La trama (con parole mie): per quanto possa sembrare assurdo, per un presunto duro ed Expendable come il sottoscritto, una serie di coincidenze curiose ha indirizzato la strada, per una due giorni decisamente particolare, del Saloon a Roma, dove ho preso parte alla prima puntata di Amici 2014 come chitarrista della band di Anastacia - e ho avuto modo di conoscere di persona Frank Manila -.
Ripensandoci ora, divertimento ed esperienza decisamente unica a parte, la sola lettura fa ridere anche me. Eppure è proprio vero.
La vita è decisamente curiosa, a volte.
Se qualche anno fa qualcuno mi avesse predetto che avrei preso parte - seppur in maniera decisamente marginale - ad una puntata di Amici avrei destinato una grassa risata alla stessa affermazione, liquidandola con il piglio arrogante del radical chic senza speranze.
Da allora, nella mia vita sono entrati Julez, il Fordino, il ritorno al panesalamismo, una serie di esperienze uniche ed un'evoluzione personale in grado di farmi accantonare tutto il risentimento e le prese di posizione di chi si arrocca tra i privilegi intellettuali e si difende - dagli altri e da se stesso - grazie alle medesime idee: eppure, una situazione di questo genere sarebbe stata in ogni caso fantascienza.
Fino a quando non ha cominciato a prendere forma.
E lo ha fatto grazie ad un viaggio in pieno stile gita, condito da racconti, aneddoti e grasse risate, stanchezza e Jack Daniels, tensione scacciata da attese eterne in camerino ed un approccio al pubblico live che rispetto al momento della visione in tv finisce addirittura per perdere, liberando un'emozione che non pensavo un menefreghista al mondo "dorato" del piccolo schermo della mia risma potesse provare.
E tutto, dai racconti alle sensazioni sulla pelle, fino alla cena a casa della suocera Ford - sempre perfetta ai fornelli e non solo - in attesa del momento "fatidico", finirà per diventare un ricordo che, con il filmato linkato poco sotto, spero possa apprezzare - anche in senso ironico -, un giorno, il Fordino, una volta cresciuto.
Non avevo idea di come avrei potuto presentare questo post, dall'occasione di avere Matthew McConaughey ad un metro di distanza - con tanto di applauso al termine dell'esibizione di Anastacia che pare un'approvazione anche al sottoscritto - all'esplorazione di un mondo praticamente circense come quello della televisione, così alla fine ho deciso di buttarmici al volo, in notturna, lasciando che fosse principalmente il momento di quell'emozione iniziata nell'istante in cui si è spalancato "il sipario", a parlare.
La trama (con parole mie): Joseph, un vedovo figlio della periferia estrema, della violenza e del rancore, dedito ad alcool e scatti d'ira, si rifugia nel negozio della devota Hannah, una donna legata ai principi cristiani che ha un background molto lontano - apparentemente - da quello rabbioso dell'uomo.
I due, nonostante le ferite infertesi reciprocamente ed eredità delle vite che li hanno condotti fino a quell'incontro, troveranno il modo di divenire l'uno la salvezza dell'altra, lottanto soli ma con la consapevolezza di avere qualcuno che, pur in modo singolare, guarderà sempre loro le spalle.
Una storia quasi d'amore atipica e straziante, una rinascita che, più che di seconda occasione, sa di presa di coscienza di tutti i limiti di questo mondo e dell'altro.
Sempre che ci sia.
A volte capita di incrociare il cammino di alcuni film durissimi e "spietati", per usare un paragone eastwoodiano di quelli che saranno sempre benvoluti da queste parti.
Veri e propri pugni in faccia, che paiono giunti appositamente per far sanguinare.
Paddy Considine, figlio della scuola "hard rock" inglese dei Ken Loach e degli Shane Meadows - fu il protagonista dell'ottimo ed altrettanto potente Dead man's shoes - si iscrive a pieno titolo nella categoria con un esordio clamoroso, una storia dalle tinte fosche, drammatica e violenta che riporta alla mente le immagini del miglior - e già citato - Loach, quello del mio favorito My name is Joe.
Proprio con questo titolo Tyrannosaur condivide il protagonista, quel Peter Mullan che con Magdalene vinse qualche anno fa anche un Leone d'oro come regista, letteralmente gigantesco nel portare sulla scena il ringhiante Joseph, un uomo figlio di una vita che non è e non sarà mai abituata a lesinare colpi che lui pare pronto a restituire uno per uno.
A volte anche senza che sia necessario.
Al suo fianco Olivia Colman, interprete praticamente sconosciuta sulle scene internazionali eppure altrettanto brava nel rendere il charachter di Hannah, vittima designata dello stesso mondo cattivo che quelli come Joseph combattono senza guardare in faccia a nessuno.
Hannah non è come lui. Hannah porge l'altra guancia. Hannah che prega per chi la insulta anche se il suo Dio non le ha mai dato la possibilità di avere un figlio. Lei, che più di ogni altra cosa avrebbe desiderato essere madre. Hannah oppressa dai sogni, e da un marito che sfoga su di lei le frustrazioni di un'esistenza che non sarà mai come l'avremo sognata.
Hannah che pare destinata a soffocare in silenzio.
Ed è qui, che entra in scena Joseph.
Un relitto, un combattente, un alcolizzato, un uomo cattivo ed iroso, che non ha nulla a che spartire con la gentilezza e la carità per come Hannah le intenderebbe.
Joseph che colpisce, e ringhia come un cane. Joseph con la bava - e la birra - alla bocca.
Joseph così arrabbiato da allontanarsi da tutto e da tutti, dal suo Bluey all'amico alle soglie della morte.
Joseph, schiacciato dal tirannosauro.
Ma cosa sarà mai, questo predatore dei predatori?
Hannah se lo chiede, perchè vede in Joseph un salvatore.
Il tirannosauro è un ricordo che azzanna alla gola, il rumore dei passi di un amore perduto, e di un senso di colpa che la realtà insiste a cacciare indietro.
Perchè Joseph tratterebbe sua moglie ancora allo stesso modo.
Joseph è un uomo cattivo.
Joseph ringhia, e siede su una poltrona da rigattieri su un cumulo di lamiere abbattute con la testa di un cane in grembo. Un cane che è stato aizzato per troppi anni, come lui. E pare un sanguinario condottiero figlio della strada e della realtà seduto sul trono dal quale sferrerà l'attacco decisivo contro i sogni, e tutte quelle cose che si fermano soltanto in alto, sulle colline, nelle zone benestanti, e a volte non basta neppure quello.
Joseph che protegge e vendica un bambino.
Joseph che compra un vestito buono per il funerale dell'amico, e al pub, nel ricordarlo, pare quasi di stare in famiglia.
Joseph che è una speranza.
La speranza di Hannah.
Forse il tirannosauro non è così terribile come sembra.
E quei bambini asserragliati dentro la macchina in Jurassic Park non sono altro che in fuga da un mondo che pare sempre troppo cattivo, anche per i mastini più agguerriti.
Anche per Joseph.
Forse il tirannosauro è proprio lui.
Pronto a scendere dal suo improvvisato trono, ancora sporco di sangue, per guardare al futuro, nonostante tutto.
E Hannah ne sentirà i passi giungere da oltre quel confine invisibile che la separa dal mondo.
E non avrà paura.
Perchè il predatore più spietato che esista è lì per proteggerla.
Fino alla fine.
MrFord
"If you see him in the subway,
he'll be down
at the end of the car.
watching you move
until he knows
he knows who you are.
when you get off
at your station alone,
he'll know that you are.
know when you see him,
nothing can free him.
step aside, open wide,
it's the loner."
Neil Young - "The loner" -
La trama (con parole mie): Mia ha quindici anni, vive nel profondo dell'Essex e nel disagio delle periferie, sogna di diventare una ballerina, ha una madre ed una sorella minore con le quali convive a fatica ed è in lotta con il mondo e la vita.
Quando proprio la genitrice trova un nuovo fidanzato - il comunicativo e sempre disponibile Connor - e lo invita a trasferirsi da loro, la vita della ragazza viene completamente travolta: uscire dal guscio diviene un'occasione per confrontarsi con se stessa e provare di poter essere migliore di chi l'ha messa al mondo, di fatto relegandola alla lotta cui paiono essere destinate le adolescenti come lei e, in breve, sua sorella.
Ma l'uomo nasconde un segreto che riporterà Mia ed i suoi sogni ad una dimensione decisamente più reale.
E così uno dei film indipendenti più celebrati e premiati degli ultimi anni è giunto - con colpevole ritardo, lo ammetto - anche sugli schermi di casa Ford: praticamente da sempre ho provato una certa simpatia istintiva per il Cinema sociale britannico, anche e soprattutto grazie alla scoperta, ormai parecchio tempo fa, di un certo Ken Loach che è riuscito a crescermi come spettatore e non solo a suon di cazzotti sui denti grazie a perle quali My name is Joe - forse il suo film che preferisco ancora oggi -, che ricordano quanto sia dura vivere sogni e speranze quando si nasce in una periferia che può nascondere mondi e futuri quotidianamente messi alla prova da un presente spesso e volentieri ingombrante e privo di prospettive.
Fish tank - l'acquario dei pesci, per tradurlo liberamente, quasi fosse un'immagine finto poetica -, premiato a Cannes ed osannatissimo in rete e oltre, si inserisce alla perfezione nella tradizione del buon Ken strizzando l'occhio alle generazioni attuali legate ad Mtv e a prodotti più leggeri come Misfits senza dimenticare quanto, ai Festival - e soprattutto sulla Croisette -, vengano apprezzate le pellicole neorealiste di chiara ispirazione dardenniana: un film tosto, che si dibatte e sbatte contro le pareti trasparenti del suddetto acquario sperando di sfondarlo a suon di testate, ben scritto ed interpretato ottimamente da un cast che rende benissimo l'idea della strada trascinato da un come al solito ottimo Michael Fassbender, ormai certezza del Cinema europeo e non solo.
Eppure, nonostante un impatto emotivo non indifferente ed una sorta di partecipazione che cresce nello spettatore a dispetto del fatto che non esista, di fatto, un personaggio con il quale empatizzare fino in fondo, ho trovato Fish tank un ritratto fin troppo simile alla sua protagonista: una pellicola con ottime potenzialità che combatte fino a ritrovarsi sfinita e senza le energie necessarie a sferrare il colpo decisivo per rimanere davvero impressa nella storia da spettatore di chi vi si pone innanzi.
Rispetto a pietre miliari quali This is England - altro titolo associabile al lavoro di Andrea Arnold -, infatti, la vicenda di Mia non riesce a superare il confine dell'incompiutezza che la giovane vive sulla sua pelle, ritratto perfetto della rabbia tutta adolescenziale per una vita che pare sempre - e forse lo è, a ben vedere - ingiusta e dall'altra parte della barricata: un personaggio scomodo, non piacevole, che fa tenerezza nei suoi tentativi di liberare la vecchia cavalla come se fosse il simbolo della sua stessa libertà e rabbia rispetto all'ostinazione di affrontare a muso duro ogni tentativo di entrare nel mondo che lei stessa non vuole altro - e disperatamente - che far conoscere e condividere: in questo senso, il confronto con l'amica ed il suo nuovo gruppo ad inizio pellicola e la gita con Connor, la madre e la sorella dalla pesca del pesce al ballo nel parcheggio rendono perfettamente l'idea, e risultano tra le più efficaci di una pellicola forse discontinua, ma sicuramente interessante anche nei suoi difetti.
Proprio Connor - cui presta presenza e fisicità il già citato Fassbender - è la benzina che accende la miccia della vera rivolta di Mia, iniziata come un atto di emancipazione rispetto alla madre, proseguita come la scoperta dell'amarezza che l'amore - o qualunque cosa sia - può riservare soprattutto quando non si è maturi abbastanza per comprenderne i rischi e conclusa con un confronto che vede sempre i più piccoli ed indifesi - pur se in modo diverso - fuggire dal proprio predatore, nel passaggio più drammatico e terribile della pellicola, risolto alla grande dalla regista - di fatto, il doppio faccia a faccia tra Mia e Keira prima e Mia e Connor poi risulta essere l'unico vero lampo di genio della Arnold -: attorno, una cornice di miseria umana e sociale che ricorda quella affrontata dalla Rosetta dei - di nuovo - Fratelli Dardenne e della sua ispiratrice, la Mouchette di Bresson, che anticipò perfino i malesseri della crescita del Doinel di Truffaut.
Un film da vedere a cuore aperto, senza soffermarsi troppo sui carrelli laterali o le immagini poetiche a volte inserite soltanto per "fare numero", concentrandosi sulla sua poco avvicinabile antieroina lasciando che la memoria riporti anche noi al periodo in cui, con le ossa ancora fragili, ci affacciavamo sulla vita adulta con la voglia di menare le mani senza sapere che, alla fine, le prime vittime di uno scontro saremmo stati proprio noi.
Soltanto quando il presente non sarà più abbastanza e Mia deciderà di muoversi verso il futuro - che non sarà roseo, ma rappresenterà comunque qualcosa - le cose parranno davvero mettersi in moto, e lo stesso abbraccio alla sorella poco prima della partenza diverrà una testimonianza sentita e profonda del cambiamento: verrebbe da chiedersi cosa accadrebbe se la regista decidesse di legare un'intera storia di crescita e ben più di un lungometraggio alla sua protagonista, portando Katie Jarvis con lei come fece il già citato Truffaut da I quattrocento colpi in avanti.
Forse ci troveremmo al principio di un percorso straordinario.
E anche questo imperfetto punto di partenza assumerebbe un significato ancora più importante.
Un pò come l'adolescenza.
Un pò come la vita.
Uscire fuori dall'acquario e vedere com'è il mondo.
Anche quando potrebbe voler dire finire infilzati dal primo Connor cui si crede di dovere il cuore - e non solo -.
MrFord
"Ogni adolescenza coincide con la guerra
che sia falsa, che sia vera
ogni adolescenza coincide con la guerra
e così sempre sarà."
Tre Allegri Ragazzi Morti - "Ogni adolescenza" -
La trama (con parole mie): Dennis Howard Marks è ed è stato molte cose, nel corso della sua vita. Nato in un paesino del Galles da una modesta famiglia di lavoratori ha sognato di essere Elvis, si è laureato in fisica al prestigioso Balliol College, è divenuto il trafficante di droghe leggere più importante della storia, è stato una quasi spia dell'MI6, ha avuto rapporti con esponenti dell'IRA, della Mafia, della French Connection, è scampato ad una condanna in Inghilterra ed è stato perseguitato dalla DEA neanche fosse il più pericoloso dei criminali al mondo, ha scontato anni nel terribile penitenziario di Terre Haute, il peggiore degli States, è stato latitante per anni assumendo numerose differenti identità, ha accumulato e perso milioni, vissuto in numerosi Paesi e trafficato in altrettanti, fino ad arrivare a guadagnarsi il soprannome di Marco Polo per il ponte che costituì tra Oriente ed Occidente.
Ma soprattutto, Howard Marks è ed è stato un figlio, un padre ed un marito.
Ed ancora di più, un esploratore appassionato della vita.
Mr. Nice è la sua autobiografia.
Senza dubbio, prima di cominciare, devo ringraziare il mio fratellino Dembo per avermi fatto conoscere questo libro e, indirettamente, Howard Marks.
Ora, potrei stare qui a sproloquiare e raccontarvi, quasi idealizzandole, le imprese come trafficante di hashish e marijuana di uno dei veri pionieri del settore, uno dei più rivoluzionari ed estrosi personaggi della storia del crimine, un uomo che a quasi vent'anni ha scoperto di amare il rito della fumata - "High time" fu il primo libro che si dedico alle sue imprese, giusto per rimanere in tema - e ha deciso che procurare lo stesso piacere a quante più persone possibili arricchendosi e provando brividi unici nel contempo era quello che avrebbe voluto fare nella vita, ma non lo farò.
Cercherò di parlare il meno possibile, infatti, dell'aspetto più noto della vita di Howard Marks, in parte perchè ho sempre detestato il "fenomeno Scarface" che porta fin troppi ragazzi - e non solo, purtroppo - a considerare il crimine cool quasi fosse un'affermazione di potere e potenza, in parte perchè non sono le imprese come trafficante ad avermi colpito maggiormente, nel corso di questa autobiografia, ma l'uomo che le ha compiute.
Howard Marks, infatti, è riuscito subito ad entrarmi nel cuore grazie ad un innato carisma ed uno spirito da cercatore che, senza dubbio e più di una spiccata intelligenza, è stato il vero motore di ogni suo successo, e benzina per il riscatto nelle ore più buie: un ragazzo nato in un paesino di minatori nel cuore del Galles che da adolescente sognava di imitare Elvis, mosso quasi esclusivamente dalla curiosità e dalla voglia di scoprire il mondo ed il posto da occupare al suo interno, è arrivato ad essere considerato una sorta di quasi profeta, viaggiando in tutto il mondo - stupendo il passaggio del suo viaggio lungo il confine pakistano, dove nessun occidentale era mai stato, alla scoperta del mondo di contadini che vivono e muoiono su montagne che non hanno frontiere fabbricando l'hashish migliore del mondo - senza perdere lo spirito guascone e generoso di chi adora essere circondato dalle persone che ama, che dichiara che offrire una bevuta, cibo e una fumata a chi lo desidera resta uno dei più grandi piaceri della vita, che soffre per gli amici perduti lungo la strada ed anche per i nemici - ancora una volta, ottimi i passaggi che vedono Marks provare rimorso profondo per l'ufficiale che si tolse la vita quando il processo intentato contro di lui dalle corti inglesi fallì, o il momento in cui rifiutò di insultare la Spagna per evitare l'estradizione negli Usa, o ancora la punta di dispiacere per gli acciacchi fisici della sua nemesi più terribile, l'agente della DEA Lovato -, che nel carcere più duro e terribile degli Usa - Terre Haute, nell'Indiana, l'incubo di ogni detenuto - riesce a sopravvivere alla paura e allo sconforto mantenendo rapporti equilibrati con i membri delle più svariate organizzazioni criminali del mondo.
Un racconto di vita, questo, che ho associato immediatamente ad Educazione di una canaglia del mitico Edward Bunker, e che nonostante le differenze tra i due protagonisti mostra l'altra faccia di chi vive - o ha vissuto - oltre la legge e soltanto con il suo talento e la sua passione è riuscito non soltanto a trovare un riscatto, ma anche una nuova via verso il successo.
Da questo punto di vista, e al contrario della rabbia di Bunk, l'umanità di Howard Marks sta tutta nell'affetto che lo lega a luoghi e persone, dai lavoratori umili per le strade di Bangkok - di intensità notevole la vicenda di Sompop e la catenina protettiva che quest'ultimo gli regalerà - alla sua famiglia, dai genitori - da brividi il momento di sconforto vissuto dal protagonista nel corso della sua detenzione negli Usa, quando il costoso avvocato fu pagato grazie alla vendita della casa che i suoi comprarono da giovani, o la paura di Marks stesso di fronte all'idea di non riuscire a tornare in libertà in tempo per ritrovare i suoi vecchi ancora vivi - ai figli, fino alla compagna di una vita Judy, anch'ella autrice di un libro che racconta il loro rapporto, dalle sbronze dei giorni di gloria alla magia della prima figlia annunciata nella cornice di Campione d'Italia fino al dramma del loro arresto a Palma.
E tra Hong Kong, Manila, Bangkok, Karachi, il Canada, gli States, l'Europa - il passaporto di Mr. Nice, una delle identità assunte da Howard nei suoi anni di latitanza, pare si trovi ancora sepolto da qualche parte nei giardini pubblici dell'appena citata Campione, e sono curiose le testimonianze "da straniero" del Nostro a proposito di Padova, Napoli o Palermo - il viaggio di quest'uomo dalle mille risorse pare non conoscere una pausa neppure quando è la DEA, espressione della potenza dello stato più incredibile e terribile del mondo a muovergli guerra finendo per allontanarlo da amici, parenti, moglie, figli e soprattutto dalla libertà, quella stessa che - e sono sicuro che Howard Marks per primo la pensa così - vale decisamente più di una ricchezza spropositata.
Anche perchè, in fondo, per quanto se la sia goduta, il buon Mr. Nice ha dichiarato in più di un'occasione che se le droghe leggere fossero state legalizzate lui avrebbe volentieri fatto parte dei più accesi sostenitori di questo passaggio: del resto - e sono parole del vecchio How che condivido - se le droghe - tutte, nessuna esclusa - fossero vendute in farmacia e distribuite come prodotti approvati dalla legge, almeno la metà delle organizzazioni criminali mondiali - non soltanto quelle non violente come fu sempre per Marks ed i suoi compagni, ma anche le più pericolose - verrebbero debellate senza il bisogno di alzare un dito, e ognuno di noi sarebbe libero di scegliere di essere dipendente da una sostanza accettandone le conseguenze - come è già con alcool e sigarette -.
Ma se così fosse, che ne sarebbe di quel brivido che ci spinge a muovere sempre un passo oltre?
Non è difficile trovarlo.
In fondo, Howard Marks lo ha capito in un momento ben preciso della sua vita.
Il momento in cui, tra decine di identità che lo avevano accompagnato in tutto il mondo e negli anni, venne determinata la sua più importante.
Il momento in cui fu chiamato papà.
MrFord
"You and me
and the guy from the Sparks
hanging out with Howard Marks
we're the three musketeers yeah
gather round with your beers yeah
there's no need for the fears."
Super Furry Animals - "Hangin' out with Howard Marks" -
La trama (con parole mie): a seguito del trauma di un incidente occorso ad un'attrice durante le riprese di Dream e della delusione cocente rispetto agli ambienti cinematografici, Kim Ki Duk, regista di fama mondiale, dal 2008 si ritira in montagna, in una baita priva anche del bagno, vivendo in solitudine e, colto da una sorta di "blocco del regista", ridotto a filmarsi per potersi sentire vivo.
Il risultato è una sorta di ibrido tra dramma esistenziale e documentario in cui il cineasta mette a nudo parte della sua vita, delle sue aspirazioni e dei successi, autocelebrandosi eppure mostrando tutti i punti deboli di una persona ferita quasi una storia importante fosse finita improvvisamente.
A volte, partire con il freno a mano tirato può essere utile, in merito alle aspettative più o meno rispettate di una visione: nonostante la sua fama ed i fan da una parte e dall'altra della barricata del Cinema d'autore - spartiacque fornito, nel caso del regista coreano, da "Primavera, estate, autunno, inverno... E ancora primavera" -, quest'ultima fatica di Kim Ki Duk era stata accolta tiepidamente, apparendo troppo autocelebrativa agli appassionati e decisamente ostica per il pubblico occasionale.
Dunque, pronto ad una visione che si sarebbe potuta rivelare irritante - le bottiglie scalpitavano già nel fodero -, ho approcciato ad Arirang pensando che sarebbe stato il primo titolo dell'autore di Ferro 3 e Bad guy ad essere stroncato dal sottoscritto, nel pieno spirito di questo ottobre in cui spesso e volentieri mi sono cimentato nel bottigliamento selvaggio di nomi altisonanti.
Al contrario di quanto mi aspettassi, però, nonostante le mie più battagliere intenzioni, mi sono ritrovato ad apprezzare - e molto, in alcuni passaggi - quest'anomala fatica di Kim Ki Duk, che ancora una volta dimostra di essere un vero e proprio fenomeno del montaggio - da manuale dall'inizio alla fine - nonchè un uomo dalle mille risorse - vederlo assemblare una macchina per il caffè fatta in casa memore del suo passato in fabbrica rende bene l'idea di quanto possa essere importante, come regista, avere un'ottima manualità - e, perchè no, con tutti i limiti, le idiosincrasie e gli sbalzi d'umore che caratterizzano anche tutti noi che non siamo certo cineasti di fama mondiale.
Se, dunque, a tratti il tono appare effettivamente autocelebrativo - l'insistita inquadratura dei talloni segnati, il dialogo con l'ombra, le locandine dei film appese nella baita accanto ai premi ricevuti a Venezia e Berlino -, nel complesso questo tentativo risulta genuino ed interessante, specialmente nel momento in cui, fornendo un'interpretazione di quelle che sono le sue paure, esperienze e domande rispetto al futuro nel corso di un dialogo che mi ha riportato alla mente i deliri di Gollum e Smeagol - e anche qui, montaggio da fuoriclasse -, Kim Ki Duk indaga sul suo disagio cercando di portare alla luce tutto quello che, nel corso degli anni e della sua ascesa come icona del Cinema mondiale, pare essersi perduto lungo la strada.
I riferimenti ai collaboratori e produttori scomparsi di colpo - andati dove c'era garanzia di più denaro, con ammissione di avere, a volte, fatto lo stesso - o agli organi statali che conferiscono medaglie legate alla fama conquistata nel mondo senza neppure preoccuparsi di vedere film che criticano la società che loro stessi rappresentano appaiono assolutamente sinceri ed attuali, e se meno interessanti sono gli attimi di commozione del regista nel riscoprire proprio il già citato "Primavera, estate, autunno, inverno... E ancora primavera" le sue invettive da ubriaco - quel "figli di puttana" neanche fossimo al saloon è stato assolutamente mitico -, la cacca all'aperto il mattino, la cucina, i racconti del passato ed il cibo al gatto randagio aggiungono spessore ad un personaggio sfuggente e a suo dire - e non solo - solitario, che ha trovato nella regia uno scopo ed una strada in grado di strapparlo da una vita di stenti alla quale ora torna ad avvicinarsi per trovare uno stimolo a ricominciare.
Un'opera certo non per tutti - ed intendo anche gli stessi fan del regista -, ma in grado di portare ad un altro livello il discorso autobiografico tentato da Joaquin Phoenix e Casey Affleck con I'm still here, fornendo un ritratto a suo modo unico che gli studenti di Cinema e gli aspiranti registi - e montatori - non dovrebbero perdersi per nulla al mondo.
In fondo, passi falsi o no, look da senzatetto o Mac di ultima generazione, abbiamo di fronte uno dei talenti più incredibili prodotti dalla settima arte negli ultimi vent'anni.
MrFord
"Oh dancing with myself
oh dancing with myself
well there's nothing to lose
and there's nothing to prove
I'll be dancing with myself."
Billy Idol - "Dancing with myself" -