervade l'intera opera, mescolando abilmente il Wenders di Paris, Texas e i Coen di Arizona Junior, eppure proprio in questo suo essere artisticamente convenzionale l'opera di Sorrentino perde la freschezza se vogliamo casereccia che aveva sempre contraddistinto il suo lavoro, togliendo cuore a quella che è sempre stata una sorta di macchina perfetta.
Dalla sua This must be the place ha comunque un crescendo convincente che - pur se molto lentamente - cattura l'attenzione ed il cuore dello spettatore aprendolo ad una crescita simile a quella del suo protagonista, che nonostante l'età, l'apatia ed i rimorsi attraversa la pellicola neanche fosse un adolescente ancora alla ricerca di se stesso - per quanto lo stesso possa negarlo -, riuscendo, soprattutto con il finale, ad innescare una reazione sotterranea eppure dirompente a livello sentimentale, tracciando una linea nell'esistenza di Cheyenne e, in una certa misura, nella visione dello spettatore.
In questo senso, Sean Penn - che già tutti sapevamo essere un attore assolutamente dotato - incede e conquista con il passare dei minuti, anche se la sua interpretazione risulta essere talmente sopra le righe da sfiorare - soprattutto nella parte ambientata a Dublino - quella gigioneria da bottigliate tanto osteggiata in casa Ford: lo sbuffo sul ciuffo è un esempio perfetto.
Cosa resta, dunque, di This must be the place?
Sorrentino ha iniziato a percorrere l'inevitabile - o quasi - parabola discendente delle talentuose promesse non in grado di reggere la pressione delle ribalte importanti?
O ha soltanto cominciato a prendere le misure - come fu per Nolan con Insomnia - in modo da essere pronto al vero salto di qualità con il suo prossimo lavoro?
Di certo, rispetto agli altri registi citati all'inizio del post, in questo caso la delusione è stemperata dalla voglia dell'autore - che traspare anche nei momenti meno riusciti della pellicola - di raccontare e portare sullo schermo un percorso che pare sempre profondamente personale - anche quando le sbavature dello script si fanno notare, come in questo caso - e che, soprattutto, dopo una fase centrale a rischio di perdizione tutta citazioni, gente strana degli Usa da profonda e grottesca provincia ed un autoriale sensazione di deja-vù, riesce a riprendere il filo conduttore della narrazione regalando un ottima chiusura, quasi a dirci che il Sorrentino internazionale diventerà grande, ed il futuro che lo aspetta è nuovo e, in qualche modo, privo delle "zone d'ombra" di questo suo lavoro.
Io continuo a sperarci.
Anche perchè, se dovessi proprio fare il cinico, direi che se "this must be the place", sarebbe meglio che il buon Paolo torni dalle nostre parti, perchè "il luogo" a stelle e strisce non sembra proprio giovargli.

MrFord

"Home - is where I want to be
but I guess I'm already there
I come home she lifted up her wings
guess that this must be the place
I can't tell one from the other
did I find you, or you find me?
there was a time Before we were born
if someone asks, this where I'll be . . . where I'll be."
Talking heads - "This must be the place" -


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